Cronache di Anna I - Chi era Anna
di
Marcello Callisto
genere
etero
Anna appartiene alla fantasia. Sì, so cosa pensate: che l’ho inventata. Come sempre, vi sbagliate. Anna appartiene alla fantasia perché la fantasia è la matrice dei suoi pensieri. Il nome è di fantasia, o forse no. Io, Marcello Callisto, di Anne ne ho conosciute. E non posso escludere che da qualche parte, in qualche città, ce ne sia davvero una che si chiama così.
Le Anne sono quelle donne che per avere successo devono diventare uomini. Devono negarsi. Devono seppellirsi sotto maschere pesanti. E quella maschera pesa, pesa troppo. Serve una valvola. Serve una via di fuga. Anna la trova nel solo modo possibile: scoprendo il suo corpo, trasformando il bisogno in vita, la vergogna in piacere.
Anna non scopa come le altre. Anna realizza. Ogni fantasia diventa carne. Ogni desiderio diventa storia. Se non lo facesse, morirebbe dentro. Perché la vita da uomo, la vita mascherata, la ucciderebbe.
Anna è una testimone. Una testimone sporca e perfetta di quello che nessuno vuole ammettere: noi maschi siamo strumenti. Non padroni. Il cazzo è il martello, certo, ma la mano che lo impugna è femmina. Sì, certo, esiste anche la violenza. La violenza vera. Quella che spezza, che distrugge. Ma quella è la pornografia sociale, quella marcia, che spinge chi non sa amare a prendere per odio.
E sì, lasciatemelo dire: chi stupra non è un uomo, è solo un cripto-gay che non ha il coraggio di guardarsi allo specchio. Perché chi desidera davvero una donna non la spezza. La accende.
Scusate. Divago. Sono fatto così.
Torniamo ad Anna. Torniamo a quelle che nel sesso non sono oggetti. Sono regine. Non ci credete? Se esistesse un godometro, capireste subito chi vince davvero.
Noi, poveri maschietti, siamo solo strumenti del loro piacere. E quando lo capiamo, allora, forse, possiamo godere anche noi del loro regno.
Chi era Anna, allora? Ora ve lo racconto.
Anna comandava. A trent’anni si era presa l’azienda di logistica lasciata da suo padre. Ne dimostrava meno. Corpo teso, giovane, seno piccolo e nervoso, culo pieno e duro, gambe lunghe da cavalcare. Monte di Venere gonfio, coperto da un riccio nero tagliato a triangolo. Spalle minute, fianchi vivi. Un corpo disegnato per il peccato. Soldi ne aveva, e tanti. E uomini attorno, sempre. Ma leccavano più i suoi soldi che il suo odore. E a lei non bastava. Anna voleva cazzo. Non carezze, non parole. Cazzo. Dentro di lei il bisogno saliva come una febbre.
All’inizio aveva avuto paura di quella fame. Aveva parlato con uno psicologo. Una questione di sangue, le aveva detto. Suo padre era stato un puttaniere. Lei aveva solo ereditato il fuoco. I geni erano quelli, non ci poteva far niente. Allora si era arresa. No, meglio: si era offerta. Donna d’affari di giorno, puttana di notte. Con gioia. Senza rimorsi.
L’odore del cazzo la stordiva. Mai toccato droga. Non serviva. Il cazzo era la sua droga, il suo veleno, la sua cura. Anna non cercava tenerezza. Non cercava amore. Non cercava carezze dolci. Aveva il fuoco dentro, ma non voleva spegnerlo con l’acqua. Voleva che ci gettassero sopra legna e benzina.
Era una fallocrate. Non amava gli uomini per quello che erano, ma per quello che avevano. Il cazzo era la loro unica verità. Non era debolezza, la sua. Né masochismo. Era adorazione per il cazzo come potere, come totem, come antidoto alla sterilità del mondo civile. Anna era una fallocrate perché il cazzo era il suo dio. E lei non voleva salvarsi. Voleva perdersi.
Il cazzo era il bastone, l’asta che la inchiodava alla sua verità più sporca. E lei voleva essere inchiodata, svuotata, dominata, ridotta a corpo puro. Ma non si accontentava di essere presa. Non bastava che un uomo la volesse. Lei voleva scatenarlo. Voleva vederlo perdere il controllo, voleva sentirlo rompersi sotto il bisogno di averla, voleva che lui stesso si stupisse di quanto la desiderava.
E per arrivarci, giocava. Non come una ragazzina. Con perfidia. Fingeva. Fingeva bene. Una maestra. Fingeva di essere ingenua, fingeva di non accorgersi dei loro sguardi, fingeva di confondersi, di inciampare, di sbagliare un gesto. Faceva scivolare il bordo della camicia, lasciava un bottone in più aperto, piegava la schiena per “raccogliere” qualcosa, lasciando vedere tutto quello che un uomo poteva solo immaginare. Ogni movimento una trappola mascherata da innocenza. Ogni sorriso un’arma.
Non li seduceva: li costringeva a desiderarla. Li costringeva a volerla prendere, spaccare, possedere senza pietà. Era questo che cercava. Non un cazzo qualsiasi. Non una scopata qualsiasi. Voleva che un uomo si sentisse obbligato a cancellare tutto, a lasciarsi andare come una bestia davanti a lei. Voleva che il cazzo si gonfiasse non solo di sangue, ma di rabbia, di voglia, di disperazione. Solo allora era pronta a offrirsi. Solo allora il gioco valeva la pena.
Anna non era una facile. Anna era una cacciatrice mascherata da preda. E il suo più grande piacere era vederli cadere nella trappola senza nemmeno accorgersene.
Quel poveraccio. Un cinquantenne qualunque: altezza normale, pancia normale, occhiali normali. Usciva dal portone di casa senza sapere che stava per essere scelto. Anna lo vide e lo scelse. Finse di essersi persa. Finse di essere un po’ confusa. Un sorriso nervoso sulle labbra, gli chiese un bicchiere d’acqua. E, inciampando “per sbaglio”, si strusciò contro di lui.
«Non vorrei approfittare…» sussurrò, con una voce che sapeva di stordimento, non già di peccato. «Ma potrebbe portarmi a casa? Un attimo che mi riprendo, poi chiamo mio cugino…»
Come poteva rifiutare? Aveva avuto voglia di scoparsela appena l’aveva vista. Quando il suo corpo si era sfiorato contro il suo, il cazzo aveva avuto un sussulto. Un sogno, si disse. Un sogno che non può avverarsi. Peccato, si disse.
Ma non sapeva. Non poteva sapere in che trappola stava cadendo. Non poteva immaginare che avrebbe girato la città come un cane a cercarla. Che l’avrebbe pregata, supplicata, dopo quello che sarebbe successo a casa.
Voi lettori… voi pensate di immaginarlo. Ma vi sbagliate. Non potete immaginarlo. Perché ancora non conoscete la fantasia di Anna. Quasi quasi… quasi quasi non ve la racconto nemmeno. È troppo. O forse sì. Perché una regina del sesso come lei merita di essere conosciuta.
Ve la racconterò. Ma vi avverto: leggete da seduti. Io, Marcello Callisto, ve lo dico per il vostro bene.
Le Anne sono quelle donne che per avere successo devono diventare uomini. Devono negarsi. Devono seppellirsi sotto maschere pesanti. E quella maschera pesa, pesa troppo. Serve una valvola. Serve una via di fuga. Anna la trova nel solo modo possibile: scoprendo il suo corpo, trasformando il bisogno in vita, la vergogna in piacere.
Anna non scopa come le altre. Anna realizza. Ogni fantasia diventa carne. Ogni desiderio diventa storia. Se non lo facesse, morirebbe dentro. Perché la vita da uomo, la vita mascherata, la ucciderebbe.
Anna è una testimone. Una testimone sporca e perfetta di quello che nessuno vuole ammettere: noi maschi siamo strumenti. Non padroni. Il cazzo è il martello, certo, ma la mano che lo impugna è femmina. Sì, certo, esiste anche la violenza. La violenza vera. Quella che spezza, che distrugge. Ma quella è la pornografia sociale, quella marcia, che spinge chi non sa amare a prendere per odio.
E sì, lasciatemelo dire: chi stupra non è un uomo, è solo un cripto-gay che non ha il coraggio di guardarsi allo specchio. Perché chi desidera davvero una donna non la spezza. La accende.
Scusate. Divago. Sono fatto così.
Torniamo ad Anna. Torniamo a quelle che nel sesso non sono oggetti. Sono regine. Non ci credete? Se esistesse un godometro, capireste subito chi vince davvero.
Noi, poveri maschietti, siamo solo strumenti del loro piacere. E quando lo capiamo, allora, forse, possiamo godere anche noi del loro regno.
Chi era Anna, allora? Ora ve lo racconto.
Anna comandava. A trent’anni si era presa l’azienda di logistica lasciata da suo padre. Ne dimostrava meno. Corpo teso, giovane, seno piccolo e nervoso, culo pieno e duro, gambe lunghe da cavalcare. Monte di Venere gonfio, coperto da un riccio nero tagliato a triangolo. Spalle minute, fianchi vivi. Un corpo disegnato per il peccato. Soldi ne aveva, e tanti. E uomini attorno, sempre. Ma leccavano più i suoi soldi che il suo odore. E a lei non bastava. Anna voleva cazzo. Non carezze, non parole. Cazzo. Dentro di lei il bisogno saliva come una febbre.
All’inizio aveva avuto paura di quella fame. Aveva parlato con uno psicologo. Una questione di sangue, le aveva detto. Suo padre era stato un puttaniere. Lei aveva solo ereditato il fuoco. I geni erano quelli, non ci poteva far niente. Allora si era arresa. No, meglio: si era offerta. Donna d’affari di giorno, puttana di notte. Con gioia. Senza rimorsi.
L’odore del cazzo la stordiva. Mai toccato droga. Non serviva. Il cazzo era la sua droga, il suo veleno, la sua cura. Anna non cercava tenerezza. Non cercava amore. Non cercava carezze dolci. Aveva il fuoco dentro, ma non voleva spegnerlo con l’acqua. Voleva che ci gettassero sopra legna e benzina.
Era una fallocrate. Non amava gli uomini per quello che erano, ma per quello che avevano. Il cazzo era la loro unica verità. Non era debolezza, la sua. Né masochismo. Era adorazione per il cazzo come potere, come totem, come antidoto alla sterilità del mondo civile. Anna era una fallocrate perché il cazzo era il suo dio. E lei non voleva salvarsi. Voleva perdersi.
Il cazzo era il bastone, l’asta che la inchiodava alla sua verità più sporca. E lei voleva essere inchiodata, svuotata, dominata, ridotta a corpo puro. Ma non si accontentava di essere presa. Non bastava che un uomo la volesse. Lei voleva scatenarlo. Voleva vederlo perdere il controllo, voleva sentirlo rompersi sotto il bisogno di averla, voleva che lui stesso si stupisse di quanto la desiderava.
E per arrivarci, giocava. Non come una ragazzina. Con perfidia. Fingeva. Fingeva bene. Una maestra. Fingeva di essere ingenua, fingeva di non accorgersi dei loro sguardi, fingeva di confondersi, di inciampare, di sbagliare un gesto. Faceva scivolare il bordo della camicia, lasciava un bottone in più aperto, piegava la schiena per “raccogliere” qualcosa, lasciando vedere tutto quello che un uomo poteva solo immaginare. Ogni movimento una trappola mascherata da innocenza. Ogni sorriso un’arma.
Non li seduceva: li costringeva a desiderarla. Li costringeva a volerla prendere, spaccare, possedere senza pietà. Era questo che cercava. Non un cazzo qualsiasi. Non una scopata qualsiasi. Voleva che un uomo si sentisse obbligato a cancellare tutto, a lasciarsi andare come una bestia davanti a lei. Voleva che il cazzo si gonfiasse non solo di sangue, ma di rabbia, di voglia, di disperazione. Solo allora era pronta a offrirsi. Solo allora il gioco valeva la pena.
Anna non era una facile. Anna era una cacciatrice mascherata da preda. E il suo più grande piacere era vederli cadere nella trappola senza nemmeno accorgersene.
Quel poveraccio. Un cinquantenne qualunque: altezza normale, pancia normale, occhiali normali. Usciva dal portone di casa senza sapere che stava per essere scelto. Anna lo vide e lo scelse. Finse di essersi persa. Finse di essere un po’ confusa. Un sorriso nervoso sulle labbra, gli chiese un bicchiere d’acqua. E, inciampando “per sbaglio”, si strusciò contro di lui.
«Non vorrei approfittare…» sussurrò, con una voce che sapeva di stordimento, non già di peccato. «Ma potrebbe portarmi a casa? Un attimo che mi riprendo, poi chiamo mio cugino…»
Come poteva rifiutare? Aveva avuto voglia di scoparsela appena l’aveva vista. Quando il suo corpo si era sfiorato contro il suo, il cazzo aveva avuto un sussulto. Un sogno, si disse. Un sogno che non può avverarsi. Peccato, si disse.
Ma non sapeva. Non poteva sapere in che trappola stava cadendo. Non poteva immaginare che avrebbe girato la città come un cane a cercarla. Che l’avrebbe pregata, supplicata, dopo quello che sarebbe successo a casa.
Voi lettori… voi pensate di immaginarlo. Ma vi sbagliate. Non potete immaginarlo. Perché ancora non conoscete la fantasia di Anna. Quasi quasi… quasi quasi non ve la racconto nemmeno. È troppo. O forse sì. Perché una regina del sesso come lei merita di essere conosciuta.
Ve la racconterò. Ma vi avverto: leggete da seduti. Io, Marcello Callisto, ve lo dico per il vostro bene.
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