Cronache di Anna VIII - La richiesta di perdono
di
Marcello Callisto
genere
etero
Il telefono squillò. Lui esitò un momento prima di rispondere. Aveva ancora addosso la voglia, la sete che Anna aveva lasciato dentro di lui. Acqua di una fonte che non disseta, quella donna. «Pronto?» La voce roca, graffiata. Dall’altra parte, quella di Anna. Dolce. Morbida. Come un coltello avvolto nella seta. «Ciao… sono io…» Un sospiro. Un tremito. «Scusami… per ieri…» Un’altra esitazione, quasi un singhiozzo. «Non so cosa mi sia preso… mi sono confusa…» Lui taceva. Ascoltava. Il cuore martellava. «Vorrei farmi perdonare… essere punita… come merito…» La voce si abbassò, una lama sottile. «Se vuoi… torno da te… vestita come piace a te…» Una pausa carica di finta paura. «E invita i tuoi amici… quelli veri… quelli che non si fanno problemi…» Un respiro spezzato. «Mi vestirò bene… con la biancheria sotto… e… non dirò mai di no…» Un sussurro, la stilettata: «Promettimi solo… che mi farai sentire quanto sono stata cattiva.» Un click. Linea morta. E lui lì, col cazzo duro nei pantaloni e l’immagine di Anna che gli bruciava gli occhi.
Era sera. L’aria puzzava di metallo e pioggia. Anna guidava lenta, il cuore freddo, la figa calda. Quel giorno al lavoro aveva licenziato cinque dipendenti, senza tremare, senza voltarsi indietro: tecnicamente “scarso rendimento”, ufficialmente “rottura del rapporto fiduciario”. In realtà, il vero motivo era che non avevano dato il culo all’azienda come dovevano. Avevano tenuto il freno tirato, si erano trattenuti, avevano creduto di potersi salvare. E Anna non salvava nessuno. Ora, però, toccava a lei: era il suo turno di dare il culo, non all’azienda, ma a qualcosa di più feroce, più sporco, più inevitabile.
Parcheggiò. Vestitino color panna che sfiorava a malapena metà coscia. Gambe nude, ballerine innocenti. Sotto, solo cotone bianco: reggiseno sottile che tradiva i seni piccoli e tesi, slip tirati sulla figa umida. Una goccia di gloss sulle labbra. Un battito d’ali di mascara. Più puttana così che con mille rossetti.
Si avvicinò alla porta e suonò. Il cuore le batteva piano, non per paura, ma per eccitazione: ogni passo la portava più vicina al suo sacrificio. La porta si aprì. Dentro, il cinquantenne che aveva sedotto la volta precedente la guardava in silenzio, con un’espressione indecifrabile. Dietro di lui, cinque uomini sparsi nella stanza, uomini veri, rozzi, senza maschere.
Anna abbassò la testa. Mani intrecciate davanti al sesso. La voce tremava, dolce come una confessione: «Scusami… ti ho mancato di rispetto… vi prego… lasciatemi rimediare…», disse al cinquantenne
Il silenzio era denso come olio bruciato. Gli uomini la squadravano. Il rasato: collo taurino, mani da macellaio. Il giovane: occhi da predatore, odore di strada. Il magro: nervi scoperti, fame negli occhi. Il muratore: mani sporche, vene tese. L’anziano: lento, inesorabile, uno sguardo che consumava.
Cinque bestie. Cinque cazzi che già premevano nelle mutande.
Anna rimase lì, immobile, il vestitino leggermente sollevato dal tremore delle gambe. Sentiva la pelle pizzicare, il sesso pulsare, le labbra inturgidirsi sotto lo slip. Si inginocchiò piano, senza che nessuno glielo ordinasse, appoggiando le mani sulle ginocchia, il viso rivolto verso il pavimento, la schiena leggermente arcuata. Era pronta. Era loro.
Anna rimase inginocchiata qualche secondo, il fiato lento, la testa bassa. Poi, con una lentezza quasi cerimoniale, si sollevò in piedi, al centro della stanza. Si mosse come se appartenesse già a loro, come se ogni gesto non fosse più suo. Le mani si abbassarono lungo il corpo sottile, fino a incrociarsi sul pube, coprendo timidamente la parte più vulnerabile di sé, come una bambina che cerca di nascondere ciò che sa già di aver mostrato. Si fermò così, le spalle leggermente curve in avanti, il capo chino, le gambe appena divaricate, il vestitino che sfiorava la metà delle cosce, tremolando per il respiro irregolare. Sembrava vuota, svuotata di volontà, pronta a essere posseduta come una cosa lasciata per terra.
Ma dentro, sotto quella maschera di resa, il suo sangue cantava. Ogni fibra del suo corpo urlava desiderio. Sentiva la figa pulsare sotto il cotone bianco degli slip, sentiva i capezzoli indurirsi contro il reggiseno leggero, sentiva il bisogno montare come un’onda nera che minacciava di travolgerla. Non era lì per chiedere pietà. Era lì per essere presa. Sporca. Senza difese. Senza ritorno.
Gli uomini si scambiarono uno sguardo. Poi, come cani annusata la preda, iniziarono a commentare a bassa voce, camminando verso di lei.
«Guarda come si è messa… una verginella al catechismo…» ringhiò il muratore, la voce roca, le mani serrate.
«Vergine un cazzo… guarda come le tremano le cosce… la puttanella sa già cosa vuole…» sbuffò il rasato, la maglietta che sembrava esplodere sui muscoli tesi.
«Scommetto che ha la figa fradicia sotto quegli slippini bianchi…» rise il giovane con la giacca di pelle, gli occhi da lupo affamato.
«Io glielo voglio sentire… il calore…» sibilò il magro nervoso, le mani già frenetiche.
«Bella bambolina… chissà come grida quando le strappano la dignità…» ghignò l’anziano, sputando per terra, gli occhi che la scorticavano viva.
Si avvicinarono senza fretta. Solo l’avidità lenta di chi sa che può prendersi tutto.
Il primo fu il muratore. Le afferrò il mento con una mano sporca e la costrinse a sollevare il viso. Anna lasciò fare, le mani ancora giunte sul pube. Gli occhi le bruciavano. Dentro di sé gemeva già.
Il rasato le infilò una mano sotto il vestitino. Nessuna delicatezza. Il palmo grosso sfiorò lo slip, premette forte. Sentì subito l’umidità.
«Porca troia… sta grondando…» ringhiò, mentre Anna emetteva un gemito, fingendo sorpresa ma spingendo il bacino contro quella mano.
Il giovane con la giacca di pelle la sfiorò ai fianchi, le infilò le dita nei capelli, le piegò la testa indietro e le leccò il collo. Un colpo di lingua sporco, animale, che la fece fremere.
Il magro le infilò due dita sotto lo slip da dietro, sfiorando il solco delle natiche, tirando il tessuto con un gesto rude, come a volerlo strappare.
L’anziano si limitava a guardarla, le mani sulle ginocchia, il cazzo già teso sotto i pantaloni.
Anna rimaneva lì. Ferma. Offerta. Le ginocchia tremavano. Sotto lo slip la figa colava. Nella testa, una sola parola martellava: prendetemi.
Uno alla volta, si mossero come lupi.
Il rasato le afferrò il bordo del vestito sopra le cosce e lo strappò verso l’alto. Le gambe nude, gli slip bianchi tesi, il ventre piatto che tremava. Anna lasciò cadere le mani lungo i fianchi. Non si difese.
«Guarda come è vestita… la troietta angelica…» ghignò il muratore, passando un dito sporco lungo la cucitura degli slip, premendo sul clitoride sotto il cotone umido.
Il giovane le scostò la spallina dalla spalla sinistra, poi dalla destra, facendo scivolare il vestito giù. Le braccia rimasero abbandonate. Il reggiseno sottile lasciava intravedere i capezzoli gonfi come spine.
Il magro, impaziente, strappò via il vestitino tutto insieme, lasciandola in biancheria, il respiro spezzato, gli occhi chiusi come chi sa che il castigo sta per cominciare.
Fu allora che si mosse il cinquantenne. Rimasto appoggiato alla parete come un boia paziente, ora avanzava lento. Gli occhi freddi. Le braccia incrociate. La bocca tesa. La vendetta in cammino.
Si fermò davanti ad Anna. Le sollevò il mento con due dita. «Adesso vediamo se sai chiedere scusa davvero…» disse piano, la voce che le fece tremare la spina dorsale.
Anna annuì. Piccola. Umile. Spezzata.
Gli uomini si chiusero intorno a lei, stringendo il cerchio.
Il muratore le infilò le dita sotto il bordo degli slip. Tirò giù piano. Il cotone bagnato scivolò lungo le gambe. Anna restò nuda, solo il reggiseno bianco a coprirle i seni tesi.
Il rasato la afferrò per il fianco, il pollice affondato nella carne. L’altra mano a palpare il seno, premendo, schiacciando.
Il giovane le sfiorò la schiena, affondò le dita tra le cosce, cercò il sesso umido, vibrante.
«Porca miseria, è già pronta…» rise piano.
Il magro le morse piano la spalla, salendo con la lingua ruvida fino al collo.
L’anziano non toccava. Solo guardava. E i suoi occhi erano coltelli che la marchiavano viva.
Anna, in mezzo a loro, tremava di attesa. Pronta. Fiera e distrutta allo stesso tempo.
E lei, in mezzo a loro, sentiva il suo corpo rispondere a ogni tocco, a ogni struscio, a ogni presa. La figa gocciolava calore lungo l’interno delle cosce, i capezzoli pungevano contro il reggiseno, le ginocchia minacciavano di cedere. Era un’offerta viva, vibrante, una bambola sacrificale pronta a essere aperta pezzo per pezzo.
Il cinquantenne, davanti a lei, non la toccava. La guardava. Con lo stesso sguardo con cui un boia guarda la lama prima di calarla. «Adesso,» disse, la voce lenta e vuota, «sei nostra. Ti useremo come meriti.»
Anna restava lì, nuda dalla vita in giù, il vestitino arrotolato sui fianchi, il reggiseno stretto a soffocare i seni tesi come frutti proibiti. Il cinquantenne fece un cenno, un ordine muto. Gli uomini si mossero subito.
Il rasato le afferrò il bordo del vestito e lo tirò via sotto i piedi come una pelle inutile. Anna rimase un istante solo con il reggiseno addosso, il respiro spezzato, la figa nuda e gonfia sotto gli occhi avidi.
Non le diedero tregua. Il giovane con la giacca di pelle le afferrò i polsi, la trascinò a sé, le affondò la lingua in bocca, senza chiederle nulla. Il sapore di tabacco e birra la invase mentre lei gemeva contro quella bocca violenta. Le mani del muratore la strinsero ai fianchi, una scese, si infilò tra le natiche, esplorando il solco stretto, scivolando poi tra le cosce, trovando la figa aperta, viva.
Il magro si avventò sui seni, tirò giù il reggiseno senza curarsi delle spalline, liberando i capezzoli tesi che subito cominciò a mordere, pizzicare, leccare con una fame animalesca. L’anziano si avvicinò da dietro, le mani callose che le aprirono piano la figa, come si apre un frutto maturo. Sussurrava frasi sporche che Anna non capiva più, persa com’era nel piacere.
Il cinquantenne restava in disparte. Guardava. Gli occhi che registravano ogni gemito, ogni fremito, ogni stilla di umiliazione colare da lei come miele impazzito.
Anna passava di mano in mano come una bambola viva: il rasato la stringeva, le strappava la pelle con la barba rasata; il giovane le succhiava la lingua, le frugava il sesso; il muratore le torceva i capezzoli fino a strapparle piccoli gemiti; il magro le leccava il ventre, il pube, risalendo con la lingua viscida fino all’ombelico.
Nessuno le dava tregua. Nessuno le lasciava spazio per respirare.
E lei, lei non faceva nulla per difendersi. Anzi, si abbandonava.
Il cuore le martellava nel petto, la figa pulsava aperta sotto le mani che la aprivano, la chiudevano, la testavano come un fiore troppo gonfio per restare chiuso.
Dentro di sé, Anna rideva. Dentro di sé, godeva come non aveva mai goduto. Era dove voleva essere. Nuda. Sporca. Usata. Un trofeo vivo passato da mano a mano.
Le mani grosse del muratore la afferrarono per le spalle, la spinsero giù senza una parola. Anna si piegò sulle ginocchia nude, il pavimento freddo che le bruciava la pelle. Tremava. Non di paura, ma di attesa.
Era sera. L’aria puzzava di metallo e pioggia. Anna guidava lenta, il cuore freddo, la figa calda. Quel giorno al lavoro aveva licenziato cinque dipendenti, senza tremare, senza voltarsi indietro: tecnicamente “scarso rendimento”, ufficialmente “rottura del rapporto fiduciario”. In realtà, il vero motivo era che non avevano dato il culo all’azienda come dovevano. Avevano tenuto il freno tirato, si erano trattenuti, avevano creduto di potersi salvare. E Anna non salvava nessuno. Ora, però, toccava a lei: era il suo turno di dare il culo, non all’azienda, ma a qualcosa di più feroce, più sporco, più inevitabile.
Parcheggiò. Vestitino color panna che sfiorava a malapena metà coscia. Gambe nude, ballerine innocenti. Sotto, solo cotone bianco: reggiseno sottile che tradiva i seni piccoli e tesi, slip tirati sulla figa umida. Una goccia di gloss sulle labbra. Un battito d’ali di mascara. Più puttana così che con mille rossetti.
Si avvicinò alla porta e suonò. Il cuore le batteva piano, non per paura, ma per eccitazione: ogni passo la portava più vicina al suo sacrificio. La porta si aprì. Dentro, il cinquantenne che aveva sedotto la volta precedente la guardava in silenzio, con un’espressione indecifrabile. Dietro di lui, cinque uomini sparsi nella stanza, uomini veri, rozzi, senza maschere.
Anna abbassò la testa. Mani intrecciate davanti al sesso. La voce tremava, dolce come una confessione: «Scusami… ti ho mancato di rispetto… vi prego… lasciatemi rimediare…», disse al cinquantenne
Il silenzio era denso come olio bruciato. Gli uomini la squadravano. Il rasato: collo taurino, mani da macellaio. Il giovane: occhi da predatore, odore di strada. Il magro: nervi scoperti, fame negli occhi. Il muratore: mani sporche, vene tese. L’anziano: lento, inesorabile, uno sguardo che consumava.
Cinque bestie. Cinque cazzi che già premevano nelle mutande.
Anna rimase lì, immobile, il vestitino leggermente sollevato dal tremore delle gambe. Sentiva la pelle pizzicare, il sesso pulsare, le labbra inturgidirsi sotto lo slip. Si inginocchiò piano, senza che nessuno glielo ordinasse, appoggiando le mani sulle ginocchia, il viso rivolto verso il pavimento, la schiena leggermente arcuata. Era pronta. Era loro.
Anna rimase inginocchiata qualche secondo, il fiato lento, la testa bassa. Poi, con una lentezza quasi cerimoniale, si sollevò in piedi, al centro della stanza. Si mosse come se appartenesse già a loro, come se ogni gesto non fosse più suo. Le mani si abbassarono lungo il corpo sottile, fino a incrociarsi sul pube, coprendo timidamente la parte più vulnerabile di sé, come una bambina che cerca di nascondere ciò che sa già di aver mostrato. Si fermò così, le spalle leggermente curve in avanti, il capo chino, le gambe appena divaricate, il vestitino che sfiorava la metà delle cosce, tremolando per il respiro irregolare. Sembrava vuota, svuotata di volontà, pronta a essere posseduta come una cosa lasciata per terra.
Ma dentro, sotto quella maschera di resa, il suo sangue cantava. Ogni fibra del suo corpo urlava desiderio. Sentiva la figa pulsare sotto il cotone bianco degli slip, sentiva i capezzoli indurirsi contro il reggiseno leggero, sentiva il bisogno montare come un’onda nera che minacciava di travolgerla. Non era lì per chiedere pietà. Era lì per essere presa. Sporca. Senza difese. Senza ritorno.
Gli uomini si scambiarono uno sguardo. Poi, come cani annusata la preda, iniziarono a commentare a bassa voce, camminando verso di lei.
«Guarda come si è messa… una verginella al catechismo…» ringhiò il muratore, la voce roca, le mani serrate.
«Vergine un cazzo… guarda come le tremano le cosce… la puttanella sa già cosa vuole…» sbuffò il rasato, la maglietta che sembrava esplodere sui muscoli tesi.
«Scommetto che ha la figa fradicia sotto quegli slippini bianchi…» rise il giovane con la giacca di pelle, gli occhi da lupo affamato.
«Io glielo voglio sentire… il calore…» sibilò il magro nervoso, le mani già frenetiche.
«Bella bambolina… chissà come grida quando le strappano la dignità…» ghignò l’anziano, sputando per terra, gli occhi che la scorticavano viva.
Si avvicinarono senza fretta. Solo l’avidità lenta di chi sa che può prendersi tutto.
Il primo fu il muratore. Le afferrò il mento con una mano sporca e la costrinse a sollevare il viso. Anna lasciò fare, le mani ancora giunte sul pube. Gli occhi le bruciavano. Dentro di sé gemeva già.
Il rasato le infilò una mano sotto il vestitino. Nessuna delicatezza. Il palmo grosso sfiorò lo slip, premette forte. Sentì subito l’umidità.
«Porca troia… sta grondando…» ringhiò, mentre Anna emetteva un gemito, fingendo sorpresa ma spingendo il bacino contro quella mano.
Il giovane con la giacca di pelle la sfiorò ai fianchi, le infilò le dita nei capelli, le piegò la testa indietro e le leccò il collo. Un colpo di lingua sporco, animale, che la fece fremere.
Il magro le infilò due dita sotto lo slip da dietro, sfiorando il solco delle natiche, tirando il tessuto con un gesto rude, come a volerlo strappare.
L’anziano si limitava a guardarla, le mani sulle ginocchia, il cazzo già teso sotto i pantaloni.
Anna rimaneva lì. Ferma. Offerta. Le ginocchia tremavano. Sotto lo slip la figa colava. Nella testa, una sola parola martellava: prendetemi.
Uno alla volta, si mossero come lupi.
Il rasato le afferrò il bordo del vestito sopra le cosce e lo strappò verso l’alto. Le gambe nude, gli slip bianchi tesi, il ventre piatto che tremava. Anna lasciò cadere le mani lungo i fianchi. Non si difese.
«Guarda come è vestita… la troietta angelica…» ghignò il muratore, passando un dito sporco lungo la cucitura degli slip, premendo sul clitoride sotto il cotone umido.
Il giovane le scostò la spallina dalla spalla sinistra, poi dalla destra, facendo scivolare il vestito giù. Le braccia rimasero abbandonate. Il reggiseno sottile lasciava intravedere i capezzoli gonfi come spine.
Il magro, impaziente, strappò via il vestitino tutto insieme, lasciandola in biancheria, il respiro spezzato, gli occhi chiusi come chi sa che il castigo sta per cominciare.
Fu allora che si mosse il cinquantenne. Rimasto appoggiato alla parete come un boia paziente, ora avanzava lento. Gli occhi freddi. Le braccia incrociate. La bocca tesa. La vendetta in cammino.
Si fermò davanti ad Anna. Le sollevò il mento con due dita. «Adesso vediamo se sai chiedere scusa davvero…» disse piano, la voce che le fece tremare la spina dorsale.
Anna annuì. Piccola. Umile. Spezzata.
Gli uomini si chiusero intorno a lei, stringendo il cerchio.
Il muratore le infilò le dita sotto il bordo degli slip. Tirò giù piano. Il cotone bagnato scivolò lungo le gambe. Anna restò nuda, solo il reggiseno bianco a coprirle i seni tesi.
Il rasato la afferrò per il fianco, il pollice affondato nella carne. L’altra mano a palpare il seno, premendo, schiacciando.
Il giovane le sfiorò la schiena, affondò le dita tra le cosce, cercò il sesso umido, vibrante.
«Porca miseria, è già pronta…» rise piano.
Il magro le morse piano la spalla, salendo con la lingua ruvida fino al collo.
L’anziano non toccava. Solo guardava. E i suoi occhi erano coltelli che la marchiavano viva.
Anna, in mezzo a loro, tremava di attesa. Pronta. Fiera e distrutta allo stesso tempo.
E lei, in mezzo a loro, sentiva il suo corpo rispondere a ogni tocco, a ogni struscio, a ogni presa. La figa gocciolava calore lungo l’interno delle cosce, i capezzoli pungevano contro il reggiseno, le ginocchia minacciavano di cedere. Era un’offerta viva, vibrante, una bambola sacrificale pronta a essere aperta pezzo per pezzo.
Il cinquantenne, davanti a lei, non la toccava. La guardava. Con lo stesso sguardo con cui un boia guarda la lama prima di calarla. «Adesso,» disse, la voce lenta e vuota, «sei nostra. Ti useremo come meriti.»
Anna restava lì, nuda dalla vita in giù, il vestitino arrotolato sui fianchi, il reggiseno stretto a soffocare i seni tesi come frutti proibiti. Il cinquantenne fece un cenno, un ordine muto. Gli uomini si mossero subito.
Il rasato le afferrò il bordo del vestito e lo tirò via sotto i piedi come una pelle inutile. Anna rimase un istante solo con il reggiseno addosso, il respiro spezzato, la figa nuda e gonfia sotto gli occhi avidi.
Non le diedero tregua. Il giovane con la giacca di pelle le afferrò i polsi, la trascinò a sé, le affondò la lingua in bocca, senza chiederle nulla. Il sapore di tabacco e birra la invase mentre lei gemeva contro quella bocca violenta. Le mani del muratore la strinsero ai fianchi, una scese, si infilò tra le natiche, esplorando il solco stretto, scivolando poi tra le cosce, trovando la figa aperta, viva.
Il magro si avventò sui seni, tirò giù il reggiseno senza curarsi delle spalline, liberando i capezzoli tesi che subito cominciò a mordere, pizzicare, leccare con una fame animalesca. L’anziano si avvicinò da dietro, le mani callose che le aprirono piano la figa, come si apre un frutto maturo. Sussurrava frasi sporche che Anna non capiva più, persa com’era nel piacere.
Il cinquantenne restava in disparte. Guardava. Gli occhi che registravano ogni gemito, ogni fremito, ogni stilla di umiliazione colare da lei come miele impazzito.
Anna passava di mano in mano come una bambola viva: il rasato la stringeva, le strappava la pelle con la barba rasata; il giovane le succhiava la lingua, le frugava il sesso; il muratore le torceva i capezzoli fino a strapparle piccoli gemiti; il magro le leccava il ventre, il pube, risalendo con la lingua viscida fino all’ombelico.
Nessuno le dava tregua. Nessuno le lasciava spazio per respirare.
E lei, lei non faceva nulla per difendersi. Anzi, si abbandonava.
Il cuore le martellava nel petto, la figa pulsava aperta sotto le mani che la aprivano, la chiudevano, la testavano come un fiore troppo gonfio per restare chiuso.
Dentro di sé, Anna rideva. Dentro di sé, godeva come non aveva mai goduto. Era dove voleva essere. Nuda. Sporca. Usata. Un trofeo vivo passato da mano a mano.
Le mani grosse del muratore la afferrarono per le spalle, la spinsero giù senza una parola. Anna si piegò sulle ginocchia nude, il pavimento freddo che le bruciava la pelle. Tremava. Non di paura, ma di attesa.
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