La seconda porta 4 - Il ritorno della voce

di
genere
etero

CAPITOLO IV
Lucia aveva dormito senza sogni, senza interruzioni. Il suo corpo si era disteso nel letto come un territorio placato, consumato.
Si era svegliata tardi, con la pelle ancora intrisa di qualcosa di caldo, di sé.
La doccia non era stata un rito, ma un passaggio. Un’acqua che non lavava, ma scivolava. I vestiti erano venuti dopo, senza pensarci troppo. L’unica cosa che contava era la strada.
Ora era lì, nel bar della sede, le gambe incrociate sulla sedia, una tazzina tra le dita.
Lucia sollevò la tazzina, il calore del caffè le sfiorò la pelle, il profumo intenso le invase i sensi.
Bevve piano, lasciò che il liquido bollente le scivolasse sulla lingua, la accarezzasse prima di scivolare giù per la gola.
Il suo respiro si fece più lento, le labbra si schiusero leggermente dopo l’ultimo sorso.
Dietro il bancone, il barista la guardava.
Lucia non lo notò subito. O forse sì.
Una voce la distolse.
— Stamattina hai una bella luce.
Lucia non si voltò subito. Assaporò l’eco di quelle parole prima di offrirgli uno sguardo. Breve, come un tocco senza bisogno di risposta. Poi abbassò gli occhi sulla tazzina, sulle sue dita, e sorrise, ma solo per sé.
Ancora qualche giorno, e avrebbe brillato.
Si alzò. Attraversò lo spazio senza alcuna urgenza, con la stessa naturalezza di un’onda che scivola sulla sabbia. Il gruppo di colleghe la notò, gli sguardi agganciati alla sua presenza, ma senza capirne la ragione.
Lucia passò oltre.
Loro non lo sapevano.
Non sapevano cosa volesse dire essere carne e luce allo stesso tempo.
Lucia entrò in ufficio con una calma che non era calma, era padronanza. Ogni fibra di lei sapeva. Il corpo, la pelle, le vene. Sapevano. E non avevano paura.
Si lasciò cadere sulla sedia, affondando nel cuoio freddo. La schiena si arcuò leggermente, un respiro profondo mentre le gambe si incrociavano con naturalezza.
Il ginocchio sfiorò il bordo della scrivania, un contatto inutile eppure elettrico. Il collo si piegò appena, una posa studiata da nessuno, eppure perfetta.
Aprì il fascicolo, lo divorò con la stessa fame con cui voleva essere divorata. Il cervello lavorava, i pensieri scorrevano fluidi, come se l’aver toccato l’abisso del proprio piacere avesse reso ogni altra cosa più nitida, più facile.
Eppure, sotto la superficie, qualcosa premeva.
Le dita scorrevano sul mouse, ma il polso ruotava appena. Era quasi un sussurro, un battito sotto pelle, un eco di quello che il suo corpo aveva conosciuto.
Lo sguardo vagò. Senza un motivo. Senza una meta.
Cercava.
Un oggetto. Un sostituto. Qualcosa che potesse riempirla. Qualcosa che potesse essere spinto dentro, per sentirlo premere, spingere, pulsare.
Ma non era più abbastanza.
La prossima volta…
Voleva carne.
Voleva sangue, calore, vita.
Voleva carne pulsante.
Lucia lavora. Lavora con la stessa intensità con cui si era data al piacere.
Le dita scorrono sui documenti, la mente affilata, precisa, veloce. Nessuna esitazione. Nessuna distrazione.
Tutto il mattino si consuma nella perfezione del suo controllo. Numeri, parole, firme, calcoli. Eppure, tra una pagina e l’altra, un pensiero sfugge.
Qualcosa le balena nella mente.
Un’immagine? Un ricordo?
No.
Era un sussurro.
Un’ombra che scivolava dentro di lei, come il tocco di una lingua sulla nuca.
Non aveva bisogno di fermarsi a decifrarlo. Era lì.
Lo squillo del telefono la svegliò.
— Lucia, nel mio ufficio. Ora.
Giorgio.
Lucia non aveva mai amato il tono del suo capo, sempre tagliente, sempre impregnato di una falsa superiorità. Ma ora non importava.
Si alzò con la stessa calma con cui avrebbe acceso una sigaretta. Prese il fascicolo. Andò.
— Buongiorno, Giorgio.
L’uomo non alzò lo sguardo.
— Non farmi perdere tempo.
Lucia non aspettò un secondo di più.
Girò i tacchi. Se ne andò.
Ma mentre si voltava, il suo corpo parlò per lei.
Il suo culo si inarcò.
Non perché lo volesse. Non perché lo avesse deciso. Ma perché era diventata così.
Qualcosa cambiò nell’uomo. Non disse nulla subito, ma vide.
Vide la seconda porta di Lucia.
— Aspetta.
Lucia si fermò sulla soglia, senza voltarsi.
La voce di Giorgio si era fatta diversa. Non più fredda, non più distante. Era falsa. Melliflua.
— Su cosa stavi lavorando? Sbrigati a concludere quell’allegato tecnico entro due giorni.
Lucia si girò. Gli occhi sicuri, il mento leggermente sollevato.
— Finito. Questa mattina.
Gli porse il fascicolo.
Giorgio lo sfogliò. Era perfetto. Per un attimo, rimase senza parole.
Lucia lo guardò, con il piacere sottile di chi ha già vinto senza giocare.
— Non voglio farle perdere ulteriore tempo.
Si girò di nuovo. Offrì il suo culo al suo sguardo.
Sentì il peso degli occhi dell’uomo su di sé. Sentì il desiderio non detto, l’avidità silenziosa.
E mentre camminava via, pensò.
A te non lo darò mai.
Mai più.
Lucia avanzava nel corridoio come una ninfa che non conosceva ostacoli. Il pavimento sembrava adattarsi ai suoi passi, cedere sotto il suo incedere sicuro.
Poi, lo sguardo. Lo sentì prima ancora di vederlo.
Si voltò appena e lo trovò lì. Il magazziniere.
Sulla cinquantina, un torace largo, le braccia grosse e pelose, mani da lavoro, mani di chi ha spostato casse per una vita. La maglietta scolorita che gli tirava appena sul petto, mentre la pancia gonfia si rilassava oltre la cintura. Rughe dure, vissute.
Uno che di donne come lei non ne aveva mai avute. Uno che forse ne aveva viste solo sulle copertine delle riviste, sulle pubblicità che scorrevano sui cartelloni delle fermate dell’autobus.
Uno che aveva scopato solo donne della sua stessa strada. Donne abituate a quei letti sgualciti, alle mani callose, ai respiri pesanti.
Ma Lucia non era come loro. E Lucia lo sapeva.
Anche lui lo sapeva. E lo si leggeva nei suoi occhi.
Era turbato. Non di quel turbamento che eccita, ma di quello che mette distanza. Era il sogno che si manifesta davanti agli occhi, ma che sai che non potrai mai toccare.
Lui la salutò.
— Dottoressa.
Lucia non rispose subito.
Si fermò un istante. Lo guardò.
Poi, lasciò scivolare sulle labbra un sorriso.
Ma non era un sorriso qualsiasi.
Era un sorriso che sapeva di sfida e di resa insieme. Un sorriso che prometteva qualcosa che non sarebbe mai stato dato. Un sorriso che diceva tutto e niente.
Lui non distolse lo sguardo.
Lucia riprese a camminare.
Sentì gli occhi pesanti dell’uomo su di lei.
E un pensiero le scivolò addosso come un brivido caldo.
A te… forse la do.
Non era un’idea. Non era una provocazione.
Era solo una possibilità.
Di quelle che basta un niente per trasformare in certezza.
Il bagno aveva quell’odore familiare di detergenti troppo chimici, troppo profumati, male profumati. Di corpi che passavano senza lasciare traccia. Ma lei una traccia l’avrebbe lasciata.
Chiuse la porta, senza urgenza. Il clic della serratura sembrò sigillare qualcosa dentro di lei.
Si abbassò gli slip, le dita scivolarono sulla pelle come se la carezzassero per sbaglio.
Poi si lasciò cadere sulla tavoletta.
Freddo.
La pelle dei suoi glutei si contrasse in un brivido leggero, un contrasto pungente che le fece sussultare il respiro.
Non era mai accaduto. Non così.
Ma ormai il suo corpo non rispondeva più alle vecchie regole.
E poi venne il flusso.
Un’onda calda che scese dentro di lei, lungo di lei, fuori di lei. Un sollievo che non era solo fisico, era totale.
La sentì scorrere, forte, viva, piena.
E allora abbassò lo sguardo.
Un dettaglio. Un’ombra chiara, una traccia.
Maionese.
Ancora lì.
Ancora parte di lei.
L’idea arrivò come una goccia d’acqua che cade sul centro del ventre. Strana. Persistente.
Irresistibile.
Si inarcò appena. Un movimento appena accennato, ma sufficiente a sentire di più, a sentirsi di più.
Le mani si mossero lente. Prese il telefono.
Lo schermo illuminò la sua pelle nuda, il battito che sentiva tra le cosce. E senza pensarci più, scattò la foto.
Un’immagine solo di sé. Solo per il suo desiderio. Forse.
Restò così, per un attimo.
Poi, le dita risalirono. Non cercavano profondità, non ancora.
Si posarono sulle cosce, sulla stoffa tesa degli slip. Li sistemò piano, un gesto lento, attento, come se il contatto fosse già un inizio.
Un sospiro appena accennato.
Era qualcosa di piccolo. Ma stava montando.
La stava montando. Il corridoio sembrava sospeso.
Lucia avanzava con la leggerezza di chi non ha fretta, ma ogni passo aveva un peso segreto.
Lui era ancora lì. Fingeva di trafficare con qualcosa, ma gli occhi tradivano il gioco.
La guardava. Guardava il suo corpo muoversi.
Quando fu vicina, si fermò.
— Ehi, tu.
Lui reagì come un sottoposto.
— Mi dica, dottoressa. Di cosa ha bisogno?
Lucia infilò una mano lenta nella tasca. Tirò fuori il telefono. Non lo sollevò subito.
Prima si bagnò appena le labbra.
Poi, con calma, girò lo schermo verso di lui.
La sua figa. La sua foto. Il segno di ciò che era stata, pochi minuti prima, sulla tavoletta fredda di quel bagno.
Gli lasciò il tempo di vederla.
Non uno sguardo veloce, non un dettaglio rubato. Un secondo intero. Forse due.
Abbastanza per sentirlo respirare più forte. Abbastanza per vedere gli occhi che scendevano sulla foto e non riuscivano a risalire.
Abbastanza per notare il suo petto che si gonfiava sotto la maglietta sudata.
Abbastanza per accorgersi di quello che succedeva sotto i suoi pantaloni.
Lucia socchiuse un po’ gli occhi, come se gustasse la scena.
Poi, fece la domanda.
— La vuoi?
L’uomo non parlò.
Non avrebbe saputo che voce usare.
Lo sguardo rimase piantato lì, sulla foto. Gli occhi divennero più piccoli, lo sguardo torbido.
Un passo appena indietro. Un movimento che non aveva senso, come se cercasse di fuggire da qualcosa che invece lo inchiodava lì.
Si passò la mano ruvida sulla nuca. Poi, sul petto. Poi sulla cintura.
Lucia inspirò piano.
— Vai nel magazzino. Io ti seguo.
Poi lo superò. E mentre si allontanava, lo lasciò lì, con il respiro pesante, con le mani ferme sui fianchi, con la testa svuotata.
Ma lo sapeva già. Lui ci sarebbe andato.
Perché certe cose non si scelgono. Si subiscono.
Il magazzino era un ventre buio, un luogo senza finestre, senza regole.
Lucia entrò senza esitazione, chiuse la porta. Lo fece passare senza guardarlo. Il clic della serratura fu un sigillo.
Lui si mosse subito.
Troppo in fretta. Troppo sgraziato, senza controllo.
Le mani andarono sui suoi fianchi, ma non con la sicurezza di chi sa cosa sta facendo. Con l’avidità di un uomo che non credeva di essere lì.
Un respiro pesante, il petto che le sfiorò il seno, un odore di pelle calda, di sudore maschile e polvere.
Lucia sentì tutto. E non lo lasciò durare.
Lo spinse.
Non forte. Solo abbastanza.
Lui barcollò all’indietro, finendo contro il tavolo da lavoro. Poi lo prese.
La sua mano entrò nella sua bocca.
L’uomo trasalì. Lucia sentì la lingua calda sotto le dita. Sentì il fiato greve sulle nocche. Gli occhi di lui si allargarono, confusi, intimiditi.
Lucia inclinò la testa, senza dire una parola. Poi, tirò fuori la mano lentamente, lasciandogli un filo di saliva sul labbro. La fece scorrere lentamente verso la zip.
Il silenzio era denso. Lui non parlava. Non si muoveva. Non osava.
Lucia inspirò piano. L’aria le portò addosso un odore che non aveva nulla di raffinato.
Esitò con la mano sul pacco, una pressione leggera. Poi abbasso la zip con un colpo netto. Infilò la mano. Di taglio, come una lama.
Ed era lì, duro. Vivo.
Lucia sentì qualcosa stringerle il ventre.
Uno strano, vischioso, perverso piacere.
Lo tirò fuori dalla zip. Non lo prese subito.
Lo guardò.
Abbassò lo sguardo sul glande scuro, lucido, una pelle che sembrava quasi di cuoio teso.
Violaceo. Pulsante. Brutale.
Si mordicchiò l’interno della guancia.
Poi si abbassò.
La bocca si aprì piano.
Un respiro lento, caldo.
Le labbra sfiorarono la punta. Non lo presero subito.
Prima un bacio. Poi una succhiata morbida, appena un assaggio.
Lui grugnì. Un suono sporco, basso, belluino.
Lucia sorrise.
E poi lo leccò.
Dalla base alla punta. Saliva che si mischiava a sudore e sale.
La lingua girò intorno al glande, lenta, esperta, consapevole.
Poi lo prese tutto.
Caldo. Pieno. Osceno.
Il cazzo le riempì la bocca.
Scese. Profonda, lenta, crudele.
Sotto le dita, sentì il corpo dell’uomo farsi più teso.
Un altro grugnito, più gutturale.
Lucia lo lasciò scivolare fuori con un filo di saliva appeso.
Poi abbassò lo sguardo.
Le palle dondolavano pesanti, cariche, sudate.
Le prese.
Le soppesò nel palmo, lentamente.
La pelle era ruvida, tesa, calda.
Le portò al naso. Inspirò.
Un odore ancora più sporco, più acre, più animale.
Lo sentì nel petto.
E allora aprì di nuovo la bocca.
Questa volta per loro.
Le inghiottì una alla volta, prima una, poi l’altra.
La lingua le girò intorno, umida, lenta, affamata.
Lui scattò in avanti. Non un gesto volontario. Un riflesso.
Lucia sentì il suo peso sulle spalle. Sentì il respiro farsi strozzato. Lui stava per scoppiare.
Ma non era ancora il momento.
Lucia lo sapeva.
Lucia abbassò lo sguardo sui suoi pantaloni.
Le sue dita trovarono la fibbia della cintura. Con calma, la slacciò. Un colpo secco, un suono sordo.
Poi il bottone Lo sfilò lentamente, come se il gesto avesse un peso.
I pantaloni si abbassarono e l’odore cambiò. Un misto di stoffa, di calore umano, di sesso trattenuto.
Il membro era già gonfio, teso, vivo.
Premeva contro la stoffa di mutante segnate da macchie vecchie, aloni di un detergente sbagliato.
Lucia fece scivolare le mani sui glutei dell’uomo. Un gesto netto deciso come se quella stoffa sentisse un peso che non poteva sopportare.
Il cazzo già esposto schizzo in avanti. Un segno della resa.
Lucia si fermò un istante.
Sospesa.
Lo guardò.
Non l’uomo. Il cazzo.
Perché in quel momento, lui non era più niente. Non era più un magazziniere. Non era più un uomo della strada. Non era più un uomo, punto.
Era solo quella carne.
Lucia lo fissò.
A lungo.
Come si guarda qualcosa che si sta per prendere. Lucia si sollevò lentamente.
Il respiro ancora caldo, ancora bagnato di saliva e odore di cazzo.
Lui la guardava. Le palle ancora umide della sua bocca. Il cazzo teso, gonfio, pulsante.
Ma non aveva idea di cosa stesse per accadere.
Lucia lo fissò un istante, le pupille pesanti.
Poi, senza abbassare lo sguardo, fece scivolare le mani lungo i suoi fianchi.
Le infilò sotto il vestito. Le dita trovarono gli slip.
Li abbassò lentamente.
Il tessuto strisciò sulla pelle, accarezzò il ventre, i fianchi, scese sulle cosce. Scese fino a liberarla.
Lui vide. Il suo pube gonfio, teso, segnato dall’eccitazione. Lucia si voltò.
E gli offrì il culo. Non lo fece con fretta, non con esitazione.
Si piegò. Un arco perfetto.
La schiena si incurvò, le mani andarono sul tavolo, le ginocchia si piegarono appena.
Le cosce si aprirono.
L’uomo trattenne il fiato. Davanti a lui una cagna che si offre.
Un corpo che diceva senza parlare.
Lucia si voltò appena. Gli occhi brillavano di qualcosa che lui non aveva mai visto.
Non aveva bisogno di chiedere. Lo stava aspettando. L’uomo si mosse senza pensare.
Non c’era più ragione, non c’era più controllo. Solo il bisogno brutale.
Le sue mani piombarono sui fianchi di Lucia, stringendola con una forza ruvida, dura, maschile.
Il bacino scattò in avanti. Un solo colpo. Un affondo violento.
Il cazzo la centrò in pieno, si spinse fino in fondo, senza resistenza.
Lucia non ansimò. Non si lamentò. Solo un sussulto del bacino, un tremito appena accennato.
L’uomo si fermò un secondo, incredulo.
La figa era calda, stretta, gonfia. Le pareti lo avvolsero come una bocca, lo strinsero, lo accettarono.
Il glande violaceo, bagnato, pulsante, affondò oltre, aprendo le labbra molli, divaricandole in un accoglimento osceno.
E poi cominciò a scoparla. Colpi violenti, sordi, ogni affondo uno schianto di carne contro carne.
Le mani le affondarono nelle anche, tirandola a sé con ogni botta. Il culo si schiacciava contro il suo bacino, ogni colpo una schiacciata più profonda.
Le cosce battute, la pelle che bruciava sotto gli schiaffi della sua spinta.
Lucia lo prendeva tutto.
Ogni affondo lo sentiva dentro, lo sentiva nel ventre, nei fianchi, nelle viscere. Non gemeva. Non gridava. Solo respirava forte.
Un respiro che era fame.
L’uomo scopava come un animale, senza grazia, senza pensiero. Ogni colpo un grugnito. Ogni colpo un fiotto di sudore che colava dalla sua schiena pelosa.
Lucia sapeva che stava per venire.
E non lo fermò.
Lo voleva tutto. Il cazzo scivolava dentro di lei con ogni colpo, sempre più fondo, sempre più prepotente.
Lo sentiva. Sentiva la carne tirarle le pareti della figa, ogni vena, ogni pulsazione che le sfregava il centro del piacere.
Apriva. Riempiva. Consumava.
Lucia lasciò che la bocca si aprisse, le labbra socchiuse in un respiro che sapeva di resa e potere allo stesso tempo.
Sotto la lingua, sentiva ancora il sapore di lui. La saliva era ancora impregnata del suo cazzo, un retrogusto caldo, salato, maschile che si mescolava alla carne che la stava prendendo.
E allora si inarcò. Appena.
Basta quel tanto che serviva.
E lo sentì entrare tutto. Fino ai coglioni.
Li sentì sbatterle contro il pube, due colpi pieni, due impatti di pelle calda, sudata, pesante.
L’uomo si sentì scoppiare. Lo capì. E allora si fece più duro.
Le mani sulle spalle. Poi nei capelli. Un tiro violento.
Le cosce di Lucia si tesero, il corpo oscillò sotto la sua furia.
Lui la strattonò più forte. Troppo forte.
Lucia sentì i suoi colpi farsi caotici, rabbiosi, una frenesia senza più controllo.
E poi un grugnito lungo, profondo. Il corpo si tese. Il cazzo palpitò dentro di lei.
Lo sentì sborrargli dentro. Sentì il fiotto caldo, il seme che la riempiva, la pressione che la invadeva.
Lui spinse ancora, un’ultima volta, come se volesse fondersi con lei.
Poi crollò. Il cazzo scivolò fuori, sporco, umido, ancora teso.
L’uomo barcollò indietro, il respiro spezzato, confuso, ansimante.
Si appoggiò al muro. La guardò.
Ma Lucia non si voltò. Rimase lì, con le mani ancora sul tavolo.
Con la figa ancora aperta, ancora calda, ancora segnata. E sorrise.
Lucia si alzò piano. Le gambe ancora aperte, il respiro lento, pesante, quasi sazio.
Ma non era ancora sazia.
Scivolò una mano tra le cosce. Le dita trovarono la figa ancora tiepida, ancora spalancata dal cazzo che l’aveva aperta.
Premette piano, affondò un dito dentro.
Caldo. Viscoso. Lo sentì galleggiare dentro di lei, ancora vivo, ancora denso.
Spinse un po’ di più. E lo tirò fuori.
Un fiotto spesso, biancastro, scivolò lungo il dito fino alla nocca.
Lucia lo guidò. Lo guardò un istante.
Poi se lo infilò in bocca. La lingua si avvolse intorno al dito, succhiò piano, assaporò.
Era il finale. Il finale che voleva.
Inspirò forte, lasciando che il retrogusto le rimanesse tra le labbra.
Poi ne tirò fuori un altro poco. Scese lungo la pelle tesa del suo interno coscia.
Lucia non lo lasciò cadere. Lo prese. Si girò, lentamente. Guardò l’uomo negli occhi.
E lo passò nel buco del culo. Le dita sfiorarono la pelle tesa, il liquido scivolò dentro piano, assorbito dal suo calore.
E allora sorrise.
— Coglione. Guarda che ti sei perso.
Lucia rimase girata di spalle.
Non si affrettò a coprirsi. Lasciò che lui vedesse.
Tutto.
La schiena si incurvò leggermente, come un invito involontario, un’offerta che non aveva più bisogno di parole.
Una gamba scostata appena, quanto bastava per mostrare la carne viva, il punto esatto dove era stata presa.
E lì. La seconda porta.
Il buco del culo pulsante, disteso, segnato dal piacere e dalla violenza del suo stesso desiderio.
Si vedeva tutto l’arco del pube da dietro, il solco delle grandi labbra ancora leggermente aperte, l’ombra della sua figa gonfia e usata.
L’uomo ansimò. Il cazzo gli pulsava ancora, ancora duro, ancora fuori. Le parole gli uscirono impastate, basse, sporche.
— La prossima volta…
Lucia si girò. Lo guardò. Si alzò gli slip. Li fece scorrere lentamente, lasciò che il tessuto sfiorasse il buco del culo, che lo accarezzasse appena prima di coprirlo.
Poi li risistemò con un gesto sensuale, una carezza sui fianchi, un gioco di polsi perfetto.
Ma non prima che lui vedesse.
La macchia. Un alone biancastro, un velo di sborra che filtrava sulla stoffa sottile.
Un marchio.
Lucia inspirò. Prese il vestito, lo fece scivolare sulla pelle.
E mentre lo lisciava con le mani, come se stesse celebrando il proprio corpo, parlò.
— Non ci sarà una prossima volta.
Si avvicinò alla porta. La aprì.
Poi si fermò. Voltò appena la testa.
— E se dici quello che è successo … dirò che mi hai violentata. E ti farò licenziare.
Girò i tacchi. Il culo ancora perfetto, ancora inaccessibile.
Lo lasciò lì. Con il cazzo ancora fuori.
Chiuse la porta.

Lucia entrò nella mensa con la stessa calma con cui un predatore avanza in un territorio che conosce. Ma questa volta, non era più solo lei a sapere.
Gli sguardi maschili scattarono su di lei come lenti riflesse alla luce.
Prima distratti. Poi, inevitabili.
Non era il vestito, né il trucco. Era la carne. Qualcosa nel suo corpo parlava senza bisogno di parole, qualcosa che fino a poco tempo prima era stato muto, spento, sigillato sotto strati di vergogna e convenzioni.
Ora era lì.
E tutti lo vedevano.
Prese il vassoio senza fretta, scelse il cibo come se il gesto avesse un’intenzione più profonda, e poi avanzò tra i tavoli. Camminava come se lasciasse una scia, qualcosa di invisibile ma inarrestabile.
Si fermò accanto a un tavolo e si sedette. Il legno rigido del sedile le accolse le cosce nude, ma fu quando si appoggiò con il ventre al bordo del tavolo che tutto cambiò.
Sotto la gonna leggera, il tessuto aderì alla carne gonfia, e il pube si posò contro il legno con una naturalezza devastante.
Non fu un gesto cercato. Ma fu perfetto.
La pressione era minima, ma sufficiente a spingere la stoffa in avanti, creando un’ombra appena accennata, un rigonfiamento netto. Un accenno di bocca tra le gambe. Un segno che parlava senza bisogno di parole.
E gli sguardi si incollarono.
Andrea, seduto poco distante, smise di masticare. Il respiro gli si fece più lento, quasi interrotto. Non fu il solo.
L’altro collega, quello seduto di lato, abbassò il cucchiaio nel piatto, la mano improvvisamente ferma. Un altro ancora si aggiustò la posizione, come se il tessuto dei pantaloni fosse diventato troppo stretto.
Lucia lo sentì. Sentì i loro pensieri riempire il silenzio.
Vorrebbero allungare una mano. Vorrebbero sfiorare la stoffa. Vorrebbero capire se è solo un’illusione o se davvero la sua figa sta parlando.
Prese la forchetta. La fece scorrere tra le dita, il metallo che sfiorava la pelle in un gesto lento, distratto.
Andrea si passò una mano sulla nuca, come se un sudore improvviso lo avesse colto. Poi si schiarì la gola. Ma nessuno riuscì a dire nulla.
Lucia sollevò il bicchiere, bevve un sorso d’acqua, lasciando che il movimento delle labbra aggiungesse altro alla sua presenza.
E poi, mentre si sistemava sulla sedia, ancheggiò appena.
Un movimento piccolo. Quanto basta per far ondeggiare il vestito. Quanto basta perché il culo parlasse da solo.
E parlava della seconda porta.
La porta che nessuno aveva il diritto di varcare. Ma che ora, in quel momento, stava esponendo con una sicurezza che toglieva il respiro.
Un respiro che non era il suo. Era il loro.
Degli uomini che la stavano vivendo senza nemmeno toccarla.
Degli uomini che sentivano il bisogno esplodere nelle viscere solo per il modo in cui Lucia sedeva a quel tavolo.
Lucia sorrise appena.
E finì il pranzo.


Quando rientrò in ufficio, aveva ancora addosso il marchio del desiderio che aveva seminato.
Non lo vedevano più. Ma lo sentivano.
Si lasciò cadere sulla sedia con una grazia quasi innaturale, le gambe si incrociarono con un tocco silenzioso, il ginocchio appena contro il bordo della scrivania.
Il computer si accese con un battito di dita. Lucia lo dominò come dominava il resto.
Riprese il progetto con la società cinese, analizzando le fasi successive. Era un affare complesso, ma ormai tutto le sembrava più chiaro. Ogni numero, ogni strategia, ogni passaggio. Era tutto perfetto.
Eppure.
Un dettaglio. Uno scarto di percentuale, un valore che non tornava.
Lucia si fermò. Sentì qualcosa dentro, un battito improvviso. Come un’ombra che si insinuava tra le cifre.
Uno sbaglio?
No.
Un errore lasciato apposta. Come un passo falso che non era il suo. No, non era il suo.
Sapeva di inculata. E allora capì.
E mentre la sua mente si muoveva rapida, il telefono squillò.
— Lucia, nel mio ufficio. Ora.
Giorgio.
La voce non era cambiata. Sempre fredda. Sempre superiore.
Ma questa volta, lei era diversa. Oggi, lui non aveva più il diritto di chiamarla così.
Lucia rimase ferma un istante, lo sguardo fisso sullo schermo.
Poi si alzò. Lisciò il vestito. Prese il fascicolo.
E senza fretta, senza paura, andò verso di lui.
Verso Giorgio.
Verso il passato. Verso il conto che era rimasto aperto.
E che ora, sarebbe stato pagato.
Il silenzio si distese tra loro.Un silenzio che non era vuoto, era pieno. Pieno di ciò che lui le aveva fatto.
Lucia lo sentì dentro, come un coltello lasciato a metà strada tra le viscere e la mente.
C’erano cose che il tempo non portava via. Cose che restavano impresse nella pelle, negli occhi, nel modo in cui una donna si chiudeva sotto le coperte di notte.
Lucia lo aveva fatto per anni.
Aveva dormito nascosta. Non per il freddo. Non per paura del buio.
Ma perché se ti copri abbastanza, il mondo smette di vederti.
E se il mondo smette di vederti, forse anche il dolore smette di ricordarsi di te.
Ma non era così.
Il dolore se ne frega delle coperte.
Ti aspetta.
Ti trova negli incubi, nei giorni di sole che non riesci a sentire, nei sogni che smetti di fare perché tanto qualcuno te li ha già rubati.
E Giorgio glieli aveva rubati tutti.
Lucia non lo aveva mai detto a nessuno, ma quando era all’università, aveva luce negli occhi.
Non la bellezza che i maschi inseguivano. Non il desiderio che sporcava le labbra nei corridoi.
No.
Aveva il fuoco. Aveva i sogni. Aveva il talento e il sacrificio.
E poi era arrivato il lavoro. Ma poi era arrivato lui.
E l’aveva guardata come una cosa.
E l’aveva presa come una cosa.
E con ogni parola, ogni gesto, ogni colpo, aveva spento quella luce.
Le sue parole erano state mani.
Le sue parole erano state violenza.
Violenza nel corpo e nella mente.
— Non sei buona a fare niente. Così le aveva detto
Lucia sentì il fiato farsi più corto. Era tornata a quella stanza. A quando Giorgio l’aveva afferrata per i capelli e trascinata accanto alla sedia.
Lui seduto. Lei in piedi.
E il cazzo in faccia.
Senza un preavviso. Senza un “Vuoi?”. Senza un “Ti piace?”.
Ma con un “Sei buona solo a fare pompini.”
Solo carne sbattuta contro la pelle.
Lucia ricordava il freddo del pavimento sotto i piedi. L’umiliazione che le saliva in gola prima ancora che lui gliela riempisse. Il vuoto nello stomaco quando aveva capito che non c’era via d’uscita.
E poi.
Poi c’era stata la seconda volta. Più recente
Il giorno in cui il talento non le era bastato. Il giorno in cui Giorgio le aveva distrutto anche la seconda porta
— Non capisci un cazzo del mondo.
Aveva sentito la scrivania sulla pelle prima ancora di toccarla.
—Noi non dobbiamo fare affari con i cinesi. Noi ce li dobbiamo inculare
— Ti faccio vedere io come si fa.
Aveva chiuso le gambe. Aveva chiuso tutto.
Ma non era bastato.
Giorgio l’aveva afferrata. Aveva sollevato la gonna.
E l’aveva incollata al legno.
Lucia lo aveva sentito entrare.
Troppo in fretta. Troppo forte. Troppo dentro.
Non c’era stato nulla di dolce, di voluto, di cercato.
Solo carne che si apriva per forza.
Solo pelle che si lacerava senza decidere.
Lucia non era pronta. Non lo voleva. Non era disposta ad accogliere quel cazzo.
Ma lui lo voleva ancora di più proprio per questo. E il piacere di Giorgio era stato tutto lì.
Nel dolore.
Nella resistenza che si spezzava.
Nell’urlo che Lucia non aveva mai lasciato uscire.
Lo aveva ucciso in gola.
Lo aveva sepolto in un cuscino.
E poi aveva passato anni a seppellirsi con lui.
Sotto le coperte.
Nell’assenza di sogni.
Nel tentativo di diventare trasparente.
Fino a ieri. Con La seconda porta.
Lucia aprì gli occhi.
Giorgio era ancora davanti a lei. Ma adesso era piccolo.
Adesso era solo un uomo con il cazzo duro sotto la scrivania e il terrore che gli gocciolava sulla fronte.
Non era più il suo carnefice. Era solo un coglione che credeva di avere ancora il potere.
E lei lo sapeva. Sapeva di averlo in pugno.
Giorgio non lo sapeva. Non sapeva neanche se ne poteva ancora disporre a suo piacimento. Diciamo così.
Giorgio si schiarì la gola. Era nervoso. Sentiva la forza del suo potere diminuire. Perché non sapeva più cosa aspettarsi da lei.
— Ma noi… dobbiamo parlare presto.
Parlare. Lo disse senza crederci.
Lo disse sapendo di mentire.
Lo disse spostandosi la mano sui pantaloni, aggiustando il cazzo in un gesto istintivo, da porco abituato a possedere.
Lucia lo guardò senza paura. Si bagnò appena le labbra, giocando con il confine tra il sì e il no.
Poi parlò.
— Di lavoro, certo.
E lo lasciò affondare.
— Quando vuoi.
Una pausa.
Poi la lama.
— Se posso.
Giorgio sgranò gli occhi.
— Che significa “se posso”?
Si raddrizzò sulla sedia, il tono meno sicuro. Qualcosa gli stava scivolando dalle mani.
— Che ci può essere di più importante di parlare con me?
Lucia sorrise.
— Che ne so…
Si passò un dito sulla guancia, un gesto leggero. Distratto. E letale.
— Pisciare, per esempio.
Giorgio si irrigidì.
Lucia si voltò, senza fretta. E mentre il suo culo disegnava il movimento perfetto, si fermò.
Guardò oltre la porta, come se stesse per andarsene.
E poi, come se il pensiero le fosse arrivato proprio in quel momento, come se fosse stata un’epifania…
Lo guardò di sbieco. Le ciglia appena abbassate. Le labbra morbide.
Un briciolo di miele sul veleno. E infilò la lama fino in fondo.

— Oppure scopare il magazziniere.
Non si fermò.
Non aveva bisogno di vederlo. Lo sapeva.
Sapeva che in quel momento Giorgio stava scoppiando e crollando nello stesso istante.
E stavolta … stavolta era lei ad avere il potere. Non se l’era fatto rubare. Perché lui non ne aveva, prendeva quello degli altri. E si sentiva potente
Lucia uscì dall’ufficio senza voltarsi.
Il respiro ancora lento, calcolato, il battito del cuore che sembrava misurare il tempo. Non aveva fretta.
Aveva vinto. O meglio, aveva preso in mano la lama.
E prima di allontanarsi, senza pensarci, passò una mano sul fianco del vestito.
Un gesto naturale. Un gesto inutile.
Eppure, si sentì più pulita.
Aveva preso in mano la lama.
Il colpo vero? Doveva ancora pensarci.
Attraversò il corridoio con la stessa sicurezza con cui avrebbe attraversato un campo di battaglia dopo aver abbattuto il primo nemico.
Quando passò accanto alla segretaria, la salutò con un cenno distratto.
— Ciao, cara.
La ragazza rispose con un sorriso spento. Un sorriso che non era sorriso.
Lucia si fermò. Si voltò a guardarla davvero. E lo vide.
Negli occhi della ragazza non c’era luce. Non c’era più nulla.
Solo la stanchezza di chi vive un peso sulla pelle che non può raccontare. Solo il vuoto di chi ha già smesso di lottare.
Lucia riconobbe quello sguardo. Lo aveva avuto anche lei. Per anni.
Sotto le coperte. Nel silenzio. Nel non dire mai niente a nessuno.

E allora si avvicinò. Si abbassò appena, portandosi alla sua altezza.
La voce non era più la stessa che aveva usato con Giorgio. Non c’era veleno, non c’era sfida. Solo un filo di dolcezza brutale, la verità di chi sa cosa significa essere preda.
— Sappi che non sei sola.
La segretaria sgranò gli occhi, ma non parlò.
Lucia continuò, con calma.
— Se quel porco si approfitta di te, io ci sono.
Una pausa. Una pausa che era promessa e condanna insieme.
— Dalla tua parte. Per fargliela pagare.
Gli occhi della ragazza si accesero di un bagliore. Non una rivoluzione, ma un barlume. Un punto esatto in cui la paura si incrinava.
E fu in quel momento che Lucia capì.
La ragazza abbassò appena lo sguardo e sorrise. Ma questa volta, era un sorriso vero.
Lucia non aggiunse altro. Non serviva. Aveva già detto tutto.

E pensò al colpo, al colpo vero.
La mail che ancora non esiste, ma che sta già nascendo
Si voltò e riprese a camminare. Ma ora qualcosa era cambiato.
L’urgenza le salì addosso come un fuoco che non poteva più contenere.
Ogni passo era più rapido, più pesante. Ogni pensiero più nitido, più affilato.
Non doveva perdere tempo. Sapeva cosa fare.
Entrò nel suo ufficio e chiuse la porta.
La lettera stava già prendendo forma. Non serviva pensarla. Era già lì.
Era nata nell’istante esatto in cui Giorgio aveva detto “incularci”.
E senza saperlo le era cresciuta dentro. Ora, stava solo aspettando di essere scritta.
Signor Presidente, gli affari sono come il sesso.
Si fanno in due. Ma si possono fare in molti modi.
Uno può rimanere fregato. E allora viene fottuto, fregato.
Ma chi vuole fottere, violentare, ingannare l’altro, non ha capito niente.
Perché il vero godimento, negli affari come nel sesso, è quando si gode in due.
Chi pensa di godere da solo non sta solo fot… fregando l’altro.
Sta fot… fregando sé stesso.
Si sta limitando. Sta rinunciando al piacere più grande, quello che dura nel tempo, quello che si moltiplica.
Ed è esattamente questo che sta accadendo.
Non sto scrivendo per delazione.
Non mi sto prostituendo alla sua società. Sto facendo gli interessi della mia.
Non nel modo in cui il signor Giorgio ha previsto. Non fot… fregandovi.
Ma creando un affare che renda di più, perché ci guadagniate anche voi.
Lucia si fermò un istante. L’adrenalina le vibrava sotto la pelle.

Non era un’email. Era un fottuto orgasmo.
Era il piacere di prendere il controllo. Di invertire il gioco.
Di dimostrare a Giorgio che non era lui a tenere il coltello. Era lei.
E ora lo stava affondando nella parte più morbida della sua presunzione.
Le dita tornarono a muoversi. Scrisse a lungo.
Illustrò. Spiegò. Motivò.
Con lucidità. Con freddezza. Con logica lucida e fredda.
Per poi concludere.
Signor Presidente, io mi sono concessa. Ora lei può fare quello che vuole. Può ignorarmi. Può distruggermi.
Ma sappia una cosa: non l’ho fatto per prostituirmi. Sono tutto fuorché una puttana.
L’ho fatto perché credo nel talento.
Nel talento di chi vede oltre il proprio cazzo e il proprio ego.
Nel talento di chi capisce che il potere non è possedere, ma saper creare qualcosa che rimane.
E Giorgio non può neanche immaginare tutto questo.
Perché per vedere così in alto, bisognerebbe alzare lo sguardo dal proprio cazzo. E lui non ci riesce.
Ora sta a lei decidere.
Con rispetto.
Innanzitutto nei miei confronti.
E poi nei suoi.
Lucia rilesse.
Sentì il brivido lungo la schiena. Una scossa sottile, come una lingua calda che scivolava tra le scapole.
L’aria sembrava più pesante, il tessuto del vestito più aderente alla pelle, il respiro più profondo.
Le dita tremarono appena sulla tastiera.
Non era paura. Era l’attesa prima dello scoppio.
Premette INVIA.
E lasciò andare il fiato.
Non era un orgasmo.
Era di più.
[a.marcellocallisto@gmail.com]
scritto il
2025-05-19
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