La seconda porta 5 - il cantiere delle giostre

di
genere
etero

CAPITOLO V
SCENA 1 - L’AUTOBUS
Lucia uscì dall’ufficio, il respiro ancora sospeso tra un battito e l’altro.
La mail era partita.
Eppure.
Le aveva lasciato una strana sensazione addosso.
Non era sollievo.
Non era paura.
Era qualcosa di più profondo.
Un’eco nel ventre, un battito tra le gambe, un vuoto che non era vuoto.
Aveva bisogno di riempirlo.
Di cosa, non lo sapeva.
Ma doveva farlo.
Doveva.
Il vento della sera le accarezzò le gambe mentre scese i gradini con un passo troppo veloce, quasi una corsa.
L’autobus era già alla fermata.
Non voleva perderlo.
L’autobus, gli uomini, gli odori
Lucia odiava l’autobus.
Odiava i corpi ammassati.
Odiava il sudore degli uomini che uscivano dai cantieri, dai magazzini, dalle strade, il puzzo di ferro, di cemento, di giornata consumata sulle ossa.
Odiava il contatto involontario, il fiato troppo vicino, le mani che sfioravano senza intenzione o con troppa intenzione.
Ma stasera era diverso.
Stasera voleva tutto.
Voleva quell’umanità ruvida.
Voleva quei corpi.
Voleva respirare il sudore vero, quello che non si maschera dietro cravatte e profumi di lusso.
Quello che non era Giorgio. Quello che non si credeva padrone del mondo. Ma che il mondo lo teneva sulle spalle.
L’autobus era pieno fino all’inverosimile.
Lucia riuscì a trovare spazio vicino alla porta, ma sapeva che alla fermata successiva ne sarebbero saliti altri.
Molti altri.
E così fu.
Un flusso di corpi che riempiva ogni fessura, ogni spazio d’aria, ogni respiro.
Alla fermata successiva, tra quelli che attendevano di salire c’era… c’era lui.
Un muratore. Un operaio di cantiere. Quarantenne fisico asciutto, muscoli e nervi che affioravano dai vestiti
Lo notò subito.
Lui la notò subito.
Occhi scuri, sporchi di strada e di fatica.
Pelle segnata da un giorno intero di sole e polvere.
Braccia grosse, mani abituate a stringere, a sollevare, a costruire, a rompere.
Non si mise accanto a lei per una strategia. Non era un gioco. Era solo l’unico spazio rimasto.
Ma quando il corpo di Lucia si trovò a pochi centimetri dal suo… L’aria cambiò.
E lei lo sentì.
Lo sentì dappertutto.
La voglia la colpì come un pugno nello stomaco.
E per la prima volta non si tirò indietro. Non volle scappare. Voleva di più.
E lui era lì.
Lucia si mosse. Non per caso. Non per sbaglio. Non per errore.
Si mosse perché lo voleva. E lo voleva qui. Ora.
Le dita trovarono il manico in alto, la presa ferma, le braccia tese come un arco perfetto.
E poi il bacino.
Indietro … Contro … Offerto.
Il suo culo sfiorò la patta dell’uomo.
Un tocco.
Poi un altro. Leggero. Ma calcolato.
Uno sfregare morbido, una pressione minima, quanto basta per farglielo sentire senza darglielo davvero.
Il respiro dell’uomo cambiò. Ma non reagì.
Forse pensava fosse solo il movimento dell’autobus.
Forse non voleva credere che fosse vero.
Ma Lucia era lì.
Voleva che lo sentisse.
E quando il bus frenò di colpo…Lo schianto.
Il suo culo si spinse contro di lui. Forte.
E il cazzo dell’uomo trovò la Seconda Porta.
Lo sentì.
Lei lo sentì.
E lo lasciò scivolare tra le natiche, come un errore che errore non era.
L’uomo sussultò appena.
Un impercettibile irrigidimento del corpo. Un respiro che cambiava ritmo.
Ma ancora non fece nulla. Ancora credeva fosse un caso. Uno sbaglio.
Lucia sorrise.
E lo colpì. Un colpo più netto. Un colpo più chiaro.
Un colpo che diceva “Ora sai che è vero.”
E poi lo guardò.
Non era uno sguardo dolce. Non era uno sguardo timido. Non era nemmeno sensuale.
Era fame.
Era una bocca che non si apriva, ma che ingoiava tutto.
Era un richiamo animale.
Era una gabbia che si chiudeva.
Era una porta che si spalancava.
Non gli chiedeva permesso.
Non gli chiedeva se gli piaceva.
Gli diceva “Ti sfido.”
Gli diceva “Vediamo se hai il coraggio di prendermi.”
Gli diceva “Vediamo quanto sei uomo.”
E lui rispose.
I fianchi di lui si mossero. Non un colpo. Non due. Tre.
Tre spinte precise, lente, silenziose.
Un cazzo che cercava spazio senza dirlo.
Un cazzo che voleva la Seconda Porta senza osare chiederlo.
Lucia lo sentì tutto.
E lo lasciò fare.
Per qualche secondo, lo lasciò credere.
Poi prese il controllo.
Gli prese la mano. La strinse.
Se la portò davanti. Sul pube gonfio. E lì, lo fece sentire davvero.
Non solo la sua voglia. Non solo il calore che pulsava sotto la stoffa.
Ma la carne viva. La figa tesa. L’umidità.
Lui passò un dito sulla stoffa.
Lucia prese un respiro. Non era un gemito. Ma quasi.
Dietro, lui continuava a spingere, a premere, a cercare.
Davanti, le sue dita tremavano.
E poi, la sua voce.
Bassa. Secca.
Un comando, più che una proposta.
— Vuoi scoparmi? Portami al cantiere.
La fermata successiva scivolarono fuori dall’autobus.
Non insieme. Ma come se fossero già un corpo solo.
Lui tirò fuori il telefono.
Parlò in una lingua che Lucia non capì. Probabilmente dell’Est.
La voce bassa, spezzata, quasi urgente.
Lucia immaginava. Immaginava con la certezza del sangue che pulsa.
Stava dicendo che sarebbe tornato tardi.
E lei sapeva che lo avrebbe fatto ritardare molto.
Camminavano fianco a fianco.
Ma non erano uguali.
Lui guidava. Ma era Lucia a condurlo.
Perché lei non camminava. Lei scivolava. Ogni passo un invito.
Ogni movimento delle anche una promessa. Ogni respiro, un segnale.
La gonna tirata leggermente in avanti, giusto per lasciare intendere la carne sotto.
I fianchi che oscillavano quanto basta per fargli capire che sotto c’era vita, che sotto c’era il fuoco.
E lui lo vedeva. E lui non staccava gli occhi.
Non c’era esitazione. Non c’era più resistenza.
Solo desiderio. Solo la carne che chiamava altra carne.
Lucia non stava andando al cantiere. Ci stava portando lui.
Perché quella sera, il vero lavoro l’avrebbe fatto lei.
SCENA 2 - L’INGRESSO IN CANTIERE – IL CAPOCANTIERE
E poi finalmente il cancello del cantiere. Socchiuso. L’aria era più densa, più calda.
L’odore del cantiere era ferro, polvere e sudore vecchio di una giornata consumata.
Lucia entrò e il suo corpo reagì. Le narici si allargarono per inspirare tutto. Il fiato le si bloccò in gola per un secondo.
La figa pulsò … Un colpo secco. Come un battito di vita tra le gambe.
Le cosce si sfiorarono.
E lei li vide.
Quattro.
No, cinque, con l’uomo dell’autobus.
E il pensiero la eccitò ancora di più.
Non era più uno solo. Era un branco.
E lei stava camminando verso di loro.
E li voleva tutti.
La stoffa della gonna sembrava stringere di più.
Il respiro era più pesante.
Le mutande troppo umide, troppo tese.
E fu lì che sorrise. Un sorriso di quelli che bruciano.
Un sorriso di quelli che sanno già come andrà a finire.
Lucia non aspettava. Lucia sceglieva … E scelse.
Prese per mano l’uomo dell’autobus.
Stringendo forte. Possedendo lui prima ancora di essere posseduta.
E lo portò dritto nella tana dove li altri quattro uomini attendevano
Uno sui sessant’anni.
Spalle larghe, la pelle cotta dal sole, rughe che non erano vecchiaia, ma vita.
Lucia lo guardò e immaginò le sue mani. Callose. Dure.
Mani che non avevano mai accarezzato, ma solo afferrato.
Uno sui quarant’anni.
Normale. Troppo normale.
Un operaio di quelli che passano inosservati, proprio perché sono hanno in viso quell’ignorante decisione dell’operario che fa e non pensa.
Uno di quelli che si confondono nel sudore degli altri. Di quelli che probabilmente scopano nello stesso modo in cui impastano il cemento.
Uno sui trentacinque. Il capo cantiere.
Lucia lo capì dal primo sguardo. Dal modo in cui si piantò davanti a lei senza fretta, senza esitazione.
Dalla spavalderia che non aveva bisogno di parole per farsi sentire.
Era di quelli che comandano, anche se non contano niente.
Di quelli che vogliono sempre essere i primi a prendere, per il semplice gusto di dimostrare che possono farlo.
E poi l’ultimo.
Il ragazzo. Venti, forse ventuno anni.
Alto, grosso, massiccio. Un po’ butto. Un po’ timido.
Uno che non è mai stato guardato da una donna.
Uno che probabilmente non aveva mai visto una figa da vicino.
E fu su di lui che si fermarono gli occhi di Lucia.
Il capo cantiere rise.
Le si avvicinò come se fosse già sua. Disse all’uomo dell’autobus senza guardarlo
— Al telefono avevi detto che era una bella scopata, ma questa è veramente gnocca.
Lucia capì l’oggetto della telefonata: non chiudere il cantiere.
Sorrise. L’uomo dell’autobus non sapeva che lei il cantiere lo aveva già aperto.
Poi il capocantiere guardò il ragazzino e gli diede una pacca sulla spalla pesante come un ordine.
— Vai. Oggi è il tuo giorno.
Gli occhi del ventenne si spalancarono.
L’uomo lo spinse leggermente verso Lucia.
— Se mi gira, te la faccio vedere.
— Così, per la prima volta la vedi veramente e non sui giornaletti.
Il ragazzo sussultò. Balbettò qualcosa.
— Lasciami stare.
Lucia lo sentì tutto in quella voce.
L’insicurezza. Il disagio. La paura di essere al posto sbagliato.
E fu proprio in quel momento che il capo cantiere si avvicinò a lei.
Troppo.
Troppo veloce. Troppo convinto.
— Ma come? Non la vuoi vedere?
La sua mano salì sulla coscia di Lucia. Le dita pronte a sollevare la gonna.
E allora Lucia si mosse.
Un colpo secco.
Uno schiaffo che non era un rifiuto.
Era una condanna.
Lui si bloccò. Confuso. Incredulo.
— Ma dai, lo so che sei una troia.
Sorrise come se la scena lo divertisse.
— E lo so quello che vuoi.
Si guardò attorno, allargando le mani, chiedendo consenso agli altri.
— Noi te lo daremo.
Lucia non abboccò. Non si scompose.
Si avvicinò quanto bastava per fargli sentire il suo respiro sulla pelle.
Poi, glielo disse. La sentenza.
— Io lo so meglio di te quello che voglio.
Sorrise. Un sorriso che non era dolce. Era veleno.
— E quello che voglio, tu non lo puoi neanche immaginare.
Si fermò.
— Ma da te non voglio niente.
Lo fissò negli occhi.
— Vattene.
Il capo cantiere non rise più.
Il fastidio gli increspò la fronte, le sue dita si chiusero attorno al braccio di Lucia. La strattonarono.
Errore.
Lucia reagì. Veloce. Secca.
Un calcio dritto nelle palle.
L’uomo barcollò. Si piegò.
Un grugnito. Un’esplosione di insulti.
E prima che potesse rialzarsi, Lucia parlò. Si voltò verso gli altri.
— Se volete scoparmi, cacciatelo.
Silenzio. L’aria tesa.
Il capo cantiere si riprese. La voce roca.
— Troia, ti faccio vedere io chi deve andarsene. Ma prima ti spacchiamo tutta.
Ma non fu lui a muoversi. Fu il ragazzino.
Il ventenne fece un passo avanti. Poi un altro.
E poi il pugno. Dritto in faccia al capo cantiere.
L’uomo indietreggiò.
— Sei licenziato.
Si toccò il labbro spaccato.
— Domani non venire a lavorare.
E allora fu Lucia a ridere.
— Se lo licenzi, io dico che mi hai usato violenza mentre ero con il mio nuovo fidanzato.
Tutti tacquero.
— E sai una cosa? Ho quattro testimoni.
Si voltò verso gli altri. I suoi occhi trovarono i loro. Uno per uno.
— Voi testimonierete, vero?
Un respiro. Un secondo.
— Lo farete.
Fece un passo avanti.
— Non solo perché volete scoparmi.
Fece un altro passo.
— Ma perché sapete che è l’unico modo per non subire più angherie da questo stronzo.
E in quel momento, tutto cambiò. Gli uomini si avvicinarono come per ubbidire all’ordine di Lucia.
Il capo cantiere lo capì.
Era fuori.
Lo sapeva lui.
Glielo avevano fatto capire loro.
Ma più degli uomini Lucia. Era lei, ora il capocantiere. E in quel cantiere il desiderio sarebbe stato il pilastro di un’esplosione di sesso.
Il capocantiere nuovo lo aveva deciso.
Il capocantiere vecchio se ne andò.
Scivolò nelle ombre allungate del tardo pomeriggio, sputando a terra insulti che non servivano più a niente.
Lucia non lo guardò nemmeno.
Sentì il cancello del cantiere chiudersi.
Ora era rimasta sola con i suoi operai.
Ora il mondo fuori non sapeva di loro.
Solo polvere. Solo sudore.
Un cantiere da avviare.
Lucia li guardò. E non disse niente.
Non serviva.
Lucia li guardava, li sentiva. Nessuna fretta.
Li voleva tutti.
Ma prima lui. Il più giovane.
Timido, grosso, impacciato.
Un ragazzo che aveva ancora troppa vergogna negli occhi, ma che sapeva tirare un pugno quando contava davvero.
SCENA 3 – L’INIZIAZIONE DEL RAGAZZO
Lucia lo prese per mano.
Senza pensarci. Senza lasciargli tempo di pensare.
Solo pelle contro pelle. Solo calore contro calore.
Quel pugno lo aveva eccitata. Lo sentì come un colpo sulla figa. La senti spaccarsi come il labbro del capocantiere. Quello vecchio.
Ma quel ragazzino non doveva vivere di solo pugni.
Doveva allenare la mente prima dei muscoli per godere di quei pugni.
E Lucia lo sapeva.
Lo condusse alla panchina, senza forzarlo, senza parlare.
Si sedette accanto a lui.
Vicino. Troppo vicino.
Gli occhi di lui erano larghi, tesi, increduli.
Lucia lo sentì.
Sentì il battito accelerato nel petto. Senti la sua coscienza partire dalla mente e insinuarsi nel corpo.
Sentì la sua gola che si contraeva, il respiro spezzato.
E lo trovò bellissimo.
Non perché fosse bello. Ma perché era vero.
Era qualcosa che non si era ancora sporcato.
Era qualcosa che lei voleva toccare per prima.
Lucia alzò una mano e gli sfiorò il viso. Le sue dita erano calde.
Scivolarono sulla sua pelle come un sussurro.
Lui rimase fermo, paralizzato dal contatto.
Lucia sorrise.
Poi lo baciò.
Le sue labbra si posarono sulle sue.
Dolci. Morbide.
Senza fretta. Solo un tocco.
Solo il tempo che la sua mente capisse.
E lui non si mosse.
Non rispose.
Era confuso tra i pensieri della sua mente.
Lucia lo baciò ancora. Di più.
Lo guidò.
Lo accompagnò.
La sua lingua sfiorò appena la sua bocca, bussò piano, gli chiese di entrare.
E il ragazzo si lasciò andare.
Respirò dentro di lei.
E i suoi pensieri divennero azioni.
Il bacio divenne vero.
Più profondo, più lento, più vivo.
La bocca di lui si aprì. Le sue labbra la cercarono.
Lucia lo sentì sciogliersi.
Non c’era più paura.
C’era solo pelle. In viaggio.
Il viaggio della scoperta. Quando il corpo, la carne, precede la mente
Le mani di Lucia si mossero senza fretta.
Gli scivolarono lungo il petto. Gli scesero sui fianchi.
Le dita trovarono la zip dei pantaloni.
Lui sussultò leggermente, ma non la fermò.
Era pronto.
Lucia abbassò la zip. Le mani con lentezza crudele si insinuarono tra i mutandoni.
E allora lo sentì. Tra le dita.
Caldo. Duro. Grosso. Pulsante.
Lucia lo accarezzò piano. Quasi un massaggio. Quasi un rito.
Lo sentì gonfio nel palmo.
E con il palmo della mano lo guido fuori.
E il cazzo espose fuori dalla zip. Come un grosso ramo di albero prima piegato in una posizione innaturale.
Lui gemette piano, senza riuscire a trattenersi.
Lucia sorrise tra i baci.
E allora aumentò il ritmo .
E anche la lingua di lui lo aumento.
E lui non fu più lo stesso. Divenne più sicuro. Finalmente un uomo.
Il ragazzo venne di colpo.
Senza preavviso. Senza riuscire a trattenersi.
Un sussulto forte, un respiro spezzato, un gemito soffocato tra i denti.
Lucia lo sentì tutto.
Lo sentì nell’aria. Lo sentì sulle dita.
E poi sulle sue tette.
Caldo. Denso.
Un colpo di sborra che le schizzò addosso, che le segnò la pelle.
Lucia trasalì.
Non se lo aspettava così presto.
Non se lo aspettava così tanto.
La stoffa del vestito si appiccicò al capezzolo teso. Si inturgidì.
Un brivido le attraversò la pelle, le trafisse il ventre.
Era eccitazione. Era una promessa.
Il ragazzo non la baciava più.
Era ancora immerso nel piacere, ancora smarrito nell’onda che lo aveva travolto.
Dall’altro lato, uno degli uomini parlò.
— Possiamo avvicinarci ora?
Lucia non li guardò neanche. Aveva altro da fare.
— Ancora no.
Si abbassò.
La lingua trovò la pelle. Calda. Vellutata. Ancora sporca.
Lucia leccò.
Sotto la lingua, il sapore della sborra. Salato. Metallico. Umano.
Lo prese tra le labbra.
Lo fece scorrere sulla lingua.
Lo fece succiare tra le guance.
Lo sentì.
E lo capì.
Quella sborra era l’aperitivo.
Il dolce? Il gusto del fondo che voleva toccare.
E Lucia lo volle.
Bevve l’aperitivo. Lo inghiottì con un piacere che le scosse il ventre.
SCENA 4 – LUCIA VIENE SPOGLIATA
Quando si rialzò, il suo sguardo brillava. Si voltò verso il ragazzo.
— Accompagnami dai tuoi amici.
Lucia avanzò senza esitazione.
Il ragazzo accanto a lei, ancora col fiato spezzato dall’orgasmo, ancora con il sapore di lei sulle labbra.
Gli altri tre uomini la aspettavano. Occhi puntati addosso. Respiri densi.
Ma nessuno si muoveva.
Aspettavano un segnale.
Lucia lo diede.
— Spogliatemi.
Le voci nella testa si spensero.
— Ma non toglietemi gli slip.
Le loro mani arrivarono.
Ma troppo leggere. Troppo timide. Le dita sfioravano, senza afferrare.
I corpi rimanevano distanti.
Lucia lo sentì subito. Un’energia sbagliata.
Non era per questo che era venuta. Non era per questo che li aveva voluti.
Li guardò, ferma, decisa.
— Ma voi lavorate in cantiere con quest’energia?
Nessuno parlò.
— Vi voglio decisi.
— Duri.
— Sporchi.
Si avvicinò ancora di più, sfiorò il petto di uno di loro con il proprio.
Lo accese. Lo spinse.
E allora successe.
Le mani non furono più timide. Non più incerte. La presero.
Davvero.
La pelle contro la pelle.
Le dita che frugavano, che scivolavano ovunque.
Le loro magliette volarono via, perché il contatto doveva essere totale.
Lucia sentì i loro petti caldi contro la schiena, le braccia, il ventre.
Le mani che la prendevano, la spostavano, la offrivano l’uno all’altro.
La girarono. La strinsero alle spalle.
La bocca presa, le dita che scivolavano sulle sue labbra, sulle sue guance.
Le sue tette piene di mani. Di dita che stringevano con la fame di chi non si accontenta mai. Di bocche assetate ad una sorgente che non toglie la sete, l’aumenta.
Uno la spinse contro un altro. La carne contro la carne.
Una giostra di corpi, di respiri pesanti, di eccitazione che si mescolava alla polvere del cantiere.
Alla polvere furono consegnati i suoi vestiti.
Anche ogni forma di pudore divenne polvere
Loro ora la vedono. Tutta.
— Dio, che culo.
La voce ruvida, roca.
Qualcuno si inginocchiò.
Le mani scivolarono sulle sue natiche, le dita si insinuarono sotto gli slip, appena, giusto quanto bastava per separarli un po’, per vedere oltre.
— Guarda che figa . Guarda che pelo
Un respiro rotto.
— Guarda che culo.
Lucia era ovunque.
Tra le loro mani. Tra i loro respiri.
Tra i loro sguardi che la consumavano prima ancora di toccarla.
Le loro bocche la cercavano, la prendevano.
Uno la spinse contro un altro.
E Lucia baciò.
Baci forti, baci pieni. Lingue che si incontravano, che si scoprivano, che si sbranavano.
Le mani continuavano a scorrere.
Le spalle strette tra corpi che la passavano da uno all’altro.
Le dita che scivolavano sulle tette, sui fianchi, sul ventre.
Qualcuno le succhiava il collo.
Qualcuno la teneva ferma, stringendola per i polsi.
Lucia gemeva nel bacio. E godeva.
Qualcun altro la prese per i fianchi e si inginocchiò.
— Che culo … che culo … che culo.
Il respiro di lui le sfiorò la pelle.
Le mani si posarono sulle sue natiche. Le allargarono.
— Guarda che curva, guarda come sale dal pube fino al buco del culo.
Gli altri si fermarono per guardare. Annuirono, inghiottendo saliva, eccitati, affamati.
E fu Lucia a decidere il passo successivo.
Prese una mano. La portò sul proprio pube.
Le dita trovarono il calore.
Il tessuto delle mutande era teso, umido, gonfio del suo piacere.
Le dita cominciarono a muoversi.
A frugarla. A sentirla attraverso la stoffa.
Lucia ansimò, tirò indietro il collo.
Le gambe si aprirono leggermente.
Poi prese un’altra mano. E la guidò dietro.
La posò sul suo culo.
Le dita trovano il confine morbido, caldo.
Trovarono il buco. Anche lui coperto dalla stoffa.
Lucia lo sentì.
SCENA 5 – LUCIA IN GINOCCHIO – LA GIOSTRA DEI POMPINI
Disse loro:
- Abbassatevi i pantaloni ma non togliete le mutante
Lucia li aveva di fronte. Li aveva in cerchio
Lucia si inginocchia.
Gli uomini la circondano, i pantaloni abbassati, le mutande ancora a separare la carne.
Lucia passa lo sguardo da uno all’altro.
Li vede tutti. Li sente tutti.
Le stoffe gonfie davanti a lei.
Il calore che emana dai loro corpi.
Li guarda negli occhi mentre allunga le mani.
E uno alla volta, li libera.
Ora sono li, esposti. Caldi.
Non erano tutti uguali. Non potevano esserlo.
Lucia li studiò.
Il ragazzo era ancora lì, con il fiato spezzato, con la pelle ancora scossa dal primo orgasmo.
Il suo cazzo era di nuovo duro.
Lucia sorrise.
Vigore. Pelle tesa, vene gonfie, una forza quasi incosciente.
Un cazzo che non si spegneva subito, che voleva di più, che non sapeva ancora quando dire basta.
Lucia gli sfiorò la punta con la lingua.
E lo sentì pulsare sotto il tocco.
Lo prese tra le labbra, appena, quanto bastava per fargli trattenere il respiro.
Lucia alzò lo sguardo.
L’uomo più anziano la guardava con occhi diversi.
Non era impazienza. Non era voglia grezza.
Era qualcosa di più pesante. Consapevolezza.
Lui non aveva bisogno di affrettarsi, non aveva bisogno di lottare per essere scelto.
Sapeva che il piacere arriva quando deve arrivare.
Il suo cazzo non era il più grande, non era il più dritto.
La pelle aveva il segno del tempo. Le vene erano più visibili.
La carne più spessa, più vissuta, più vera. Più rugosa, meno elastica.
La pelle aveva ceduto sotto il peso dei coglioni e le palle era grandi. Troppo.
Lucia le prese. Trasbordavano dal palmo della sua mano.
Se li portò al naso. Le annusò.
Ne sentì l’odore più intenso, più pieno.
Era maschio. Era esperienza.
Le assaggio con la lingua. E dai quei coglioni sentì pulsare una voglia ancora viva.
Con l’altra mano prese il cazzo con la mano. Era caldo, pesante, solido.
Lo portò alla bocca, ma senza fretta.
Lucia lo leccò piano.
Sapeva di sale e di tempo.
E le piacque.
Poi ci furono loro.
I due uomini nel pieno della carne, del lavoro, della fatica.
Quarantenni. Non ancora vecchi. Non più ragazzi.
Il primo, quello dell’autobus, più asciutto, più controllato.
Il secondo più rozzo, più sfacciato.
Lucia li prese entrambi.
Uno nella mano. Uno tra le labbra.
Li sentì reagire in modo diverso.
Uno che ansimava piano, che si tratteneva.
L’altro che gemeva già, che voleva di più, che non sapeva aspettare.
Lucia giocò con loro. Li alternò dalla mano alla bocca.
Li succhiò lentamente, li assaggiò, li fece soffrire.
Li baciò, li leccò, li fece pulsare di desiderio.
Lucia aveva la bocca piena. La mano piena.
Di loro. Della loro carne. Del loro odore. Della loro voglia.
Poi cominciò ad alternarli tutti. Più velocemente.
Li prendeva uno alla volta, lasciando tracce di saliva, di calore, di ansimi che diventavano gemiti.
Il ragazzo, il vecchio, i due uomini nel pieno della forza.
Tutti. Uno dopo l’altro.
Li assaggiò. Li sentì.
Infine si soffermò sul ragazzo. I fremiti di piacere lo avevano spinto più distante. Ma il suo cazzo era sempre in attesa
Era il più lungo, il più grosso, il più gonfio.
Lucia lo prese con entrambe le mani, lo sfiorò con la lingua prima ancora di farlo scomparire tra le labbra.
Lo succhiò senza esitazione, la gola che si apriva per accoglierlo fino in fondo.
Le guance si scavarono, la saliva colò lungo l’asta mentre il glande le sfiorava il palato, la sua bocca un vortice umido che lo inghiottiva con un risucchio febbrile.
Ogni affondo era più profondo, ogni spinta più audace, ogni movimento un atto di puro dominio del piacere.
Si fermò ancora in ginocchio circondata dai quattro uomini. Le bocche umide, i respiri densi, l’odore di pelle calda e stoffa sporca che le saturava le narici.
I loro cazzi erano una corona di carne intorno a lei.
Le mani degli uomini iniziarono a muoversi.
Non più esitanti. Non più incerte.
Ora la volevano. E lei lo sentì.
Le dita sulle spalle, sulle braccia, sul collo.
Un palmo le scese lungo la schiena, seguendo la curva della colonna vertebrale, fermandosi dove gli slip aderivano troppo alle sue forme.
Un altro le sfiorò il mento, lo afferrò appena, la costrinse a sollevare lo sguardo.
Non aveva più scelta. Doveva guardarli.
Doveva vedere quegli occhi scuri che la divoravano, che la volevano, che non avrebbero aspettato ancora a lungo.
Le dita la toccavano ovunque, sfioravano la stoffa tesa degli slip, premevano appena contro il tessuto, come se volessero saggiarne la resistenza.
E poi la bocca.
Una bocca che non aveva chiesto il permesso.
Una bocca che si era piegata su di lei, dietro, tra le sue cosce.
Calda. Affamata.
Le labbra e la lingua si mossero sul tessuto, lo bagnarono, lo succhiarono, lo sfregarono finché il sottile strato di stoffa non fu un’illusione.
Lucia rabbrividì.
Non poteva vederlo. Ma lo sentiva.
Il calore che si diffondeva sotto le mutande, il tessuto che aderiva alla sua pelle, diventando un tutt’uno con la carne.
Un cazzo le sfiorò la guancia.
Non le fu infilato in bocca.
Non ancora.
Ma c’era. Presente. Pronto.
Uno di loro afferrò la sua mano. La fece scivolare sul proprio cazzo, la costrinse a sentirne la consistenza, la durezza, la necessità.
Lucia non si tirò indietro. Stringeva. Accarezzava. Accettava.
Eppure, sotto tutto questo, una domanda le graffiava il ventre.
“Dove voglio arrivare?”
La figa rispose, il culo rispose. Risposero all’unisono.
“Non lo sappiamo ?”
E allora Lucia provo un orgasmo profondo.
Capì che non c’erano limiti.
La lingua sotto di lei non si fermava.
Leccava, succhiava, divorava.
Un morso, leggero, sulla stoffa tesa. Appena percettibile. Ma abbastanza.
Abbastanza perché Lucia sentisse che qualcosa stava per accadere.
Qualcosa che forse nemmeno lei aveva previsto.
Lucia era lì, in ginocchio, al centro del desiderio.
Intorno a lei, tre uomini. Il quarto sotto di lei. Quattro corpi, quattro respiri che si mescolavano nell’aria densa del cantiere.
Il sessantenne. Il più esperto, quello che non aveva bisogno di affrettarsi, quello che sapeva assaporare, che conosceva la fame e sapeva come trattenerla.
Il giovane. Vent’anni appena. La pelle tesa, il respiro corto, il sangue che gli ribolliva nelle vene. Era ancora in bilico tra il desiderio e l’insicurezza, ma Lucia lo avrebbe fatto diventare uomo.
I due quarantenni. Diversi e complementari.
Uno duro, asciutto, controllato, con lo sguardo di chi prende e non chiede.
L’altro più sfacciato, più animale, uno che si sarebbe lasciato travolgere, che non avrebbe trattenuto nulla.
E lei era lì, al centro di tutto.
Le mani non smettevano.
Prima leggere. Poi più decise.
Le dita sulle spalle, sul collo, sui capelli, sulle guance.
Uno di loro la prese per il mento. Sollevò il suo viso.
Un altro la prese per la nuca. Le fece ruotare il volto la costrinse a guardare.
Lucia vide i cazzi. Duri, gonfi, tesi.
Li sentì pulsare nell’aria prima ancora di sfiorarli.
E poi fu la sua bocca. Ricominciò. Più affamata
Si aprì. Li accolse. Uno dopo l’altro.
Il sessantenne fu il primo. Pesante, caldo, con il sapore della vita vissuta.
Lucia lo sentì sulla lingua, lo fece scivolare dentro, lento, profondo, riempiendosi la bocca di quell’uomo che non aveva più nulla da dimostrare, ma che sapeva farsi sentire.
Lui non spinse subito.
Aspettò. La lasciò esplorare.
La sua bocca si mosse, si strinse, lo avvolse, lo succhiò.
Lucia lo sentì premere contro il palato, lo accolse fino in fondo.
Poi lo lasciò uscire.
Un filo di saliva, denso, scivolò sulle sue labbra.
E prima che potesse riprendere fiato, un altro lo prese il suo posto.
Il quarantenne asciutto.
Deciso, silenzioso.
Il suo cazzo scivolò tra le sue labbra senza esitazioni.
Nessun gioco. Nessuna dolcezza. Solo bisogno.
Lucia sentì le sue mani sulle tempie.
Le dita che la guidavano.
Il ritmo che si imponeva sulla sua bocca.
E lei lasciò fare.
La sua bocca si riempiva e il suo corpo si scioglieva.
E poi, arrivò il giovane.
Il suo cazzo tremava tra le sue dita.
Lucia lo guardò.
Gli prese la base dell’asta con la mano.
Gli strinse il glande tra le labbra, lo succhiò piano, lo fece scivolare dentro centimetro dopo centimetro.
Lui ansimò. Gli tremarono le gambe.
E lei lo sentì.
Sentì il potere di trasformarlo.
Il quarantenne spavaldo continua a leccare sotto di lei.
Leccava.
Attraverso gli slip.
Ora le labbra si posarono sul tessuto teso, la lingua scivolò lungo il solco caldo della figa, premendo sulla stoffa bagnata, forzandola contro la carne pulsante.
Lucia sentì il pube gonfiarsi di piacere.
Sentì il calore scivolarle nel ventre.
Sentì il fremito tra le gambe.
E allora si abbassò.
Si sedette sul suo viso.
Prese tutto.
Le mani dell’uomo dischiusero completamente le sue natiche, la trascinarono contro la sua bocca.
La lingua la divorava.
Lucia strinse le cosce, si lasciò inghiottire, si lasciò divorare.
E mentre veniva leccata e succhiata attraverso il tessuto, affondò sempre di più verso di lui, verso la sua bocca non smetteva di lavorare.
Un cazzo in bocca, uno in una mano, uno nell’altra. L bocca succhiava, le mani stringevano. Il piacere che la travolgeva da ogni lato.
Il suo corpo non era più suo.
Era del piacere. Era del desiderio.
Era dell’abisso che stava per spalancarsi.
E fu allora che qualcosa cambiò.
Lucia alzò lo sguardo. I capelli umidi di saliva, il respiro spezzato dal piacere, le cosce ancora vibranti per la lingua che l’aveva consumata attraverso il tessuto.
SCENA 6 LUCIA IN ARIA – LA PRIMA GIOSTRA DEL BRANCO
Si passò una mano sulle labbra, come se volesse assaporare il piacere che ancora le scorreva dentro.
Poi parlò.
— Ora il gioco si fa duro. Chi non è duro, se ne vada.
Silenzio.
Nessuno si mosse. Nessuno si tirò indietro.
Il branco era pronto.
Le mani si allungarono su di lei.
Prima una. Poi due. Poi tutte.
La sollevarono.
Lucia si sentì galleggiare tra le braccia degli uomini, trasportata dal desiderio grezzo, dalla fame che la circondava.
Uno le afferrò il busto, le braccia aperte, il respiro spalancato.
Due la presero per le gambe, la aprirono, la esposero.
E poi… La lingua.
Un colpo di calore tra le cosce, un assalto bagnato sulla stoffa già fradicia.
La leccavano. Ancora attraverso gli slip.
Ma non era più un semplice sfiorare.
Era divorare, succhiare, premere con la bocca contro la carne gonfia.
Lucia si inarcò tra le loro braccia.
Il ventre si contrasse.
La pressione le montava dentro come un’onda impossibile da fermare.

Qualcuno la mise sottosopra. Non sapeva chi.
Le gambe che si sollevavano, la schiena che si piegava, la gola che si spalancava su un cazzo teso.
La sua bocca lo prese.
Si aprì su di lui, lo inghiottì, lo accolse.
E mentre sentiva la carne pulsarle tra le labbra, dietro di lei, un’altra lingua.
Calda. Affamata.
Sul suo culo.
Si piegò sulle sue spalle, le mani che le allargavano le natiche, la bocca che scendeva tra le pieghe più profonde.
Lucia tremò.
Si sentiva offerta, presa, usata senza essere ancora penetrata.
Eppure, stava già sprofondando.
Il suo corpo era diventato uno strumento di piacere assoluto.
Non era più solo Lucia.
Era pura voglia.
Il respiro si fece rotto, il ventre si tese, il culo spinse sulla testa dell’uomo che lo stava leccando.
Lucia era sospesa. In aria.
Sospesa tra le loro mani. Tra i loro corpi. Tra le loro bocche.
L’aria era densa di fiato caldo, di respiro greve, di pelle umida che sfregava contro pelle.
E poi, il momento.
Le dita scesero sui suoi fianchi.
Le mani si chiusero sugli slip, le dita affondarono nei fianchi, nel tessuto teso che aderiva alla sua carne calda.
Tirarono. Lentamente.
La stoffa si incollava alla pelle umida, resisteva per un istante, come se non volesse separarsi da lei.
Poi cedette.
Scivolò lungo le cosce, tracciando un’ultima carezza sul pube, sulle labbra ancora tremanti di desiderio.
Si fermò appena sulle ginocchia, lasciando Lucia esposta, nuda, completamente offerta ai loro sguardi.
Il pube gonfio emerse sotto il folto pelo. Più sotto le labbra gonfie si aprirono un poco, ancora bagnate, ancora palpitanti.
Un tremore si trasferì sul pelo. Come un elastico si distese e si arricciò.
SCENA 7 - LA GIOSTRA DEL BRANCO LE GIRA INTORNO
Era lì, sotto i loro occhi. Esibita. Umida. Pronta.
Lei pronta ma gli uomini non abbastanza. Non come voleva lei.
Doveva accendere ancora di più il loro desiderio.
Con voce che non aveva bisogno di alzare il tono per essere decisa disse.
— Fermatevi.
Il branco si fermò con un bramito di obbedienza.
Si piantò a terra. Gambe leggermente divaricare. Mani sulla vita snella.
— Allontanatevi e giratemi intorno. Guardatemi tutta.
E il branco vide.
Vide tutto.
Le caviglie sottili.
Le gambe marmoree.
Le cosce snelle, supportavano un culo tondo. Tonico.
Le cosce erano così snella da lasciare il culo leggermente aperto al centro. E in quel paesaggio di carne emergeva il buco del culo che si stagliava sopra lo scivolo delle labbra gonfie e più sotto del pube.
Da dietro si poteva scorgere tutto il solco delle labbra.
Davanti il pube gonfio sembra esplodere sotto un pelo folto, una V perfetta di peli folti e ricci.
La vita snella, sembrava ancora più snella dalla mani che le premevano intorno. Le dita affusolate premevano forte sul ventre teso come la pelle di un tamburo.
Un seno a goccia con due capezzoli che dritti puntavano verso il cielo. Le tette leggermente staccate. Un solco in mezzo.
Le braccia snelle incorniciavano l’arco perfetto della sua schiena.
Le spalle strette rendevano il collo ancora più alto.
Il viso bello. Bellissimo. Bellissimo perché non bellissimo. Bellissimo perché di una bellezza reale.
La mascella delicatamente curva, il mento con una fossetta in mezzo leggeremete più sterro della fronte erano i contorni del suo ovale.
Ma dal suo ovale emergeva una bocca ad arco. Un arco di cupido che lanciava frecce non di amore, di desiderio, con due labbra carnose. La oro consistenza? Quelle di un frutto maturo, un frutto da succhiare.
Il nasino alla francesi si chiudeva ai lati dei due occhi. Rotondi. Grandi. Neri.
Nero che cangiava dall’oleoso languido al carbone ardente.
E quello ovale era sormontato da una massa di ricci neri. Mossi. Che sembravano prendere aria. Prendevano aria come una brace, per trasformarla in fuoco.
Lucia sentì gli sguardi scavarle dentro.
Nessuno parlò. Sentì il silenzio denso di inspirazioni forti, guaiti, bramiti.
E vibrazioni di muscoli tesi. Con frequenza alta.
E vibrazioni di cazzi tesi. Con frequenza bassa.
SCENA 8 – IL BRANCO ATTACCA
—Ora siete pronti. Attaccate.
Attaccarono. In cerchio.
Si proiettarono su di lei come se fossero lanciati da un arco teso.
La braccarono come se fosse un animale che sta per essere catturato.
La chiusero in una gabbia di carne e di muscoli.
La fame spinse la loro bocca su di lei a succhiare brandelli di tessuto.
Le labbra. Le guance. Le orecchie. Il mento.
Le mammelle sopra. Le mammelle sui capezzoli. Le mammelle sotto.
La loro saliva era ovunque.
Le loro mani si insinuarono tra le labbra gonfie della figa, sul solco del culo, nell’interno delle cosce.
Poi l’atterrarono.
Lucia sussultò.
Il sessantenne le aprì le gambe con un gesto deciso.
Le sue mani callose, si insinuarono tra le labbra gonfie.
Le dita nodose la separarono con un gesto netto.
La carne si aprì sotto il tocco, la figa tesa e umida.
Poi le dita si insinuarono tra le labbra gonfie, si spinsero dentro senza più esitazioni.
La carne calda si aprì, il clitoride pulsò sotto la pressione, la figa si contrasse attorno alle falangi che la stavano preparando.
Un dito scivolò in profondità, poi un altro. Lucia ansimò, il bacino che si muoveva d’istinto, il corpo che cercava di seguire il ritmo dell’invasione.
I due quarantenni gli sbattevano i cazzi sul viso.
Il ragazzo si sedette su di lei. Senti tutto il suo peso che attraverso il culo peloso si trasferiva sul ventre rendendo più sofferenti le contrazioni dell’invasione di dita.
Poi il ragazzo si piegò in avanti. Di scatto per reagire al dolore dei coglioni incastrati sotto le costole.
E il suo cazzo scivolo tra il solco delle sue tette. Le mani le strinsero e il cazzo si adattò perfettamente a quel solco, dall’atto delle tette fino alla gola.
Strinse le tette più forti e cominciò a scoparle. Ogni colpo si fissava sotto il mento.
Lucia sentì quei colpi ma più di tutte sentì le dita.
Li sentì fermarsi, poi uscire con un risucchio del pube.
Poi rientrarono. Un’invasione più grande. Forse c’era un dito in più.
Li senti fermarsi, poi uscire con un risucchio del pube.
Il suono umido della figa bagnata riempì l’aria mentre le dita lavoravano senza tregua.
Non penetravano, ormai erano dentro fino alle nocche. Spingevano. Frugavano. Rullavano.
Lucia tremava, il suo corpo rispondeva, la carne che si offriva senza più difese.
Un fremito d’aria. L’invasione si fermò. Solo per la durata di un fremito.
Il quarantenne più sfacciato le aprì le gambe.
Le spalancò le cosce, le tenne ferme con le mani sulle ginocchia.
Le dita sfiorarono il centro umido della sua figa, tracciarono il solco bagnato, lo separarono.
Lucia ansimò.
La lingua affondò subito, scivolò dentro come una lama calda, la succhiò senza pietà, la prese intera.
Lucia rabbrividì, il respiro spezzato dall’invasione, il ventre che si piegava sotto le ondate di piacere.
Non era più una carezza.
Si attaccò alla figa, la divorò senza tregua, le labbra della bocca che stringevano quelle della carne umida, il clitoride schiacciato tra le suzioni.
La punta scivolò lungo il solco bagnato, esplorò ogni piega, affondò fino a sentire il battito profondo della figa.
Le mani le tenevano aperte le cosce, la bocca la divorava, ogni leccata un’ondata di calore che le scuoteva il ventre.
Il sessantenne le teneva ferme le braccia.
Non con violenza. Con possesso.
Con la sicurezza di chi sa che quella carne è sua, che non c’è bisogno di costringerla, perché si arrenderà da sola.
Il quarantenne asciutto le piegò il bacino di lato costringendola a serrare le cosce sulla testa del quarantenne spavaldo.
Che spavaldamente continuava a leccare, penetrare con la lingua. Succhiare a labbra serrate le piccole labbra. Non più piccole, non più dentro. Ora completamente esposte. Esplose come i petali di un fiore al sole.
Il quarantenne asciutto accompagnò la lingua del coetaneo con due dita dentro la figa.
Li piego ad arco e tirò fuori un fiotto di umori densi. Li spalmò sul buco del culo.
Il buco del culo si inturgidì, poi si distese. Un dito calloso premeva su di lui. Si distese e cedette.
Lucia sentì il dito entrare nel suo culo. Tutto. Poi arcuarsi e girare introno.
Il canale del culo si rilassò. L’anello cedette e il buco si allargò.
Il dito uscì. Il buco si contrasse. Ma solo per un attimo
Un fiotto di saliva. Un'altra lingua lo leccava.
Un risucchio le strappò un gemito aperto.
Due lingue che la divoravano insieme, senza tregua, senza pietà.
Lucia si inarcò.
Era troppo.
Troppo piacere.
Troppo calore.
Troppo tutto.
E poi il giovane.
Si inginocchiò sopra di lei.
Le lingue sotto di lei la devastavano.
Il sessantenne continuava a tenerla ferma.
Lucia cercò con gli occhi il ragazzo.
Vide il suo sguardo perso, il suo cazzo teso sopra di lei, il tremore nel suo respiro.
Porse la sua bocca offrendola al cazzo.
Ma lui fece una cosa che Lucia non avrebbe mai potuto immaginare.
Cominciò ad accarezzarla. Con dolcezza, come per accompagnarla tra i dolori di quel parto di piacere.
Ora non era più una questione di scelta.
Ora non era più una questione di controllo.
Ora il piacere la possedeva, ma la voglia la spense oltre .
E fu allora che cedette del tutto.
Urlò.
Un grido di piacere che scosse l’aria, che fece fremere il branco.
SCENA 9 – IL GIRO DI GIOSTRA SULLA FIGA
E poi le parole. Questa volta ad alta voce.
— I cazzi.
— I cazzi dentro.
Il branco si fermò al nuovo ordine
Lucia si alzò. Le gambe ancora tremanti per l’orgasmo che le aveva squassato il ventre.
Si passò una mano sul viso, sentì la propria saliva mischiata a quella degli uomini, sentì il sapore del loro desiderio ancora sulle labbra.
Si voltò. Li guardò.
Le mani sulla vecchia asse di legno, il petto che sfiorava la superficie ruvida, la schiena arcuata, il culo esposto.
Si offrì.
Le cosce si aprirono.
La figa si spalancò sotto il loro sguardo.
Si girò appena, lo sguardo basso, la voce un soffio rovente.
— Uno alla volta. Scopatemi.
Il silenzio si dilatò.
Era il silenzio della fame prima del primo morso.
Era il respiro trattenuto prima dello scoppio.
Poi, il primo.
Il sessantenne.
Lui non aveva fretta.
Si avvicinò. E non la prese subito.
Prima la guardò.
Lucia sentì il suo sguardo scavarle addosso, sentì i suoi occhi sul suo sesso esposto, sulle labbra turgide, gonfie, aperte, che pulsavano ancora di desiderio.
Le sue dita scivolarono lungo la fessura, tracciarono il solco umido.
Si inginocchiò.
E con le mani le allargò la figa.
Lucia ansimò. Il suo respiro si spezzò.
La sua figa palpitava contro quelle dita ruvide, esperte, che sapevano come toccare, come dilatare, come preparare.
E poi, il cazzo.
Lo sentì premere contro di lei, sfiorarla appena, farla aspettare.
Il glande caldo, levigato, un cappuccio teso, umido, carico di bramosia.
Lucia sentì la sua pelle liscia, sentì il contrasto tra il calore del cazzo e la propria carne tesa.
Lo senti premere contro la fessura bagnata, scivolò lungo le labbra, le separò in un movimento lento e inevitabile.
E poi il colpo.
Un affondo secco, profondo.
Il cazzo le spalancò la figa, la invase fino in fondo, le dilatò il ventre con una pressione lenta e devastante.
Lucia gemette.
Ma non fu un gemito qualsiasi.
Fu un suono basso, profondo, il rumore esatto di una donna che viene presa esattamente come voleva essere presa.
Il sessantenne la scopava con movimenti lunghi, precisi, il bacino che scivolava contro le sue natiche senza fretta, senza ansia.
Lucia sentì tutto.
Stese, il corpo attraversato da una scossa, il calore che la incendiava dall’interno.
Il cazzo si spinse fino in fondo, il ventre che si allargava per accoglierlo, la carne che si stringeva attorno alla carne
Sentì il cazzo scivolare dentro e fuori, sentì il calore riempirla, sentì la propria carne farsi morbida intorno a quella durezza.
Ogni affondo era più forte, più profondo, la figa che si apriva e si richiudeva, il clitoride che batteva contro la pelle bollente.
Il sessantenne uscì lentamente, lasciandola pulsante, lasciandola ansimante.
E poi, il secondo. Il quarantenne asciutto.
Lucia sentì le sue mani sulle anche, un altro corpo dietro di lei.
Il quarantenne la spinse contro l’asse, la prese con forza, senza dolcezza, senza parole.
Le mani affondarono nelle sue natiche, le separarono, la esposero completamente.
Lucia ansimò più forte.
E poi, il cazzo. Più duro. Più violento.
Non aspettava più. Non voleva attese.
Le labbra della figa si allargarono intorno alla carne che la invase, si adattarono alla nuova pressione, si strinsero intorno al cazzo che le entrava dentro.
Ogni affondo uno schianto di carne contro carne.
Ogni colpo un suono umido, una spinta che la piegava di più.
Arrivò il terzo. Il quarantenne spavaldo.
Entrò con una rincorsa.
La carne non aveva più resistenza.
Già dal secondo colpo il ritmo si fece vorticoso.
Il cazzo sciabordava nel canale della figa.
Si fermò quasi subito. Si trattenne con un guaito. Trattenne la sborra che stava esplodendo nei coglioni.
La figa si rilassò un momento.
Sentì dire “Vai tu”. Il ragazzo le si mise dietro.
Un incertezza prima della sua prima figa.
Poi grugnì, il suo cazzo era il più lungo, il più grosso. Ma ora esplose nelle sue massime dimensioni.
E il suo corpo si mosse più veloce dei suoi pensieri .
E il cazzo entrò. Lentamente decisamente.
La figa dovette adattarsi a quelle nuove dimensioni.
Lucia accompagno l’ingresso con un movimento del bacino che le sembrò lunghissimo.
E poi il ragazzo cominciò a scopare davvero.
Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Ogni colpo più profondo fino a quando il suo bacino incontrò il culo di Lucia e la pancia gli si posò sopra
Venne con un fiotto di umori denso.
Gli occhi di Lucia rotearono all’indietro. Un gemito potente le usci dalla gola.
E fu allora che branco perse il controllo.
I corpi più vicini.
Le mani dappertutto.
Qualcuno le si gettò sopra come se volesse inglobare il suo corpo in quello della donna
Qualcuno le afferrò i capelli, le tirò indietro la testa, la costrinse ad aprire la bocca.
Qualcuno le prese i seni, le strinse i capezzoli tra le dita, li torse, le strappò un gemito misto di dolore e piacere.
Lucia non era più una donna.
Era un animale nel branco.
Era un corpo preso, divorato, adorato.
Il suo corpo lavato da saliva che prese la consistenza degli umori della sua figa.
La figa le pulsava intorno a quei cazzi che la invadevano uno dopo l’altro, alternandosi più velocemente.
Venne ancora. Venne senza preavviso.

SCENA 10 – LA GIOSTRA DEL CULO
Ma non le bastava.
Non era ancora abbastanza.
Sollevò appena la testa, il respiro spezzato, la voce un sussurro rovente.
— Ora il culo.
Gli uomini si guardarono. La frase scosse l’aria, fece fremere il branco.
Lucia voltò la testa appena, gli occhi scuri, la bocca ancora sporca di cazzo, e lo disse più forte.
— Uno alla volta. Inculatemi.
Il branco si mise in fila dietro lei.
Il sessantenne era il primo.
Le allargò le natiche.
Le dita scivolarono sul buco, lo sfiorarono, lo separarono.
Lucia lo sentì contrarsi.
Sentì la pelle tendersi, il confine del suo corpo pronto a cedere.
L’uomo le accarezzò il fianco, come se volesse farle sentire che sarebbe entrato piano.
Ma non fu così.
Il cazzo premette contro il buco serrato, forzò la carne a cedere, ad arrendersi.
Il muscolo si tese in una contrazione feroce, cercò di resistere, ma non poteva.
Le natiche si aprirono sotto le mani che le divaricavano, la punta della carne calda si fece strada, si insinuò fino al primo scatto del muscolo che cercava di respingerlo.
Ma non c’era fuga.
La spinta fu decisa, la carne tesa si dilatò attorno all’intrusione, il cazzo scivolò dentro, spalancandola fino in fondo.
Lucia urlò, il piacere e il dolore si fusero in un’unica scossa che le attraversò il ventre
Il vecchio spingeva. Brutale. Inesorabile.
Le spinte si fecero più decise.
Lucia gemeva. Non sapeva più se era dolore o estasi.
Non lo voleva sapere. Lo voleva e basta.
Il quarantenne asciutto prese il suo posto.
Era più rude.
Non aveva la pazienza dell’anziano.
Il cazzo le affondò dentro con uno scatto, un colpo pieno, senza esitazioni.
Lucia strillò.
Ma non fu un grido di paura.
Fu l’urlo di una donna che si spalanca, che accoglie, che diventa estasi pura.
Mentre i colpi la facevano sobbalzare.
Il cazzò uscì, il colpo di Lucia non sobbalzò più. Ma continuava a fremere.
Senti mani affondare nei suoi capelli. Le tirarono dietro la testa.
Erano le mani del quarantenne spavaldo.
Entrò sicuro come una folata di vento che capovolge un ombrello.
L’ombrello non serviva, non poteva più ripararsi da quei colpi decisi.
Ansimò forte al ritmo di quei colpi, come se l’aria uscita dalla gola provenisse dal culo.
Un cazzo le sfiorò la bocca.
Lucia lo prese dentro senza pensarci.
Un cazzo nel culo.
Uno in bocca.
Un ritmo che la faceva impazzire.
E poi il giovane.
Era l’ultimo, il più inesperto.
Lucia sentì il suo cazzo tremare mentre si posizionava dietro di lei.
Il suo buco era gonfio, spalancato, pronto a prenderlo.
Il ragazzo si fermò un secondo di troppo.
Lucia lo guardò sopra la spalla.
— Scopami.
— Fallo.
— Voglio tutto.
La punta calda premette contro il buco serrato, scivolò avanti e indietro, giocando con il confine tra resistenza e resa.
Poi, senza più esitazioni, spinse.
Il muscolo cedette, si aprì lentamente, la carne che si adattava alla pressione, il dolore che si confondeva con l’estasi.
Ogni centimetro che entrava era una nuova conquista, un’espansione del piacere che le saliva dalla schiena fino alla gola.
E lui affondò.
Lucia era spalancata.
Il suo culo pulsava ancora per l’ultimo colpo.
Il ragazzo uscì. Il troppo piacere gli impediva di continuare.
Uscì con un grido prolungato che gli veniva dalla gola.
Tutto il branco si fermò su quel suono acuto.
Lucia era lì, nuda, spalancata, il corpo un’offerta di carne calda e battiti frenetici.
La figa pulsava tra le cosce aperte, il buco del culo era ancora segnato dalle penetrazioni, la bocca ancora gonfia di saliva e desiderio.
Non c’era più niente da trattenere, niente da controllare.
Il branco non la guardava più come una donna. La guardava come una promessa di piacere senza fine.
Lucia tremò, il respiro spezzato dall’attesa.
SCENA 11 – LA GIOSTRA SOSPESA
Ma non voleva attendere
— Prendetemi, ancora.
Le mani la strapparono dall’asse, la sollevarono di peso.
La portarono in uno spiazzo
Lucia sentì l’aria girarle intorno, sentì i corpi che si stringevano sotto di lei.
Uno la volto a testa in giù: bocca.
Uno la avvinghiò al suo petto, lei strinse le gambe: fica
Due la reggevano per la schiena, il terzo le aprì le gambe. I due la facevano ondeggiare, il terzo spingeva: fica.
Uno la prese per i fianchi. Come un cocomero. Uno le porto le gambe in avanti. Il terzo dietro: culo.
Uno le cingeva il ventre, uno le cingeva le gambe. Lei piegata di lato. Uno davanti al suo viso. Uno le spingeva la testa: bocca
Uno la fece inarcare, la schiena di Lucia contro il suo petto. Due, uno per lato, le alzarono le gambe. Il quarto davanti: culo.
E le mani libere? Stringevano, frugavano dilatavano.
E i cazzi liberi? Gli venivano sbattuti sul corpo libero. Gli venivano premuti sul corpo libero come per creare nuovi buchi.
E intanto la giostra girava.
Se la passavano e la rigiravano come una palla.
Come una palla impazzita si ritrovò a essere sbattuta da una sponda all’altra.
E le sponde erano mani, corpi, cazzi.
Lucia non sapeva più dove fosse, solo che ogni centimetro del suo corpo era attraversato da una pressione continua.
Ora non c’era più tempo per chiedere.
Ora era solo carne che doveva essere riempita.
E Lucia lo voleva.
Lo voleva come non aveva mai voluto nulla prima.
Le mani la piegavano, la sollevavano, la giravano.
Lucia non sapeva più dove fosse, chi la stesse prendendo, quale parte del suo corpo stesse godendo di più.
Era fuori da sé. Era oltre.
E fu allora, nell’istante esatto in cui l’ultimo confine si spezzò, che accadde.
Lucia si sentì sciogliere. Il piacere esplose.
Per l’assenza di gravità in quella giostra, il piacere si espanse il tutto il corpo.
Il suo corpo si tese, si arcuò, tremò.
La sua bocca si spalancò su un gemito strozzato.
E poi urlò, un suono senza più umanità, un rantolo animale che si sciolse nel buio del cantiere.
E continuò a venire
Un’esplosione sorda che le risalì dalle cosce fino alla gola, un urlo spezzato che le tremò nelle viscere.
Il piacere la frantumò, la consumò, la lasciò senza più difese, senza più confini.
La appoggiarono a terra, esausta.
SCENA 12 – LA DOPPIA PENETRAZIONE
Ora Lucia era persa.
E non sapeva più se volesse ritrovarsi.
Lucia non si rialzò.
Non poteva.
Ma la panca era il suo trono.
Disse loro con un soffio di voce che nulla toglieva alla sua autorità.
— Portatemi sulla panca.
La portarono lì.
L’appoggiarono delicatamente.
Non si aspettarono di rivedere i carboni ardenti nel nero dei suoi occhi.
Aggrappò le mani al legno ruvido, allargò le gambe, inarcò il bacino. Come per offrire contemporaneamente la figa e il culo.
La voce recuperò un tono più deciso.
— Due cazzi. Contemporaneamente
Il quarantenne asciutto era dietro di lei.
Il cazzo bagnato, già duro, già pronto.
Lucia sentì la punta scivolare tra le sue labbra gonfie, sentì la pressione contro il centro del piacere.
Sentì che il suo corpo lo voleva ancora sentì il suo corpo che lo voleva.
La figa si spalancò d’impulso intorno al cazzo, le labbra che scivolavano bagnate lungo la carne bollente.
E poi l’altro.
Il sessantenne. Non rimase in attesa.
Salì sulla panca. Si inginocchiò sopra di lei.
Le mani le presero le spalle, la tennero ferma.
E il suo cazzo trovò la seconda porta.
Il buco del culo.
Dietro, l’altro affondo fu ancora più violento, il cazzo nel culo che si scontrò con quello nella figa attraverso la sottile parete interna.
Lucia sentì il doppio assalto, il corpo che non le apparteneva più, il piacere che si trasformava in una pressione che le risaliva le viscere.
Non era più una donna. Era solo carne che veniva posseduta senza più tregua.
Lucia sentì entrambi.
Davanti. Dietro.
Un corpo che la riempiva, un altro che la invadeva.
E loro non si fermarono.
Le due invasioni si incontrarono dentro di lei, il doppio impatto la attraversò come una scossa elettrica.
Non c’era più confine tra piacere e dolore, tra resistenza e resa.
Lucia era solo carne che vibrava, che si tendeva, che si lasciava divorare.
Ogni colpo era più profondo, ogni spinta più brutale.
La figa che si stringeva intorno alla carne calda, il culo che si apriva per accogliere tutto.
Lucia gemeva, non sapeva più dove fosse, solo che il suo corpo non le apparteneva più
Gli altri due fremevano nell’attesa.
Giunse a loro lavorare nel cantiere
Il cazzo del ragazzo si piantò nella figa con un colpo pieno, la carne che si aprì attorno a lui, le labbra che lo risucchiarono bagnate, pulsanti. Lucia sentì il ventre strapparsi in un’ondata di calore, il cazzo che scivolava dentro fino al fondo.
Dietro, un’altra punta bollente premette contro il suo buco del culo. Le natiche si contrassero d’istinto, il muscolo teso, un fremito di resistenza prima dell’inevitabile. Ma lui non si fermò. Spinse.
La pelle si tese, il buco si dilatò, la carne si fece morbida attorno alla pressione brutale del cazzo che forzava l’ingresso.
Lucia strillò, il corpo scosso da un’onda di piacere tagliente, il battito del clitoride esploso come un lampo.”
Era delirio.
Era troppo.
Era esattamente ciò che voleva.
E mentre il suo corpo si dilatava per contenerli entrambi, mentre il ritmo diventava violento, mentre il legno sotto di lei tremava per l’impatto delle spinte, gli altri due non restarono fermi.
Il quarantenne asciutto si mise davanti a lei.
Le afferrò il viso, glielo alzò e la costrinse a guardarlo.
Lucia vide il suo cazzo, gonfio, pulsante, tremante.
Lui non sapeva più come resistere.
Lucia lo capì.
E aprì la bocca. Lo prese dentro.
Lo ingoiò mentre gli altri due la distruggevano da dietro.
E il sessantenne?
Lucia aveva sentito le sue mani ovunque.
Le tette. Il collo. Il ventre.
Ma mentre il ritmo diventava disumano, mentre il doppio affondo la sbranava dentro, mentre il terzo cazzo le scivolava in gola, lo sentì sopra di lei.
Si sedette a cavalcioni sulla schiena cosicché il quarantenne spavaldo si appoggiò a lui per spingere più forte.
La prese per le spalle, le tirò indietro per chiudere le scapole su sé stesse e la scopò li in mezzo.
Lucia si perse completamente. Loro la persero.
Ora non c’era più lei. Ora c’era solo il corpo.
Solo il piacere.
Solo il branco che la divorava. Solo un animale in estasi.
E finalmente, fu lì che lo trovò.
Il piacere che aveva sempre cercato.
Quello che la annullava.
Quello che la faceva sentire niente.
Quello che la faceva sentire tutto.
Lucia era dentro la giostra.
Non c’era più un prima e un dopo.
Non c’era più un uomo e un altro.
C’erano solo corpi. Solo cazzi. Solo carne che entrava e usciva, senza fine, senza respiro, senza tregua.
La figa, il culo, la bocca. Tutto era aperto.
Ma non solo. Tutto era preso.
Ma lo voleva. Lo voleva più forte.
Più profondo. Più estremo.
E la giostra accelerò.
Ogni spinta più violenta. Ogni affondo più crudo.
Le mani la schiacciavano.
I cazzi dilatavano.
Lucia non respirava più, gemeva ininterrottamente, un suono rotto, un suono perso.
Era oltre il limite.
E poi la giostra si fermò.
SCENA 13 LA SBORRATA
La lasciarono cadere sulla panca.
Le gambe aperte. Il petto ancora tremante.
Le mani ruvide su di lei. Uno le allargò la figa con due dita. La espose completamente.
Lucia sentì l’aria fredda sul sesso ancora gonfio, ancora umido, ancora segnato da tutti loro.
L’altro le divaricò le natiche, mostrò il buco del culo, teso, ancora dilatato, ancora segnato dalle spinte.
E loro guardarono. Amavano ciò che vedevano.
Il branco ammirava il proprio capolavoro.
E poi le mani si staccarono.
Lucia scivolò a terra.
I cazzi erano ancora lì.
Gonfi. Pulsanti.
Pronti a segnare il suo corpo per sempre.
La misero in ginocchio
E allora benedissero la femmina.
Sborrarono su di lei.
Uno dopo l’altro.
Uno le colpì la fronte, scivolò lungo il naso, si fermò sulle labbra.
Il secondo la colpì sulle tette. Un fiotto denso, caldo, che scivolò giù fino al ventre.
Un altro le sporcò il collo, un filo bianco che le solcò la pelle, che si mescolò al sudore.
L’ultimo le venne sul viso, un colpo pieno, un fiotto che le inondò le guance, che si infilò tra le ciglia, che le colò sulle labbra socchiuse.
E Lucia leccò.
Assaporò. Ingoiò.
E sorrise.
Era svuotata.
Era annientata.
Ed era felice.
Lucia sentì il respiro calmo nel petto.
Ogni parte del suo corpo era segnata.
La pelle intrisa di sborra, di polvere, di odore di uomini e di piacere.
Le gambe ancora tremanti.
Il ventre teso da tutto ciò che l’aveva attraversata.
Ma ora il peso non era più su di lei.
Era su di loro.
Il branco era fermo.
La guardavano senza sapere più cosa fare.
Non erano più predatori.
Ora erano uomini svuotati.
Non perché fossero esausti.
Ma perché Lucia aveva preso tutto quello che potevano darle.
Ora lei era oltre.
E loro? Loro erano rimasti indietro.
SCENA 14 – LA MARCHIATURA
Lucia si alzò.
Lo fece lentamente.
E si pose davanti a loro.
Disse
— Marchiatemi, col cemento che impastate tutti i giorni.
Non bastava averla scopata, non basta averla svuotata.
Ora dovevano lasciarle addosso un segno indelebile, qualcosa che le ricorderà per sempre di essere stata loro.
Lucia sentì le mani che la sollevavano.
Le dita le affondavano nelle braccia, nei fianchi, nelle cosce.
Uno la prese per le spalle.
Un altro la sollevò dalle gambe.
La trasportavano.
Lucia non sapeva dove. Non lo chiese.
Si lasciò portare. Si lasciò offrire.
E poi, la montagnetta di cemento.
Grigia, aspra, sporca.
Polvere che si sollevava sotto i loro passi, che si attaccava alla pelle sudata.
E loro la posarono lì.
Nuda. Segnata. Ancora fradicia di loro.
Lucia sentì la polvere fredda attaccarsi alla sua pelle bollente, la sborra che si mescolava al grigio del cemento, incollandosi come una seconda pelle.
Le mani di uno di loro la spinsero contro la polvere.
Il seno aderì alla superficie ruvida. I capezzoli si immersero lasciandovi un segno umido. Il suo ventre si striava di bianco e grigio,
Le cosce ancora aperte, le labbra gonfie della figa che si posavano su quella polvere densa, come se volessero assorbirla, come se la carne volesse trattenere l’ultimo residuo della notte.
La rigirarono e poi la alzarono.
Uno la prese per il collo, gli piego il capo. Disse.
— Guardati.
Lucia abbassò gli occhi.
Vide il proprio corpo.
Vide il bianco della sborra mescolarsi alla polvere, attaccarsi alla sua pelle come un sigillo definitivo.
Vide il grigio del cemento sulle sue cosce, sul suo ventre, sui seni, sulle braccia.
Vide il cemento maggiormente addensato nel pelo folto della sua figa, con una consistenza quasi marmorea
E allora lo capì.
Quello era il marchio.
Gli uomini lo guardavano quasi con timore riverenziale.
E allora lo capì.
Non sarebbe mai più tornata la stessa.
Lucia si ergeva dalla montagnetta di cemento.
Il respiro lento.
La pelle segnata.
Il corpo coperto di polvere, sborra, sudore.
Ma non si sentiva sporca.
Si sentiva completa.
Come se tutto ciò che avesse cercato fosse sempre stato lì, in quella polvere grigia mescolata al bianco che le colava lungo il ventre, tra le cosce, sulle braccia.
I suoi occhi rimasero socchiusi.
Le sue labbra si schiusero appena, come se stesse ancora gustando il piacere che l’aveva attraversata.
Il branco era fermo.
Non erano più predatori.
Ora erano uomini svuotati.
Non perché fossero esausti.
Ma perché Lucia aveva preso tutto quello che potevano darle.
Ora lei era oltre.
E il branco lo capì. Il branco la guardò.
Non come un oggetto.
Non come una preda.
Ma come qualcosa di sacro.
Come se solo ora avessero capito davvero cosa avevano fatto.
Non l’avevano distrutta.
L’avevano portata esattamente dove voleva arrivare.
Lucia aprì gli occhi.
Li guardò.
E sorrise.
Lucia sentì il respiro calmo nel petto.
Ogni parte del suo corpo era segnata.
La pelle intrisa di sborra, di polvere, di odore di uomini e di piacere.
Le gambe ancora tremanti.
Il ventre teso da tutto ciò che l’aveva attraversata.
Ma ora il peso non era più su di lei.
Era su di loro.
Il sessantenne si avvicinò.
Lucia sentì il calore del suo corpo sopra di lei, ma questa volta non per prenderla.
Per offrirle qualcosa.
— Vuoi che ti puliamo?
La voce non era arrogante, non era sporca.
Era sincera.
Lucia avanzò.
Lo fece lentamente.
Il cemento scivolò via dalla sua pelle, ma rimase attaccato nei punti in cui la sborra si era già seccata.
Ogni movimento era un segno.
Ogni passo era un’affermazione.
Lucia sfilò davanti a loro.
I corpi degli uomini immobili, ancora tesi, ancora incapaci di distogliere lo sguardo.
Lei passò tra loro.
Le cosce che sfioravano le loro gambe.
Le dita che sfioravano un petto, un fianco, un ventre ancora caldo.
Ma nessuno osò toccarla. Non più.
E poi parlò.
La voce era bassa, sensuale, ironica, feroce.
— Come pensate di pulirmi ora?
Silenzio.
Respiri sospesi.
Il branco non aveva più risposte.
Gli uomini che l’avevano consumata, che l’avevano presa in ogni modo possibile, ora sembravano spenti.
Lei li aveva prosciugati.
SCENA 15 – L’ULTIMO GIRO DI GIOSTRA
Lucia si lasciò scivolare un passo avanti, sciolse le spalle, inclinò la testa, lasciò che la luce della sera scivolasse sulla sua pelle ancora segnata dalla polvere e dalla sborra.
Li fissò, un sorriso lento sulle labbra. Si passò una mano tra i seni, fece scivolare l’ultima traccia di sborra lungo il ventre, poi si leccò le dita con una lentezza crudele
— È tutto qui?
— Avete già perso tutto il vostro vigore?
— Pulitemi bene.
— Fatemi fare un ultimo giro di giostra.
Il silenzio durò un istante.
Poi, il quarantenne asciutto si alzò per primo.
Gli occhi ancora carichi, il corpo ancora teso.
Non era ancora finita.
Dietro di lui, il sessantenne si stirò le spalle, un sorriso leggero sul viso vissuto.
— Una donna che sa cosa vuole. Mi piace.
Il giovane non si fece pregare. Aveva imparato. Ora sapeva che certe occasioni non si sprecano.
Si alzò con lo sguardo che già ardeva.
L’ultimo a muoversi fu il quarantenne sfacciato. Si passò una mano sulla nuca, sospirò, poi rise piano.
— Cazzo, sì.
Lucia li guardò, si mordicchiò il labbro.
Li voleva ancora addosso.
E loro ora lo sapevano.
Le mani la raggiunsero di nuovo.
Ma questa volta non la presero per piegarla, per possederla.
La guidarono.
La portarono verso l’ultima tappa.
Le mani la portarono oltre la polvere, oltre il cemento, oltre il luogo del loro piacere.
La doccia da cantiere.
Uno spazio angusto, un tubo grezzo, un getto d’acqua fredda che sapeva di ferro e pietra.
Lucia sentì la tensione nell’aria.
Il branco non aveva ancora finito con lei.
E lei lo voleva.
Voleva l’ultimo contatto.
Il quarantenne asciutto fu il primo ad aprire l’acqua.
Il getto le colpì la pelle con un brivido netto, il freddo che le scivolò sulle spalle, sul ventre, sulle cosce ancora segnate.
Lucia inspirò forte.
Si passò una mano tra i capelli, sentì il cemento sciogliersi, la sborra colare via.
Ma non bastava.
Non voleva solo essere lavata.
Li guardò, gli occhi brillanti di sfida.
— Ho detto un ultimo giro di giostra.
I quattro si scambiarono uno sguardo.
Era il suo addio.
Dovevano darle quello che voleva.
Tre la sollevarono.
Il sessantenne le afferrò le braccia da dietro, la tenne sospesa.
Il giovane le sollevò le gambe, le ginocchia aperte, la figa esposta al fiotto d’acqua.
Il quarantenne sfacciato le accarezzò l’interno coscia, sentì il battito sotto la pelle.
E poi, l’acqua.

Il getto la colpì in pieno pube, le labbra della figa si aprirono sotto la pressione dell’acqua, la scia gelida che le invadeva la carne ancora bruciante.
Lucia trasalì, il clitoride reagì come morso, il freddo e il caldo si scontrarono dentro di lei.
L’acqua che la invadeva, che le inondava il ventre come un ultimo amplesso.
Uno le aprì le labbra con le dita.
La figa pulsò.
L’acqua scivolò ancora più a fondo.
Lucia rabbrividì, si piegò, lasciò che il fiotto la possedesse un’ultima volta.
Poi, dietro.
Il quarantenne asciutto le divaricò le natiche.
L’acqua scese lungo la schiena, si infilò tra i glutei, colpì il buco del culo ancora teso, ancora segnato dai loro corpi.
Lo spalancò con un’ondata liquida.
Il getto d’acqua scivolò nel buco del culo, si insinuò come un’ultima invasione liquida.
Lucia ansimò, il suo corpo abbandonato al piacere, alle ultime scosse che le vibravano ancora tra le gambe
E quando il getto si fermò, lei restò sospesa, con il respiro ancora incagliato nel petto.
Le mani la abbassarono lentamente.
I palmi scivolarono sulla sua pelle bagnata.
Non la sfregavano per pulirla.
La sfregavano per sentirla un’ultima volta.
Le palme sulle sue cosce.
Le dita che accarezzavano i seni.
Gli occhi che la divoravano senza più pretenderla.
Presero degli asciugamani. Sporchi ma asciutti e sfregarono quel corpo per un’ultima volta.
Lucia si sentì avvolta da quell’ultimo tocco, come un addio che scorreva sulla sua pelle.
E poi, il silenzio.
Il branco si sedette, esausto.
E lei, senza fretta, raccolse i suoi vestiti.
Si rivestì senza nascondersi.
Senza fretta. Senza pudore.
E quando fu pronta, li guardò uno per uno.
Si avvicinò.
E con ognuno scambiò un’ultima stretta di mano.
E un bacio sulla guancia.
Non più preda.
Non più trofeo.
Ma una donna che aveva davvero avuto tutto.
Lucia aveva fatto il suo ultimo passo.
SCENA 16 – L’ULTIMO REGALO
Era pronta ad andarsene.
Ma poi sentì un respiro spezzato dietro di sé.
Si girò.
E vide il ragazzo.
Non aveva più il fuoco di prima.
Ora gli occhi erano umidi, gonfi, lucidi.
E poi, le lacrime.
Lacrime vere.
Lui si mise in ginocchio, come se la stesse adorando.
— Non andare.
— Sei la mia regina.
— Ti prego.
Lucia non si mosse subito.
Lo guardò.
Vide la sua resa totale.
Vide il desiderio che ancora lo attraversava.
E poi vide il suo cazzo.
Ancora gonfio. Ancora duro.
Ancora carico di tutto ciò che non aveva ancora dato.
Lucia fece un passo verso di lui.
Allungò una mano.
Gli sfiorò la guancia.
Poi parlò.
— Ora sei un uomo.
— Devi seguire la tua strada.
— E sai che puoi farlo.
Lui tremava.
Ma Lucia non aveva ancora finito.
— Ti faccio un ultimo regalo.
Si voltò verso gli altri tre.
— Portatemi una boccetta.
Nessuno chiese perché.
Non ce n’era bisogno.
Uno di loro sparì per un istante.
Tornò con boccetta di vetro trasparente , un oggetto insignificante tra le loro mani ruvide.
Lucia la prese.
Lo poggiò a terra, accanto a loro.
Poi si inginocchiò.
Gli prese il cazzo tra le dita.
Era caldo. Teso. Gonfio.
La pelle tesa, liscia, pulsante.
Il glande scuro, lucido, pronto a esplodere.
Lucia passò la lingua lungo la punta, tracciò il solco con la punta, sentì il suo corpo fremere sotto di lei.
Lo prese con la lingua, lo accolse con le labbra, lo fece scomparire nella sua bocca come se stesse suggellando un patto.
Lucia si muoveva lenta.
La lingua avvolgeva il cazzo, le guance si stringevano, la saliva colava lungo l’asta.
E poi, lo sentì gonfiarsi ancora di più.
Le guance si scavarono nel risucchio, la saliva colò lungo l’asta, il calore della sua gola lo avvolse completamente.
Sentì il battito del sangue dentro di lui, il tremore delle gambe, la tensione che cresceva fino al punto di rottura.
Le sue labbra si serrarono attorno alla base, le mani scesero sulle sue palle, le strinsero nel palmo e poi le pomparono con le dita.
Sentì il battito del sangue dentro di lui, il tremore delle gambe, la tensione che cresceva fino al punto di rottura.
E proprio quando sentì il cazzo pulsare al massimo, lo tirò fuori.
Il glande lucido di saliva.
Puntò sul bicchiere quel cazzo gonfio come se fosse stretto in una camicia di cuoio.
La camicia di cuoio si strappò. Venne
Un fiotto pieno, un colpo di seme che colpì il fondo trasparente con un suono sordo, definitivo.”
Il ragazzo singhiozzò.
Un secondo colpo, poi un altro ancora.
Il liquido riempì il bicchiere, scivolò lungo le pareti trasparenti.
Lucia lo guardò.
Poi lo chiuse.
E lo infilò nella borsa.
Si alzò.
E senza dire nulla, si voltò.
Si avvicinò al cancello.
I tre uomini la precedettero.
Le aprirono il varco.
Le cedettero il passo.
Lucia li superò con un ultimo sguardo, il mento alto, il respiro lento, il corpo ancora segnato dalla notte.
Attraversò il cancello.
Si fermò.
Si girò.
E vide.
I tre uomini che la salutavano con un cenno.
E dietro di loro, sullo sfondo, il ragazzo.
Ancora in ginocchio.
Ancora con le lacrime che gli scendevano sul viso.
SCENA 17 – LUCIA A LETTO
Lucia spalancò la porta della sua stanza.
Era tardi.
O forse era presto.
Non lo sapeva. Non importava.

Il corpo portava ancora i segni del cemento, delle mani, delle bocche, dei cazzi che l’avevano posseduta.
Ma ora non era più stanca.
Si spogliò lentamente, senza urgenza.
Lasciò che i vestiti scivolassero sul pavimento, uno dopo l’altro.
E poi, il bicchiere.
Lo prese.
Lo aprì.
L’odore la colpì subito.
Caldo. Metallico. Ancora vivo.
Lucia passò un dito dentro.
Ne prese una goccia.
La portò alle labbra.
La spalmò sulla pelle.
Sul collo. Sul seno. Sulle cosce.
Le dita si muovevano lente, stendevano la sostanza bianca come una crema salvifica
E poi sulla bocca.
Si passò la lingua sulle labbra, raccolse l’ultima goccia, chiuse gli occhi.
Si sdraiò.
Nuda.
Senza più il bisogno di coprirsi.
Senza più paura.
E si addormentò subito.
Profondamente.
Senza sogni.
La giornata era iniziata con un caffè.
Era finita con un sigillo.
Un tempo era stata vittima.
Un tempo aveva subito.
Ora aveva scelto.
Ora sapeva che esistevano due strade.
L’abisso.
E l’ascesa.
E lei?
Lei avrebbe camminato su entrambe.
Perché solo chi conosce la vertigine dell’inferno può toccare il cielo con le dita.
Lucia dormiva. Il respiro lento. Profondo.
Il corpo nudo, disteso, rilassato.
Sulla pelle era rimasta una traccia.
Una goccia bianca.
Piccola, trasparente sotto la luce fievole della stanza.
Ferma, immobile per un istante.
Poi, iniziò a muoversi.
Lucida, vischiosa, viva.
Scivolò piano lungo la curva del seno.
Si fermò un attimo sul ventre, tremolante, come se dovesse scegliere la sua direzione.
Poi continuò la sua discesa.
Oltre il pube.
Oltre le labbra gonfie della figa, che ancora portavano il battito della notte.
Ma non si fermò lì.
Scivolò oltre.
Un battito lento, una traccia viva che cercava la sua meta.
La goccia seguì la curva delle natiche, si fermò appena sul solco caldo del suo culo, poi si posò sulla Seconda Porta.
Una goccia bianca.
Un sigillo.
Una promessa che il destino aveva già scritto.
Lucia non si mosse.
Non se ne accorse.
Ma il destino sapeva la sua strada.
E la notte l’aveva segnata nel punto esatto dove il suo viaggio sarebbe ripreso.
Dove l’abisso l’avrebbe chiamata ancora.
[a.marcellocallisto@gmail.com]
scritto il
2025-05-20
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