La metamorifiga di Fabiana I – Il glory hole

di
genere
etero

Trentacinque anni. Vita normale, qualche fidanzato normale. E poi, un marito normale, un divorzio normale. E poi qualche scopata normale, cazzi normali. Troppo normale. Troppo poco. Non le bastava più.
E stasera ha messo i vestiti come una dichiarazione non detta. Niente esagerazioni. Solo precisione erotica. Cammina con passo sicuro ma controllato, come chi vuole sembrare distratta, ma ha già scelto tutto da ore. Indossa un trench beige, allacciato solo in vita, che le fascia i fianchi e apre leggermente sotto. Sotto si intravede un vestito nero a tubino, aderente, liscio come la sua pelle appena depilata. Ai piedi, décolleté semplici, tacco basso.
Non ha voluto sembrare una puttana. Ma non vuole nemmeno passare inosservata. La borsa è piccola, nera, rigida. Le mani la tengono con forza, le nocche bianche appena. Dentro, una chiave. Chiusa in una busta, arrivata per posta. Senza mittente. Solo una scritta: “Camera 3. Sabato. Dopo le 20. ”
L’aveva trovata sul sito. Un annuncio secco, crudo, spietatamente eccitante. “Glory Hole per donne discrete. Solo chi vuole davvero. ”Aveva risposto. Con una mail breve. Non col suo vero nome. Si era firmata Fabiana. Perché? Faceva rima con puttana.
Poi l’attesa. Poi la busta. E adesso… eccola lì. La strada è periferica. Zona industriale, quasi deserta. Capannoni dismessi, insegne sbiadite, odore di ferro e umido. L’edificio è basso, con un’insegna rotta sopra la porta: un vecchio centro benessere fallito. Lei si avvicina. Guarda intorno. Nessuno. Perfetto.
Tira fuori la chiave. La tiene tra le dita come una promessa. Il volto è calmo, ma negli occhi c’è uno sfarfallio. Non è paura. È il bordo del precipizio. Le labbra sono truccate di rosso opaco. La bocca chiusa, ma viva, come se si stesse ancora domandando quale forma avrà il primo cazzo che si troverà davanti. Le mani tremano appena mentre infila la chiave nella serratura. Non lo ammetterà mai. Ma sta già bagnando le mutande.
Poi si ferma. Un istante. Respira. Chiude gli occhi. E gira la chiave. La porta si chiuse alle sue spalle con un clic secco. Non sbatté. Si chiuse come un sigillo. Un confine oltre il quale niente sarebbe stato più come prima. La stanza era piccola. Poco più di tre metri per lato. Un cubo di cemento e luce stanca. Dal soffitto, una lampada pendeva come un occhio basso, giallastro, stanco di vedere ma costretto ad assistere.
Le pareti erano lisce, grigie, ma una — quella dei buchi — sembrava più chiara, come se lì, solo lì, qualcuno passasse spesso a pulire la storia. E poi i fori, bordati di gomma nera. Ognuno a una diversa altezza. Uno — il più centrale — parlava di erezione. Gli altri, di possibilità.
Lei entrò in silenzio. Restò ferma. Le mani strette sulla borsa, come se dentro ci fosse l’ultima parte di sé rimasta intatta. Osservò la stanza come si guarda un luogo sacro e porco insieme. Il pavimento. Il soffitto. Il ferro arrugginito dell’appendiabiti.
E poi l’odore. Non sporco. Era pulito, forse avevano utilizzato mastro lindo. Chissà perché questo pensiero la percorse. Quel pelato calvo, con l’orecchino stimolava la sua fantasia. L’aveva stimolata tante volte nelle noiose pulizie casalinghe. E così pulito che ti ci vedi.
E lei si era vista. Forse allora per la prima volta aveva visto Fabiana e sentito l’odore che sentiva ora: vivo,un misto di disinfettante e memoria sessuale.
Posò la borsa a terra. Senza fretta. Poi si sciolse il trench con un gesto che aveva qualcosa di teatrale e intimo insieme. Lo appese. E si guardò attorno. Non per difendersi. Per prendere le misure al vuoto.
Sollevò l’orlo del vestito con lentezza. Lo passò oltre la testa, come se stesse scoprendo la pelle a un amante immaginario. Sotto, niente. Solo lei. La pelle nuda. I seni pieni, liberi, con capezzoli già tesi come sentinelle. Restavano solo le mutande. Nere. A vita alta. Un tessuto leggero che non copriva: descriveva. Disegnava il pube rasato, la curva piena del monte di Venere, la piega netta tra le grandi labbra, come una strada sul sentiero del desiderio. Il corpo era reale. Non perfetto. Ma potente. Le cosce spesse, tonde, calde come la fatica di una corsa nel desiderio. Il ventre piatto, ma vivo, come se sotto la pelle ci fosse una marea che non si può più fermare.
Si abbracciò. Solo per un attimo. Un gesto istintivo, fragile, come se volesse contenersi. Ma il respiro ormai era profondo. E il cuore… non batteva per paura. Batteva per possibilità. Cinque minuti. Dieci. Quindici. Nessun suono. Nessuna voce. Solo lei e i buchi. Si avvicinò. Li guardò. Li sfiorò. Li annusò. Il bordo in gomma era liscio. Reale. Fatto per essere attraversato. Si accovacciò. Le ginocchia aperte. La schiena contro la parete fredda. Lo sguardo fisso davanti. Non cercava. Attendeva.
E intanto… il tessuto delle mutande era una seconda pelle intrisa. Le grandi labbra spingevano contro il cotone, come se volessero uscire prima di lei. Lei non sapeva se sarebbe arrivato qualcuno. Da quale buco. Con quale carne. Ma una cosa era certa. Il suo corpo aveva già cominciato da solo. E non avrebbe smesso.
Il cazzo spunta dal buco senza un suono. Un attimo prima c’era solo muro. Adesso c’è lui. Lei lo vede. Si immobilizza. Il cuore salta un battito. Il respiro si blocca, poi riparte — più profondo, più basso, più bagnato. È grosso. Più grosso di quanto si aspettasse. La pelle è tesa, chiara, con le vene in rilievo. La cappella è rotonda, lucida, già umida di sé stesso. Sta lì, a mezz’aria, immobile. Ma vivo. Leggermente pulsante.
Le sue labbra si dischiudono. Non per parlare. Per inspirare più a fondo l’odore che arriva da quella carne. Maschio. Caldo. Ignoto. Il cazzo è reale. E sta lì per lei. Ma non si muove. Non la cerca. Non la chiama. È lei che deve decidere. Le mani le tremano. Le dita si stringono sulle ginocchia nude. Le mutande le si sono incollate alla figa. Ogni battito la bagna di più.
Eppure non si muove. Lo guarda come si guarda un’arma. O un mistero. “Chi sei?” pensa. “Chi stai diventando dentro questo buco, per me?”Il cazzo non risponde. Non può. Ma le parla lo stesso. Le dice che può prenderlo. Che può sentirne il peso nelle mani. Che può aprire la bocca e farsi riempire. Le dice che può non sapere niente. Che può non preoccuparsi di chi c’è dietro. Che può solo sentire.
“Sto per farlo?” si chiede. E la risposta le batte tra le gambe, le pulsa sulle labbra, le scivola lungo la gola anche se non ha ancora aperto bocca. Sta lì. Ancora. Ma sta per cedere. Sto per farlo. Lo pensa. Ma quando lo pensa, è già in ginocchio. Come se il corpo sapesse prima della mente. Come se la figa avesse già deciso. Le ginocchia nude contro il pavimento. Freddo. Ruvido. Un contatto reale, che fa salire il calore dalla pelle fino al ventre.
Davanti a lei, il cazzo. Immobile. Teso. Come un animale in attesa. Come una promessa che si regge da sola. Lo guarda. Da vicino. Con gli occhi larghi come se stesse osservando un totem pagano. La cappella è rotonda, gonfia, color vino, con una goccia chiara che brilla in cima, un respiro trattenuto in forma liquida. La pelle è liscia, ma incisa da vene in rilievo, come radici vive sotto la superficie. L’asta curva lievemente verso l’alto. Forte. Solida. Un cazzo che non chiede: si impone.
Lei non lo prende subito. Avvicina il viso. Inspira. L’odore è ferroso. Maschio. Un profumo di pelle scaldata dall’attesa. Le entra dritto nella testa. Ma la figa lo sente prima. Chiude gli occhi. La guancia sfiora l’asta. È calda. Pulsante. La pelle di lei brucia. Di desiderio. Poi lo passa lentamente sul viso. Come un’unzione oscena. La cappella le tocca la fronte, scivola lungo la curva del naso, le sfiora la bocca. Lascia un filo di umidità, che lei non cancella.
Se lo tiene addosso. Come un segno. Apre la bocca. Solo un poco. Le labbra si dischiudono, la punta entra. È calda dentro. È accoglienza, non fame. Lo trattiene lì. Lo succhia piano. Senza muovere la testa. Solo per sentirlo abitare dentro.
Poi lo lascia uscire. Un suono morbido. Una scia di saliva che resta tesa tra la bocca e il cazzo. Un filo che non vuole spezzarsi. La lingua lo rincorre. Lo lecca dalla base alla punta. Una, due, tre volte. Lento. Quasi in adorazione.
Finalmente lo prende. Lo afferra con una mano. Le dita non si chiudono. È grosso. È pieno. Il palmo sente il calore, la vita. Ogni pulsazione è un sì che le scivola nelle vene. Lo guida in bocca. Questa volta davvero. Lo accoglie. Profondo. Con la lingua sotto. Con le labbra strette. Un abbraccio carnale senza parole.
Inizia a muoversi. Su e giù. Lento. Silenzioso. Ogni affondo è un pensiero che le muore in gola. Ogni risalita, un gemito che resta intrappolato tra i denti. La saliva comincia a colare. Le guance si arrossano. Gli occhi si chiudono. Non cerca più chi è dietro. Non serve più il volto. Ha il cazzo nella bocca.
E in quella carne calda, trova la sua verità. Lei lo voleva da sempre. Solo non lo sapeva. Fino a ora. Il cazzo le riempie la bocca, ma è il suo viso a parlare. Le labbra sono spalancate, tirate intorno all’asta spessa, lucide di saliva, che cola dagli angoli come un eccesso che non vuole trattenere. La guancia sinistra si tende ogni volta che scende. Il muscolo lavora, come se succhiare fosse uno sforzo vero, carnale, totale. La destra si contrae, poi si rilassa, in un ritmo lento, profondo, solenne. Il naso le sfiora la parete quando prende tutto.
E ogni volta che lo fa, gli occhi si chiudono. Ma non per pudore. Per focalizzare il piacere. Le sopracciglia si arricciano. A volte come se stesse soffrendo. Ma in realtà è troppo piena di piacere per sorridere. Troppo dentro per restare neutra. La fronte si imperla di sudore. La bocca emette piccoli schiocchi. Rumori veri. Bagnati. Osceni. Perfetti. La lingua a volte gli gira intorno, mentre le labbra si tengono larghe, spalancate, pronte a ricevere.
Ma è quando lo guarda che il suo viso si fa poesia. Gli occhi si sollevano. Fissi sul buco. Come se volesse guardare oltre, trovare il volto dell’uomo. Ma in fondo non le serve. Perché è lei che ha in bocca il potere. E allora lo succhia più forte. Più affondata. Con le guance che si svuotano e si riempiono. Con la gola che si apre. Con le labbra che chiedono più carne, più spinta, più cazzo.
E in quel momento, mentre il suo viso è tutto occupato, non è più una donna timida di trentacinque anni. È una bocca che ha trovato il suo senso. Si stacca con un suono bagnato, profondo. Il cazzo le sfugge dalle labbra con uno schiocco, strisciando contro la lingua ancora tesa, come se volesse restare ancora un attimo lì dentro.
Lei si appoggia alla parete. Respira forte. Come chi ha corso. O come chi è appena scoppiato dentro. Ha la bocca aperta, le labbra gonfie. Il mento lucido. Un filo di saliva che scivola sul collo. Ma non si pulisce. Lo sente: è parte di lei ora. Gli occhi sono sgranati, brillanti. Sta realizzando cosa ha fatto. Ha preso un cazzo in bocca. Un cazzo sconosciuto. Senza volto. Senza voce. E lo rifarebbe mille volte. Le mani le tremano leggermente. Si sfiorano le labbra con le dita, come se volesse conservare il sapore.
Poi guarda il buco. Il cazzo è ancora lì, duro, in attesa. E mentre lo osserva, succede. Uno. Da sinistra. Un altro cazzo compare. Diverso. Più scuro, più sottile, leggermente curvo. Punta verso il basso, come se volesse entrare subito in gola. Poi l’altro. Dal lato opposto. Un’asta spessa, massiccia, con la cappella larga, violacea. Più lenta a uscire, come se volesse farsi desiderare. Lei resta ferma. Il respiro si spezza di nuovo. Tre cazzi davanti. Tre direzioni. Tre possibilità. E una sola bocca.
Per un istante, si sente scelta. Come se il mondo intero avesse risposto a quel pompino con un’offerta: Vuoi di più? Avrai tutto. E allora…cosa succede? Succede che si inginocchia al centro. Non sceglie uno. Si mette tra tutti. Guarda a sinistra. Poi a destra. Poi avanti. Sorride. «Adesso scopatemi la bocca a turno. E non fermatevi finché non vi tremano le gambe. »
Le mani arrivano prima. Una. Poi due. Poi quattro. Sporgono da fessure invisibili sopra i buchi, dall’alto, come comparse di un sogno perverso. Le prendono la testa. Non con violenza. Con urgenza. Le dita affondano nei capelli. La tengono ferma. Poi la spingono verso il primo cazzo. È quello più spesso, più scuro. La cappella larga le tocca la bocca. Non ha il tempo di pensare. Le labbra si aprono. Il cazzo entra. Spinge. Riempie. Le guance si tendono. Il mento si allunga verso il basso, la bocca è piena fino alla gola. Il cazzo si muove lento. Dentro e fuori. La saliva comincia a colare. Il suono è bagnato, vivo, osceno. Poi la testa si stacca di colpo. Le mani la tirano indietro. Il cazzo le esce di bocca con uno schiocco.
Subito un altro. Quello più curvo. Più sottile ma più tagliente. Le entra rapido. La colpisce contro il palato. La lingua lo insegue, lo accarezza sotto, ma lui vuole profondità. Le mani la spingono ancora. La fanno scendere. Il cazzo le va in gola. Lei geme. Ma non si ferma. Anzi, si piega ancora di più. Le lacrime le inumidiscono gli occhi, le labbra le tremano, ma lo prende tutto.
Via di nuovo. La testa sbalzata come una pallina. Un altro cazzo. Quello che aveva succhiato all’inizio. Più familiare. Ma ora più duro. Le sbatte sulle labbra. Lei lo prende con fame. Lo ingoia, lo succhia, lo lecca da sotto. Gli occhi rivolti in alto, le guance che si incavano a ogni spinta, la bocca che schiocca, parla senza dire nulla.
E poi di nuovo giù. Un altro cazzo. La stessa bocca. Un’altra espressione. Il viso è una maschera di piacere. Rosso. Bagnato. Aperto. Le labbra gonfie, le narici dilatate, gli occhi semi chiusi, spalmati di lacrime e lussuria. Ogni cazzo ha un gusto diverso. Uno di pelle. Uno di sudore. Uno di ferro. E lei li vuole tutti. Li succhia come se stesse cercando la verità in ognuno. Le mani continuano a muoverla. Su. Giù. Destra. Sinistra. Dentro. Fuori. Non c’è tempo. Non c’è scelta. C’è solo la giostra. E lei ride con la gola. Tra un cazzo e l’altro. Ride di piacere. Perché non riesce a fermarsi. Perché non vuole.
Si stacca all’improvviso. La bocca ancora aperta, lucida, gonfia. Il respiro è spezzato, un rantolo che non cerca aria, cerca altro. Le mani tremano. Le gambe le reggono appena. Avanza. Si volta verso il centro, verso la porta da cui è entrata. Quella chiusa. Quella che non ha mai smesso di guardarla. E ora la guarda anche lei. Dritta. Come se lì, proprio lì, ci fosse il passaggio tra ciò che era e ciò che ora sa di essere.
Il cuore le martella nel petto. Tum… Tum… Tum… Non è paura. È la figa. Che batte con lui. Che la comanda. Un pensiero si affaccia, secco: “Non la bocca. Ora… la figa. ” Si gira verso il muro. Lo sfiora con la mano. La superficie è fredda, ruvida. Ma lei è calda, aperta, pronta a lasciare il segno della sua umidità sulla pietra. Poi lo vede. Un buco, all’altezza giusta. E da lì… spuntato come una promessa mantenuta, un cazzo. Duro. Perfetto. Già pulsante. Già rivolto a lei.
Lei sorride. Piano. Come chi sa cosa vuole. Come chi ha appena scelto di farsi possedere. Si volta. Gli dà la schiena. Si piega. Lenta. Precisa. Con le gambe leggermente divaricate, le mani contro il muro, la schiena inarcata. Le mutande sono ancora addosso, bagnate, trasparenti, più inutili che vere. Le abbassa. Piano. Le fa scivolare lungo le cosce. Le lascia appese a un ginocchio.
La figa ora è aperta al mondo. Le grandi labbra gonfie. Le piccole lucide. Il buchino vivo, che si contrae da solo, come se volesse attirare dentro quel cazzo che la guarda. Lo prende con una mano. Lo guida. La cappella sfiora l’ingresso. Si bagna. Scivola. Lei geme. Un gemito profondo, involontario, necessario. Poi lo fa entrare. Pochi centimetri. Il tempo si ferma. Il fiato si rompe. È dentro. Lui spinge. Con calma. Ma con peso.
La figa lo accoglie. Si apre. Lo inghiotte. Lo chiama. I primi colpi sono lenti. Bassi. Liquidi. Il suono è quello della pelle bagnata contro la pelle calda. Poi aumenta. Lui la prende per i fianchi. Le sbatte le chiappe contro il muro. Lei si lascia fare. Non si tiene. Non si oppone. Le natiche oscillano a ogni colpo. Si schiantano contro la parete. Il cazzo la spinge avanti, poi la tira indietro. La prende. La prende tutta. Le tette ballano sotto il peso del movimento. Il ventre le pulsa. La figa sbatte. Gronda. E il muro… il muro non crolla. Ma la trasforma.
Ogni colpo ora è più forte. Più profondo. Più disperato. Fabiana non è più in controllo. È un corpo che viene preso. E lei lo voleva da sempre. Il primo cazzo non è ancora uscito del tutto, che lei già ne cerca un altro con il corpo, con la pelle, con la fame. Lui scivola fuori da lei con un suono bagnato, lungo. Il cazzo è ancora duro, coperto della sua umidità.
Fabiana resta ferma. In piedi. Le cosce tremano, la pelle è segnata di gocce, la figa ancora aperta, ancora affamata. Si volta leggermente. Gli occhi corrono lungo la parete. Lo vede. Un altro cazzo. Più sottile. Più lungo. Ancora asciutto. Ancora vergine di lei. Lei non dice nulla.
Ci si avvicina. In piedi. Il muro davanti. Le mani contro la parete. La schiena dritta. Fa un passo, e la cappella le sfiora la natica. Scende. Scivola tra le cosce. Sfiora le labbra della figa. Ma non entra. Non ancora. Fabiana si strofina. Inizia a muoversi da sola. Con il bacino fa piccoli colpi indietro, spingendo la figa sul cazzo come un animale che si offre, che non chiede più niente, solo carne da sentire dentro. Il cazzo si bagna con lei. Scivola lungo le labbra gonfie. La stimola. La fa gemere.
«Sì…» sussurra. «Sì, così. Strofina…Ma poi entra. Fammi tua anche tu. » E allora spinge. Le mani si aggrappano al muro. La figa si apre di nuovo. La cappella forza l’ingresso. Scivola dentro. Un gemito le esplode dalla gola. Non è più un gemito. È un’orda di desiderio assopita per troppo tempo.
Il cazzo entra tutto, più in alto, più dritto, la prende davanti mentre lei sta in piedi, faccia contro il muro, il seno schiacciato, la fronte che picchia a ogni colpo. Il ritmo cresce subito. Non serve dolcezza. Solo presenza. Lui le sbatte la figa con colpi pieni, dritti, ogni spinta è uno strappo al respiro. Le chiappe battono contro la parete. La pelle brucia.
Ma lei non si ferma. Si spinge indietro. Lo vuole più dentro. Più forte. Vuole essere aperta come una porta che non si richiuderà mai. E nei pensieri…ne vuole altri. Vuole cazzi ovunque. Nella bocca, nel culo, sulle tette. Vuole essere la tana di cazzi sconosciuti.
Le gambe non la reggono più. Non c’è più forza. C’è solo voglia. E lei la lascia vincere. Scivola giù, lentamente. Le ginocchia contro il pavimento freddo, la schiena che si curva. I seni nudi che oscillano mentr e respira forte. Il cazzo che le ha appena riempito la figa scivola fuori. Le cosce colano.
Ma lei non si ferma. Davanti a lei, due cazzi. Ancora duri. Ancora vivi. Che pulsano contro l’aria, in attesa della fine. Li prende con le mani. Uno per lato. Le dita strette. I palmi umidi. Li stringe. Li masturba. Ma non come prima.
Ora li guida verso il compimento. Li guarda. Fissi. Come se volesse tatuarseli negli occhi. Le mani scorrono. Ritmate. Precise. Diverse. Una più lenta, con il pollice che gira sulla cappella. L’altra più veloce, come a chiedere vieni, fammi tua ancora. I cazzi fremono. Gemono. Trecciano il fiato come corde tese.
E poi… scoppiano. Uno le esplode sul seno. Gocce calde, dense, le segnano il petto. Le scivolano tra le tette. Le colano sulla pancia. L’altro le schizza la bocca. Le labbra. Un occhio. La guancia. Lei non si ritrae. Lo riceve. Lo vuole. E resta lì. Sporca. Bagnata. Viva.
I cazzi si ritirano. Tornano dentro il muro. Come se non fossero mai esistiti. Il silenzio cala. Ma dentro lei qualcosa urla ancora. Resta a terra. Respira. Freme. La figa si contrae, ancora aperta, come se cercasse il cazzo anche adesso che non c’è. Si rannicchia. Porta le mani tra le cosce. Non si masturba. Le tiene lì. A sentire il battito che non si spegne.
Poi si alza. Barcolla. Si riveste. Prima le mutande, ancora bagnate. Poi il vestito. Il trench. Il viso segnato di sperma, ma non lo pulisce tutto. Ne lascia una traccia sul collo. Come un profumo. Va verso la porta. La chiave non serve. Ora si apre da sola. Esce. La notte è la stessa. Ma lei no. E camminando verso la macchina, con il passo incerto e la figa ancora calda, pensa solo una cosa: “Non sono più io. E non voglio tornare indietro.
scritto il
2025-05-05
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