Cronache di Anna II – La scelta della preda

di
genere
etero

Così il cinquantenne normale le aprì la porta di casa sua, ancora un po’ incredulo. Lei si fermò un attimo sull’ingresso, stringendo tra le mani la borsetta come una ragazzina impaurita. «È molto gentile…» mormorò, abbassando gli occhi. «Davvero, mi dispiace disturbarla…» La sua voce tremava appena, come se fosse sul punto di piangere. Lui sorrise, impacciato. Non era abituato a donne così. Tutto in lei sembrava fragile: i riccioli spettinati, la camicetta leggermente sgualcita, le gambe che sembravano non sapere dove appoggiarsi. «Venga, si sieda…» balbettò lui, indicando il divano.
Anna fece qualche passo, poi — come per caso — inciampò di nuovo. Le mani tese in avanti, il corpo che si sbilanciava, e il suo petto che urtava contro quello di lui. Il contatto fu breve, morbido, rovente. «Oh scusi…» sussurrò, allontanandosi di scatto come una bambina sorpresa a fare una marachella. Lui sentì il sangue precipitare tutto in basso. Un battito solo, profondo, che lo accecò per un attimo.
Lei si sedette sul bordo del divano, con le ginocchia strette, lo sguardo basso, i piedi che ondeggiavano come quelli di una ragazzina intimidita. «Posso avere quell’acqua, per favore…?» La voce era un soffio. Lui corse in cucina, nervoso, eccitato, confuso. Si sentiva un imbecille. Si sentiva un uomo.
Quando tornò, Anna si era tolta le scarpe. Era lì, a piedi nudi sul suo tappeto, come se non sapesse più bene dove fosse. La camicetta, mentre si era chinata, si era aperta un poco di più. Solo un po’. Quanto bastava per far intuire la curva del seno piccolo, vibrante. Prese il bicchiere con due mani, come una bambina che teme di farlo cadere. «Grazie…» disse, e il sorriso che gli regalò gli tranciò il respiro.
Anna sorseggiò un po’ d’acqua, poi appoggiò il bicchiere sul tavolino, con un gesto lento, svogliato. «Scusi…» mormorò, passandosi una mano tra i capelli, come se cercasse di rimettere ordine nella confusione. «È che… mi sento un po’ stanca… solo cinque minuti, poi chiamo mio cugino…» Lui annuì subito, impacciato. Come poteva dirle di no?
Anna si sdraiò sul divano, voltandosi di lato. Con naturalezza — o meglio, con quella naturalezza che era tutto tranne che casuale — lasciò che la gonna si sollevasse. Appena un po’. Appena quanto bastava perché lui, seduto lì vicino, vedesse l’orlo bianco degli slip. Un triangolo di cotone teso tra le cosce lisce. Il suo cuore cominciò a battere più forte. Distolse lo sguardo, poi lo riprese. Non poteva farne a meno.
Anna chiuse gli occhi, respirando piano. Sembrava una bambina esausta dopo una corsa troppo lunga. Fragile. Sperduta. Poi, in un sussurro, quasi nel sonno: «Mi tiene la mano, per favore…? Mi fa paura stare da sola…» Lui esitò. Tutto il suo corpo tremava. «Per favore…» ripeté lei, con un filo di voce. Allora lui tese la mano, e le sfiorò le dita. Anna la strinse con entrambe le mani, come se si aggrappasse a lui. Le sue dita piccole e calde si intrecciarono alle sue, morbide, tremanti.
Per qualche secondo non successe nulla. Solo il battito del suo cuore che sembrava riempire tutta la stanza. Poi Anna si mosse. Un piccolo movimento, come uno stiracchiarsi nel sonno. Il bacino che si sollevava appena. La gonna che scivolava ancora un po’. Ora gli slip erano del tutto visibili. Bianchi, aderenti, modellati sulla carne viva. La piega morbida del sesso nascosta eppure così presente, così tangibile da far male.
Lui strinse la mano senza accorgersene. Anna emise un piccolo gemito. Un suono sottile, che non era né dolore né protesta. Solo una vibrazione. Un invito. Si voltò leggermente verso di lui. Ora la sua bocca era vicina. Schiusa. Umida. Il respiro gli sfiorava la pelle. Il suo odore — un misto di sapone, pelle calda e qualcosa di più profondo, più animale — lo stordiva.
Anna mosse ancora la mano nella sua. Non forte. Non cercava di guidarlo. Gli stava solo facendo capire, facendo finta di non capire. La sua innocenza era così perfetta che sembrava una bestemmia toccarla. Eppure, il cazzo ormai premeva duro contro la stoffa. Il suo corpo non gli lasciava scelta. Lui le stringeva la mano, cercando di convincersi che stava solo proteggendola. Proteggere quella ragazza smarrita, fragile, addormentata sul suo divano. Ma il cazzo, gonfio e vivo, lo tradiva. Ogni respiro di lei, ogni piccolo movimento, ogni centimetro di pelle mostrata sembrava una carezza invisibile sulle sue voglie più sporche.
Anna sentiva tutto. Sentiva la tensione che cresceva, l’odore acido del desiderio che saliva dalla sua pelle di uomo normale. Normale, sì. Un cinquantenne troppo normale, con una pancia normale, un cazzo normale. Ma un cazzo che ora batteva contro i jeans come un tamburo rotto, e tanto bastava. Tanto bastava per farle salire un calore umido tra le gambe, per farle pizzicare il sesso sotto gli slip.
Si mosse piano, come se nel sonno cercasse una posizione più comoda. La gonna salì ancora, svelando del tutto gli slip bianchi. Il tessuto teso sul monte di Venere gonfio. La stoffa che disegnava le labbra sotto, gonfie di sangue e di voglia nascosta. Lui trattenne il fiato. Dio, non era giusto. Non era possibile che una creatura così lo stesse provocando davvero. O forse no, forse era solo una coincidenza, un sogno sbagliato che la mente sporca stava trasformando in desiderio. In fondo, chi era lui per pensare certe cose? Un poveraccio. Un fallito qualunque con un cazzo troppo duro per ragionare.
Anna avvertì quel pensiero, lo sentì vibrarle contro la pelle come un’onda. E sorrise, dentro. Perché era esattamente questo che voleva: farlo sentire sporco, sbagliato, perduto. Solo così si sarebbe arreso. Solo così l’avrebbe presa come doveva. Senza rispetto, senza pietà, senza più la maschera dell’uomo perbene.
scritto il
2025-04-27
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