Cronache di Anna X – La profanazione finale
di
Marcello Callisto
genere
etero
E fu mentre iniziava il secondo giro — nuovi uomini, nuovi cazzi, nuove prese — che Anna esplose nel primo orgasmo: il corpo che si irrigidì tutto insieme, la figa che palpitava, fiotti di piacere misti a umiliazione. Non le diedero tregua. Bocca riempita senza sosta, culo sfondata a colpi duri, figa presa come un pertugio conquistato e riconquistato. Schiaffi, sputi, cazzi che la marchiavano senza pietà.
Il terzo giro fu ancora più selvaggio. La passarono di mano in mano, di cazzo in cazzo, senza rispetto, senza regole. Bocca, figa, culo: un unico fiume di carne e sudore. E fu durante il terzo giro che Anna esplose di nuovo: un orgasmo più forte, più sporco, più devastante. Il corpo che si contorse sotto di loro, il ventre che si contraeva, la figa che pulsava stretta, il culo che si apriva come un fiore violato.
Non gridò. Non chiese tregua. Si limitò a tremare, a piangere piano di piacere. Mentre gli uomini la usavano, mentre la carne la marchiava, mentre la sua anima si liquefaceva nel desiderio più oscuro e più dolce che avesse mai conosciuto.
Ma loro erano pronti per una nuova giostra. Non ebbero bisogno di dirsi nulla. La sollevarono da terra come una bambola rotta, le gambe molli, il corpo striato di morsi e carezze, il viso sporco di saliva e seme rappreso. La portarono fino alla poltrona massiccia che troneggiava al centro della stanza, la adagiarono lì, dolcemente e brutalmente insieme, e cominciarono a legarla. Trovarono lacci, cinture, cravatte abbandonate: ogni pezzo di stoffa diventava una catena. Le gambe divaricate e legate ai braccioli laterali, le braccia tirate all’indietro, annodate allo schienale, il busto schiacciato contro il sedile, il culo alto, il bacino esposto, il sesso e il buco del culo completamente offerti, spalancati. Solo la testa rimaneva libera, oscillante, pronta ad accogliere. Era bellissima così, annullata, distrutta, resa pura carne da usare. Era tutto ciò che aveva sempre voluto essere.
Il cinquantenne si piazzò davanti a lei per primo, il cazzo duro che premeva contro le sue labbra gonfie. Le prese il mento con una mano ruvida, glielo sollevò, glielo fece aprire piano, e infilò il cazzo nella bocca docile, affondando lentamente, assaporando ogni centimetro che spariva oltre le labbra. Anna gemette, il suono soffocato dalla carne calda che le invadeva la gola. Intanto, il rasato si avvicinò da dietro, guidò il suo cazzo teso verso la figa gocciolante, gonfia, aperta come un fiore violato. Affondò dentro senza resistenza, tutta la frustrazione, tutta la voglia, tutta la brutalità che Anna sapeva di meritare. Sopra di lei, il giovane con la giacca di pelle la prendeva a turno nella bocca, mentre il magro si infilava nel culo, scavandole dentro gemiti di piacere puro, sporco, incontrollabile.
Uno alla volta. Tutti la prendevano. Chi nella bocca, chi nella figa, chi nel culo. Poi si scambiavano. Si alternavano. Un vortice di cazzi che la marchiava da ogni lato. Ogni nuova penetrazione era una scossa elettrica che le attraversava la spina dorsale, la pelle, il sangue. Anna veniva senza nemmeno rendersene conto. Il primo orgasmo le esplose nella figa come un urlo muto, il corpo che si irrigidì contro le corde, le cosce che tremavano spasmodicamente, la gola che vibrava attorno al cazzo che la soffocava. Il secondo orgasmo la fece urlare davvero, sputare il cazzo fuori un attimo solo per gemere, per gridare il suo piacere in un rantolo spezzato, prima di essere riempita di nuovo.
Non c’era più spazio per altro. Solo corpi che spingevano. Solo mani che afferravano. Solo bocche che mordevano la pelle, che succhiavano i capezzoli induriti, che la marchiavano d’amore sporco.
Il cinquantenne venne per primo nella bocca, spingendo il cazzo in gola fino a svuotarsi con un grido rauco; Anna deglutì tutto, senza battere ciglio, le lacrime agli occhi, il sorriso sporco sulle labbra. Gli altri seguirono. Vennero nella figa, nel culo, sulla schiena, sulle cosce, la riempirono, la sporcarono, la consacrarono.
E Anna… Anna venne ancora. E ancora. E ancora. Ogni orgasmo la svuotava. Ogni orgasmo la distruggeva un po’ di più. Fino a che non rimase lì, legata, tremante, sporcata, marchiata, amata da cinque uomini che non avevano più nulla da darle se non il seme e la memoria del loro passaggio dentro di lei.
Anna giaceva ancora legata alla poltrona, il corpo che tremava a piccoli scatti involontari, il viso inclinato di lato, gli occhi semichiusi, le gambe spalancate, le braccia tese all’indietro come un’offerta che non chiedeva nulla in cambio. Il respiro era un filo sottile, spezzato, la bocca semiaperta che lasciava uscire gemiti senza voce. La carne era una mappa di piacere e dolore, i seni sporchi di saliva e seme, la figa che pulsava ancora di piacere, il culo che bruciava di dolce devastazione. Gli uomini la guardavano, sudati, ansimanti, i cazzi ormai molli tra le mani, appesantiti non solo dall’età, ma dalla violenza stessa del piacere che avevano riversato dentro di lei.
Fu allora che il cinquantenne, ancora nudo, ancora con lo sguardo duro e freddo di chi non ha finito, si avvicinò lentamente, lasciando che il silenzio si stendesse spesso nella stanza. «Adesso,» disse con voce bassa, roca, quasi tenera nella sua crudeltà, «adesso viene il momento dell’ultima sorpresa.»
Gli altri risero piano, come animali che riconoscono l’odore del sangue nella notte. Anna aprì piano gli occhi, sollevò il viso quanto le corde le permettevano, e quando vide il cinquantenne avanzare, il cazzo penzolante, la vescica gonfia, capì senza bisogno di parole.
Non tremò. Non si ritrasse. Si limitò a respirare più forte, ad aprire le cosce ancora di più, ad accogliere con il corpo e con l’anima quello che stava per arrivare. Il cinquantenne si piazzò davanti a lei, le mani sui fianchi, il bacino in avanti, e senza alcuna esitazione lasciò che un fiotto caldo, dorato, uscisse dal suo cazzo, colpendole il ventre, colando lungo la pelle, disegnando strade calde e sporche sul ventre tremante, tra i seni, tra le cosce. Anna chiuse gli occhi, aprì la bocca appena, sentendo il liquido caldo scorrere su di lei, impregnare ogni piega, ogni curva.
Il profumo acre, animale, la invase tutta. E lei godeva. Dentro di sé, rideva e gemeva, si sentiva viva, più viva che mai, più sporca, più santa, più sua.
Gli altri non aspettarono il comando. Il rasato si avvicinò subito dopo, pisciandole addosso senza ritegno, spruzzandole il viso, la bocca, il collo, lasciando che le gocce scorressero tra i capelli incollati e sulla schiena curva. Il giovane con la giacca di pelle le pisciò tra i seni, ridendo piano mentre osservava il liquido giallo colare lungo la linea del ventre, infilarsi tra le cosce aperte, perdersi nella figa già umida di tutto. Il magro le pisciò direttamente sulla bocca semiaperta, obbligandola a deglutire, a tossire, a gemere di un piacere più grande di ogni pudore, mentre il suo cazzo ancora caldo le sfiorava le labbra tremanti. L’anziano, infine, la battezzò sulle cosce, sulle ginocchia, sui piedi scalzi che si muovevano appena, imprigionati dalle corde.
Anna rimase lì, a ricevere tutto, a bere tutto, a essere il calice vivente del loro piacere estremo. Non c’era più donna. Non c’era più nome. Non c’era più colpa. C’era solo il corpo. C’era solo il desiderio. C’era solo il rito compiuto.
Quando l’ultimo fiotto dorato ebbe finito di colare sulla sua pelle, sulle sue cosce tremanti, sui piedi ancora legati, gli uomini si guardarono l’un l’altro e senza bisogno di dirsi nulla sciolsero piano i nodi, liberando Anna dal trono della sua disfatta.
Il corpo scivolò in avanti con lentezza, come se ogni fibra, ogni nervo, ogni muscolo avesse dimenticato il senso della libertà. Le braccia caddero lungo i fianchi, le gambe si chiusero a metà, i piedi nudi si rattrappirono sul tappeto lordo.
Anna, lentamente, si mise in ginocchio, il respiro affannoso, il viso abbassato come quello di una penitente. Non disse subito nulla. Si avvicinò al primo uomo, il cinquantenne, e senza guardarlo negli occhi prese in mano il suo cazzo ormai mollato, ancora sporco di sperma, urina e sudore, e iniziò a pulirlo con la lingua, lenta, umile, silenziosa. Lo ripassò tutto: la punta, il fusto, i coglioni svuotati, senza saltare un solo millimetro di pelle. Poi passò al secondo, al terzo, al quarto, al quinto, in un rito lento e preciso, raccogliendo tutto con la lingua, assaporando tutto senza fiatare.
Quando ebbe finito con loro, si piegò ancora di più sul pavimento e iniziò a leccare anche il tappeto, raccogliendo ogni stilla che era colata fuori dai loro corpi, ogni traccia della loro vittoria su di lei. Non con fretta, non con disgusto: con quella dolce, sporca dedizione che era solo sua. Solo allora si inginocchiò al centro della stanza, il corpo nudo e tremante ancora lucido di sudore e umiliazione, e alzò il viso verso di loro, arrossato, gli occhi lucidi, ma vivi.
«Scusatemi…» mormorò, con voce fragile, sincera, quasi temendo di essere rimproverata, «…non volevo disturbarvi… non volevo essere un peso…» Si passò una mano tra i capelli sporchi, si strinse le braccia intorno al petto nudo come se volesse proteggersi, poi aggiunse piano, con una timidezza sporca che li fece ringhiare di desiderio sotto pelle: «Se non vi spiace… se… se volete… magari potrei… potrei tornare… se mi merito un’altra punizione…»
Nessuno rispose subito. Non ce n’era bisogno. Il silenzio pieno dei loro sguardi era una promessa che la attraversò come una carezza e una frustata insieme. Anna si alzò in piedi, tremando un po’, raccolse i suoi vestiti sparsi sul pavimento, si infilò gli slip sporchi, si tirò su il vestitino senza nemmeno sistemarsi bene, lasciando i segni delle mani, delle bocche, delle loro anime impresse sulla pelle nuda.
Prima di andarsene, si voltò verso di loro, ancora con quell’aria dolce, ingenua, intoccabile. Sorrise. Un sorriso piccolo, quasi colpevole. Poi aprì la porta ed uscì, camminando piano lungo il corridoio, lasciando dietro di sé il profumo dolce e sporco della carne viva, del desiderio che non muore.
Ma il desiderio non apparteneva più a loro. Lei lo sapeva. Loro no. Anna aveva bisogno di nuovi scenari.
Il terzo giro fu ancora più selvaggio. La passarono di mano in mano, di cazzo in cazzo, senza rispetto, senza regole. Bocca, figa, culo: un unico fiume di carne e sudore. E fu durante il terzo giro che Anna esplose di nuovo: un orgasmo più forte, più sporco, più devastante. Il corpo che si contorse sotto di loro, il ventre che si contraeva, la figa che pulsava stretta, il culo che si apriva come un fiore violato.
Non gridò. Non chiese tregua. Si limitò a tremare, a piangere piano di piacere. Mentre gli uomini la usavano, mentre la carne la marchiava, mentre la sua anima si liquefaceva nel desiderio più oscuro e più dolce che avesse mai conosciuto.
Ma loro erano pronti per una nuova giostra. Non ebbero bisogno di dirsi nulla. La sollevarono da terra come una bambola rotta, le gambe molli, il corpo striato di morsi e carezze, il viso sporco di saliva e seme rappreso. La portarono fino alla poltrona massiccia che troneggiava al centro della stanza, la adagiarono lì, dolcemente e brutalmente insieme, e cominciarono a legarla. Trovarono lacci, cinture, cravatte abbandonate: ogni pezzo di stoffa diventava una catena. Le gambe divaricate e legate ai braccioli laterali, le braccia tirate all’indietro, annodate allo schienale, il busto schiacciato contro il sedile, il culo alto, il bacino esposto, il sesso e il buco del culo completamente offerti, spalancati. Solo la testa rimaneva libera, oscillante, pronta ad accogliere. Era bellissima così, annullata, distrutta, resa pura carne da usare. Era tutto ciò che aveva sempre voluto essere.
Il cinquantenne si piazzò davanti a lei per primo, il cazzo duro che premeva contro le sue labbra gonfie. Le prese il mento con una mano ruvida, glielo sollevò, glielo fece aprire piano, e infilò il cazzo nella bocca docile, affondando lentamente, assaporando ogni centimetro che spariva oltre le labbra. Anna gemette, il suono soffocato dalla carne calda che le invadeva la gola. Intanto, il rasato si avvicinò da dietro, guidò il suo cazzo teso verso la figa gocciolante, gonfia, aperta come un fiore violato. Affondò dentro senza resistenza, tutta la frustrazione, tutta la voglia, tutta la brutalità che Anna sapeva di meritare. Sopra di lei, il giovane con la giacca di pelle la prendeva a turno nella bocca, mentre il magro si infilava nel culo, scavandole dentro gemiti di piacere puro, sporco, incontrollabile.
Uno alla volta. Tutti la prendevano. Chi nella bocca, chi nella figa, chi nel culo. Poi si scambiavano. Si alternavano. Un vortice di cazzi che la marchiava da ogni lato. Ogni nuova penetrazione era una scossa elettrica che le attraversava la spina dorsale, la pelle, il sangue. Anna veniva senza nemmeno rendersene conto. Il primo orgasmo le esplose nella figa come un urlo muto, il corpo che si irrigidì contro le corde, le cosce che tremavano spasmodicamente, la gola che vibrava attorno al cazzo che la soffocava. Il secondo orgasmo la fece urlare davvero, sputare il cazzo fuori un attimo solo per gemere, per gridare il suo piacere in un rantolo spezzato, prima di essere riempita di nuovo.
Non c’era più spazio per altro. Solo corpi che spingevano. Solo mani che afferravano. Solo bocche che mordevano la pelle, che succhiavano i capezzoli induriti, che la marchiavano d’amore sporco.
Il cinquantenne venne per primo nella bocca, spingendo il cazzo in gola fino a svuotarsi con un grido rauco; Anna deglutì tutto, senza battere ciglio, le lacrime agli occhi, il sorriso sporco sulle labbra. Gli altri seguirono. Vennero nella figa, nel culo, sulla schiena, sulle cosce, la riempirono, la sporcarono, la consacrarono.
E Anna… Anna venne ancora. E ancora. E ancora. Ogni orgasmo la svuotava. Ogni orgasmo la distruggeva un po’ di più. Fino a che non rimase lì, legata, tremante, sporcata, marchiata, amata da cinque uomini che non avevano più nulla da darle se non il seme e la memoria del loro passaggio dentro di lei.
Anna giaceva ancora legata alla poltrona, il corpo che tremava a piccoli scatti involontari, il viso inclinato di lato, gli occhi semichiusi, le gambe spalancate, le braccia tese all’indietro come un’offerta che non chiedeva nulla in cambio. Il respiro era un filo sottile, spezzato, la bocca semiaperta che lasciava uscire gemiti senza voce. La carne era una mappa di piacere e dolore, i seni sporchi di saliva e seme, la figa che pulsava ancora di piacere, il culo che bruciava di dolce devastazione. Gli uomini la guardavano, sudati, ansimanti, i cazzi ormai molli tra le mani, appesantiti non solo dall’età, ma dalla violenza stessa del piacere che avevano riversato dentro di lei.
Fu allora che il cinquantenne, ancora nudo, ancora con lo sguardo duro e freddo di chi non ha finito, si avvicinò lentamente, lasciando che il silenzio si stendesse spesso nella stanza. «Adesso,» disse con voce bassa, roca, quasi tenera nella sua crudeltà, «adesso viene il momento dell’ultima sorpresa.»
Gli altri risero piano, come animali che riconoscono l’odore del sangue nella notte. Anna aprì piano gli occhi, sollevò il viso quanto le corde le permettevano, e quando vide il cinquantenne avanzare, il cazzo penzolante, la vescica gonfia, capì senza bisogno di parole.
Non tremò. Non si ritrasse. Si limitò a respirare più forte, ad aprire le cosce ancora di più, ad accogliere con il corpo e con l’anima quello che stava per arrivare. Il cinquantenne si piazzò davanti a lei, le mani sui fianchi, il bacino in avanti, e senza alcuna esitazione lasciò che un fiotto caldo, dorato, uscisse dal suo cazzo, colpendole il ventre, colando lungo la pelle, disegnando strade calde e sporche sul ventre tremante, tra i seni, tra le cosce. Anna chiuse gli occhi, aprì la bocca appena, sentendo il liquido caldo scorrere su di lei, impregnare ogni piega, ogni curva.
Il profumo acre, animale, la invase tutta. E lei godeva. Dentro di sé, rideva e gemeva, si sentiva viva, più viva che mai, più sporca, più santa, più sua.
Gli altri non aspettarono il comando. Il rasato si avvicinò subito dopo, pisciandole addosso senza ritegno, spruzzandole il viso, la bocca, il collo, lasciando che le gocce scorressero tra i capelli incollati e sulla schiena curva. Il giovane con la giacca di pelle le pisciò tra i seni, ridendo piano mentre osservava il liquido giallo colare lungo la linea del ventre, infilarsi tra le cosce aperte, perdersi nella figa già umida di tutto. Il magro le pisciò direttamente sulla bocca semiaperta, obbligandola a deglutire, a tossire, a gemere di un piacere più grande di ogni pudore, mentre il suo cazzo ancora caldo le sfiorava le labbra tremanti. L’anziano, infine, la battezzò sulle cosce, sulle ginocchia, sui piedi scalzi che si muovevano appena, imprigionati dalle corde.
Anna rimase lì, a ricevere tutto, a bere tutto, a essere il calice vivente del loro piacere estremo. Non c’era più donna. Non c’era più nome. Non c’era più colpa. C’era solo il corpo. C’era solo il desiderio. C’era solo il rito compiuto.
Quando l’ultimo fiotto dorato ebbe finito di colare sulla sua pelle, sulle sue cosce tremanti, sui piedi ancora legati, gli uomini si guardarono l’un l’altro e senza bisogno di dirsi nulla sciolsero piano i nodi, liberando Anna dal trono della sua disfatta.
Il corpo scivolò in avanti con lentezza, come se ogni fibra, ogni nervo, ogni muscolo avesse dimenticato il senso della libertà. Le braccia caddero lungo i fianchi, le gambe si chiusero a metà, i piedi nudi si rattrappirono sul tappeto lordo.
Anna, lentamente, si mise in ginocchio, il respiro affannoso, il viso abbassato come quello di una penitente. Non disse subito nulla. Si avvicinò al primo uomo, il cinquantenne, e senza guardarlo negli occhi prese in mano il suo cazzo ormai mollato, ancora sporco di sperma, urina e sudore, e iniziò a pulirlo con la lingua, lenta, umile, silenziosa. Lo ripassò tutto: la punta, il fusto, i coglioni svuotati, senza saltare un solo millimetro di pelle. Poi passò al secondo, al terzo, al quarto, al quinto, in un rito lento e preciso, raccogliendo tutto con la lingua, assaporando tutto senza fiatare.
Quando ebbe finito con loro, si piegò ancora di più sul pavimento e iniziò a leccare anche il tappeto, raccogliendo ogni stilla che era colata fuori dai loro corpi, ogni traccia della loro vittoria su di lei. Non con fretta, non con disgusto: con quella dolce, sporca dedizione che era solo sua. Solo allora si inginocchiò al centro della stanza, il corpo nudo e tremante ancora lucido di sudore e umiliazione, e alzò il viso verso di loro, arrossato, gli occhi lucidi, ma vivi.
«Scusatemi…» mormorò, con voce fragile, sincera, quasi temendo di essere rimproverata, «…non volevo disturbarvi… non volevo essere un peso…» Si passò una mano tra i capelli sporchi, si strinse le braccia intorno al petto nudo come se volesse proteggersi, poi aggiunse piano, con una timidezza sporca che li fece ringhiare di desiderio sotto pelle: «Se non vi spiace… se… se volete… magari potrei… potrei tornare… se mi merito un’altra punizione…»
Nessuno rispose subito. Non ce n’era bisogno. Il silenzio pieno dei loro sguardi era una promessa che la attraversò come una carezza e una frustata insieme. Anna si alzò in piedi, tremando un po’, raccolse i suoi vestiti sparsi sul pavimento, si infilò gli slip sporchi, si tirò su il vestitino senza nemmeno sistemarsi bene, lasciando i segni delle mani, delle bocche, delle loro anime impresse sulla pelle nuda.
Prima di andarsene, si voltò verso di loro, ancora con quell’aria dolce, ingenua, intoccabile. Sorrise. Un sorriso piccolo, quasi colpevole. Poi aprì la porta ed uscì, camminando piano lungo il corridoio, lasciando dietro di sé il profumo dolce e sporco della carne viva, del desiderio che non muore.
Ma il desiderio non apparteneva più a loro. Lei lo sapeva. Loro no. Anna aveva bisogno di nuovi scenari.
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