La gladiatrice. 6. Trame e veleni. Prima parte
di
Yuko
genere
pulp
Ritornate al ludus Dacicus, Quinto ci viene incontro, mentre mi accascio sul pagliericcio della mia cella, stravolta dal dolore, dalle emozioni di questa mattina e dalla stanchezza.
"Keiko! Non pensavo che vi avrei di nuovo viste vive!"
"Quinto, sono messa male questa volta. Le ferite sono profonde."
Siret mi sta vicina e mi tiene la mano, piangendo sommessamente: "Siamo sopravvissute solo per un miracolo, ma a quale prezzo!" Singhiozza.
Il nostro allenatore si premura di trovarsi da solo nella nostra cella e prende la parola: "Non potete più stare qui. Qualcuno molto in alto vi vuole male e se ce l'avete fatta questa volta, troverà un'altra occasione per minacciare la vostra vita! Dovete scappare e sto escogitando un piano."
"Quinto, non hai capito", riesco a dire mentre mi coglie una stanchezza infinita, "io non so se ce la faccio a sopravvivere e potrei spegnermi in qualche giorno, fra sofferenze atroci."
Lui mi guarda e poi guarda la ragazza che al mio fianco non smette di tenermi la mano. Ma sembra non capire il mio messaggio: "Tu cerca di sopravvivere, io sto organizzando la tua fuga." Lo fisso rinunciando a insistere, poi accenno col capo alla mia compagna.
"Certo, anche la sua.” Si affretta ad aggiungere. “Qui dentro non dovete più stare, ma almeno, in queste condizioni, per il momento nessuno dovrebbe darti fastidio."
E con questo capisco che ha sistemato le cose anche con Marcius.
Cosa sia capitato tra i patrizi e i senatori mi è sconosciuto, anche se penso che in tutto questo ci sia la mano del capo della guarnigione qui al ludus. Eppure tutti i nobili sono sempre rimasti soddisfatti di me, quando mi hanno invitata nelle loro ville.
Ma tutto questo ora ha poca importanza.
"Quinto", pronuncio con un filo di voce, "Mi serve dell'acqua per lavarmi le ferite e anche una tunica pulita. Se mi prende un'infezione sarò morta in pochi giorni.”
Lui non dice più nulla. Fissa il suo sguardo su Siret, poi prende una decisione e si allontana. Nel pomeriggio arrivano acqua in quantità, cibo e una tunica pulita.
Per tutto il tempo Siret mi lava e mi accudisce, ma io sento una debolezza insostenibile attanagliarmi le membra e la febbre che sta salendo.
Nella notte penso di perdere coscienza. La febbre mi trasforma in una palla di fuoco. Siret mi bagna la fronte per raffreddarmi e per lenire il dolore alla testa che pulsa e sembra di voler scoppiare. Vomito, mi contorco in convulsioni e il mio ventre geme sangue e siero. Dico frasi senza senso e in una lingua che la dace non conosce e non riesce a capire, ma alla fine di un incubo infernale, la luce filtra dalle strette feritoie in cima ai muri che ci rinchiudono. In qualche modo sono sopravvissuta alla prima notte.
La donna dalle trecce rosse mi guarda e non smette di piangere, preoccupata e disperata.
"Non lasciarmi Keiko, non morire. Se tu muori io morirò due volte, prima per il dolore e poi perchè di sicuro senza di te mi uccideranno."
La guardo seria e non ce la faccio a sorridere, anche se mi sforzo di farlo. E non voglio mentirle dicendo che anche questa volta il mio fisico supererà l'ostacolo. Siamo due schiave, in una cella sporca, con qualcuno che vuole la nostra morte. Con queste ferite anche un ricco romano con i migliori medici e in una villa pulita e luminosa avrebbe poche possibilità di sopravvivere.
Il viso mi si è gonfiato dove sono stata penetrata dalle zanne del leone e la testa mi pulsa. Macchie viola mi sono comparse sotto gli occhi e dietro alle orecchie, e questo significa che le ossa dei mio cranio si sono scheggiate. La mia compagna mi guarda con un'espressione di terrore. I miei occhi sono infossati e vengo continuamente scossa dai brividi della febbre, la mia fronte è bagnata di sudore e la mia lingua impastata. Ma quando sposto la tunica per guardarmi la pancia che pulsa di dolore e che sembra voler scoppiare, trovo croste di sangue e bolle gialle di infezione. La situazione è più preoccupante di quanto io stessa prevedessi e se questa infezione si diffondesse difficilmente arriverei ad affrontare una nuova notte. Ho le labbra secche e non riesco a muovere neanche un dito, ma almeno la mente è lucida.
"Siret!" Riesco a bisbigliare con un filo di voce, la debolezza mi ha spento anche la voglia di parlare, ma ancora riesco a respirare bene.
Lei mi si avvicina, mi tiene le mani nelle sue e mi bacia la fronte.
"Io non so se..." comincio a pronunciare.
Ma lei mi interrompe toccandomi le labbra con il suo dito indice.
"Dimmi cosa devo fare, guerriera venuta dall'oriente, e io ti salverò!"
Mi sento mancare, ma di fronte alla sua determinazione e con la mente turbata dai presagi di ciò che le succederebbe se io morissi, cerco di farmi forza.
Un tentativo almeno posso cercare di farlo, ma avrò ancora bisogno di molto aiuto e troppa fortuna e temo che la mia buona sorte sia terminata, come le mie innumerevoli vite, bruciate rapidamente in pochi anni di combattimenti.
"Siret..." Lei si avvicina per sentire cosa bisbiglio. La voce mi ha abbandonata. "Ascolta molto bene."
Lei mi si inginocchio di fianco, la sua espressione è concentrata e convinta.
"Trova della corteccia di salice. Ho visto questi alberi sulla riva del Tiberis. Mi serve tanta corteccia. Dillo a Quinto. La corteccia va sbriciolata e scaldata sulla fiamma fino a farla annerire. Me ne serve tanta, devi fartela procurare. Chiedi a Quinto di trovare in dispensa delle arance ammuffite. Ce ne sono tante, ma me ne servono ancora di più. Quelle con le muffe bianche e verdi sono le migliori. Ne ho viste anche sulle zucche. Questa è la cosa principale, ne ho bisogno adesso e per i prossimi giorni, se non muoio prima." E intanto sento che le sue mani mi stringono a un braccio. Il silenzio è tremendo e il presagio della morte ci è compagno.
"Poi vai al circo Massimo; sai come sono i fiori di camomilla? Ecco, me ne servono tanti, e poi anche quei fiori dal colore rosso intenso. Non so se li sai riconoscere, chiedi ancora a Orazio, il mirmillone della nostra squadra. Lui sa di cosa parlo. Sono i fiori della digitale. Anche quelli mi servono, e le foglie. Trovami tutto e forse un tentativo di combattere la malattia potremo farlo. Ma dobbiamo trovare tutto!"
Siret si mette subito al lavoro, trova Quinto e riesce a comunicare con lui. Per fortuna Marcius è via qualche giorno, sicuro di trovare una persona in meno dopo questa sua breve trasferta altrove, e i pochi amici che ci sono rimasti trovano tutto quello che cerchiamo. La cosa più difficile da procurarci è però la corteccia di salice, ma in serata arriva anche questa.
Già dal pomeriggio, dopo aver lavato le ferite con impacchi di camomilla, applico le muffe sul ventre e sulle lesioni al volto. L'infuso di corteccia di salice invece è imbevibile, troppo amaro. Ma Quinto, su mia richiesta, mi procura dell'aceto che aggiungo al liquido nero, attenuandone il sapore disgustoso. Bevo anche qualche sorso dell'infuso di digitale.
“Che cosa sono questi impasti di muffe e cortecce, Keiko? Sei sicura che non ti faranno male?”
“Fidati, Siret. Se ho una possibilità, anche una sola, di sopravvivere, la posso coltivare grazie a queste muffe e alla corteccia di salice.”
“Dove hai imparato a conoscere le erbe e gli infusi?”
“Presso il popolo Han, una civiltà molto evoluta che ho conosciuto vicino alle terre dove sono nata. Conoscenze tramandate per più di mille anni, in una regione così a oriente che i romani non le hanno neanche dato un nome, ben oltre i confini più estremi delle Indie.”
Le energie mi formicolano nel corpo già dopo le prime ore dall'inizio dei miei trattamenti. L'infuso di corteccia mi ha tolto la febbre e il dolore e la digitale mi ha dato nuove forze. Dobbiamo solo sperare che le muffe riescano a eliminare quella crema gialla e dall'odore di morte che mi si forma in continuazione sulle ferite.
“E com'è la tua terra, Keiko. Cosa ti ricordi dei posti in cui sei nata?”
“Poco, donna della Dacia. Ricordi confusi di una bambina che a cavallo sfidava i maschi in gare di velocità e di forza, vincendole tutte. Nella mia mente scorrono spesso immagini di alberi in fiore, coperti di petali di un rosa lievissimo, quasi candidi, come la tua pelle. Primavere tra i fiori di pesco, rosa come i tuoi capezzoli, e frutti di melograno rossi come le tue labbra. Voli di uccelli dal petto come i tuoi capelli e melodie antiche fiorite da strumenti di cui ho scordato il nome. Verdi distese di tè frammiste a siepi di gelsomino e un vento tiepido che cantava canzoni con le onde del mare.”
“Mi porterai un giorno in questa terra di miele e di latte, dolce guerriera dai capelli neri e vivaci come giovani puledri selvaggi?”
Sorrido alla mia amica e compagna, mentre lei si avvicina per baciarmi sulle labbra. Il suo alito profuma di salvia e menta, erbe che le ho insegnato a usare per lavarci e profumarci e per addolcire l'odore dei nostri corpi. Sorrido e non prometto nulla, mentre, da forte e valorosa, mi faccio di nuovo bambina tra le sue braccia, rannicchiandomi sul tepore del suo soffice ventre. Lei mi canta una canzone della sua terra mentre mi abbandono a un sonno profondo, sperando di rivederla quando sarà giunto il nuovo giorno.
Nella notte Siret mi cambia le medicazioni con le muffe di arancia, lavandomi ogni volta con l'infuso di camomilla e quando mi risveglio mi sento come rinata.
Il dolore alla testa si impadronisce nuovamente di me, mentre ancora perdo sangue dal naso e dalle orecchie, ma meno rispetto ai giorni scorsi. La mia compagna mi aiuta a bere l'infuso di salice e dopo poco il dolore mi passa.
Le ferite al volto e al ventre sono miracolosamente deterse, le muffe hanno compiuto il prodigio. Riesco a mangiare frutta e carne, devo recuperare il sangue perduto e le forze. Ma devo proseguire con le muffe per consolidare il risultato che, insperato, siamo riuscite a ottenere.
In mattinata Quinto ci raggiunge con una cesta di scorze d'arancia ammuffite trovate nei mercati di tutta Roma. Resta stupefatto del risultato ottenuto finora e delle condizioni in cui mi trova, sorridente e seduta a mangiare, e si ferma a farci compagnia.
“Sai, Keiko, il vostro combattimento con il leone ha destato molto stupore. Nessuno avrebbe scommesso sulla vostra pelle.”
“Grazie Quinto, ma credo che la prossima volta non ce la potremo cavare e devo ancora consolidare la mia guarigione, non sono ancora fuori pericolo.”
“È lì che volevo arrivare. Statemi bene a sentire. Appena riuscirai a muoverti dovrete fuggire dalla cella. Ho trovato un posto in cui nascondervi. Vi indicherò dove recarvi. Vi accoglieranno in nascondigli sotterranei; dovrete chiedere dei discepoli di Paolo, un giudeo ucciso qui a Roma molto tempo fa, che ha lasciato proseliti di una nuova religione. Si ritrovano in buie catacombe: loro hanno promesso di aiutarvi.”
“Ma Quinto, chi vuoi che aiuti due schiave fuggitive, ricercate dai pretoriani, se anche riuscissimo a fuggire. C'è la pena di morte per chi aiuta schiavi e gladiatori a sottrarsi dal loro destino, lo sai. E non ci hai ancora detto come fuggire dalla cella.”
“Di questo mi occuperò io, non dovete preoccuparvi. Ora tu pensa a guarire. Vi ho procurato ancora muffe, camomilla e infuso di quei fiori rossi e della corteccia di salice.”
“Grazie nobile amico.” Si lascia sfuggire Siret dalle labbra e il capo dei gladiatori le stringe una mano sulla spalla mentre la dace ricambia il gesto.
Nei giorni successivi le ferite al capo riescono a rimarginarsi e quelle al ventre si riducono molto, e una mattina finalmente riesco a rivedere la luce esterna, mentre, insieme alla nostra squadra, ritorniamo al circo Massimo. Sono tutti stupiti di rivedermi ancora viva e controllano con rispetto le ferite ancora aperte degli artigli del leone sul mio ventre. Siret riprende ad allenarsi con il gruppo e si respira un'aria carica del profumo di fiori. Riesco già a camminare senza aiuto, ma non so se sono già in grado di cavalcare. L'ora della fuga si avvicina, ma il nostro protettore non ha più detto nulla per evitare di tradirsi.
Chiedo a Siret di raccogliere ancora arbusti e fiori di oleandro. Diremo alle guardie che vogliamo addobbare la nostra cella e profumarla di fiori e la dace si procura ancora rosmarino, menta e gelsomino.
Nei giorni successivi le ferite al ventre sembrano ormai quasi rimarginate e un pomeriggio, di ritorno dal circo, Quinto ci bisbiglia che la fuga dovrà essere anticipata a quella sera.
Marcius è ritornato e non ha accolto bene la notizia che siamo sopravvissute, soprattutto io, anche perchè era partito sicuro di ritrovare soltanto Siret nella cella.
Raccogliamo altri rami di oleandro mescolandoli al profumato rosmarino, mentre il nostro allenatore ci spiega di farci trovare sveglie e vestite per l'ora più profonda della notte. La mancanza di luna faciliterà la nostra fuga e solo all'ultimo ci verrà detto dove trovare l'ingresso delle catacombe dei discepoli di Paolo.
In cella consumiamo una frugale cena per tenerci leggere e veloci per la nostra fuga, ma quando cala il sole Marcius irrompe nella nostra cella preceduto da una delle sue guardie, tale Tarquinio.
Ci guarda con sprezzo senza commentare il fatto di ritrovarci vive, ma visibilmente contrariato.
“Che porcheria avete combinato qui, con tutti questi rami?” Ci redarguisce trovandosi in mezzo ai fiori e agli arbusti con cui abbiamo addobbato le pareti.
“È per dare un po' di profumo a queste celle che sanno di fogna, Marcius.” Spiega Siret, strisciandomi vicina.
“Voi due siete le fogne che impestano le celle, schiave!” Ci risponde lui e fa cenno a Tarquinio di avvicinarsi a me.
Lui mi punta un pugnale alla gola e con l'altra mano mi strappa la tunica da sopra il ventre scoprendomi fino al petto.
Il mio seno luccica di sudore alla luce della fiamma della torcia e il mio ventre, ancora coperto di uno strato di fiori e foglie di camomilla, si muove con il mio respiro mentre io resto in attesa di quello che mi può succedere. La guardia con la punta della lama smuove i vegetali e si sposta per mostrare le mie ferite al suo superiore.
Lui guarda con sdegno, perlustrando tutto il mio ventre, senza dimenticare di fissare a lungo il mio seno.
“Com'è che sei sopravvissuta, Keiko? Hai fatto un patto con qualche dio straniero?”
“Ho avuto fortuna, Marcius. Le ferite erano solo superficiali.”
La situazione è delicata: la nostra sopravvivenza, come la possibilità di fuga, sono legate a un filo.
Marcius avanza verso di me e con un calcio mi allarga le cosce. Con la punta di una spada mi sposta il perizoma e si perde a guardarmi il pelo del pube e la vulva. Con la lama mi sfiora il seno vedendomi sussultare al contatto tra il freddo metallo e i capezzoli.
Poi si rivolge alla mia compagna: “Tu, spogliati!”
Lei mi guarda impaurita, ma le faccio un cenno di ubbidire.
Basta sfilare la tunica da sopra una spalla e Siret si ritrova anch'ella nuda sotto la luce tremolante della torcia.
I due guardiani contemplano i nostri corpi nudi, mentre Marcius con la punta della sua arma ci tocca i seni e i capelli. “Vedremo stanotte se sei veramente guarita.” Pronuncia il comandante con una voce che tradisce l'eccitazione sessuale. “E questi li prendo io!”
Si avvicina ai ramoscelli che abbiamo usato per profumare la nostra dimora, ci guarda con sospetto, poi allunga le mani alle pareti e porta vie tutti gli arbusti di rosmarino. Ne fa un fascio e se lo avvicina al naso.
“Buono questo aroma, ma a voi non serve più.” Ed esce dalla cella seguito dal suo compare.
Appena quelli se ne sono andati noi due ci guardiamo preoccupate. Il piano rischia di saltare.
Ci adagiamo sui pagliericci, ma appena riteniamo che sia passato abbastanza tempo ci rialziamo per prendere i rami di oleandro rimasti, ignorati dalle due guardie. Con una pietra li maciniamo, buttando via le parti più dure e trattenendo il succo e la poltiglia delle cortecce e delle foglie e quando riteniamo di averne abbastanza ci mettiamo in attesa.
Ma Quinto non si fa vivo, o forse non è riuscito ad avvicinarsi, vedendo ancora Marcius nella guardiola all'ingresso del ludus.
Udiamo alcune volte il verso della civetta attraverso le feritoie della nostra cella, ma a quel segnale non fa seguito alcun avvenimento.
La situazione non si sblocca e allora incito Siret a cospargersi i seni e i capezzoli del succo dell'oleandro come faccio anch'io, riempendoci le vagine della poltiglia che abbiamo ottenuto con le foglie e le cortecce. La mia compagna esegue tutto quello che le indico, senza chiedere nulla.
“Attenta a non toccare questa roba con la bocca e se ci chiedono di baciarci, non toccarmi i capezzoli con la lingua. Ci baceremo solo sulle bocche. Capito?”
Lei annuisce impaurita, ma non abbiamo ancora finito di riempirci le cavità fra le gambe che sentiamo dei passi concitati avvicinarsi; la luce di una fiamma rende tremule le ombre del corridoio fuori dalla cella. Una porta in metallo viene chiusa e subito dopo compare Marcius con la spada sguainata sporca di sangue fresco.
“Razza di vipere, avevate tramato di scappare, non è vero?” Ci urla alzando la spada macchiata di rosso sopra di noi.
Io e Siret ci stringiamo al fondo della cella, mentre, protetta dalle ombre, lancio sotto la panca il resto della poltiglia degli oleandri.
Non pronunciamo alcuna parola, ma temiamo che chi doveva liberarci sia stato ucciso, e siamo preoccupate per lo stesso Quinto.
“Non dite nulla? Neanche quando state per morire?” Continua a urlare, mentre noi ci stringiamo una all'altra.
“Siamo nelle tue mani, Marcius.” Osa pronunciare Siret in tono sommesso.
“Sì, di fronte al dimostrato tentativo di fuga, posso uccidervi io stesso, qui, nella vostra cella, per esporre domani i vostri corpi agli altri gladiatori!”
“Lo sappiamo, Marcius, ma noi non eravamo al corrente di nulla.” Dico io guardandolo senza ostilità.
“Non vi credo, puttane!” Si arrabbia lui e alza la spada tenendola a due mani.
“Aspetta!” Siret lo ferma alzando una mano. Lui si arresta e rimane a fissarla.
"Keiko! Non pensavo che vi avrei di nuovo viste vive!"
"Quinto, sono messa male questa volta. Le ferite sono profonde."
Siret mi sta vicina e mi tiene la mano, piangendo sommessamente: "Siamo sopravvissute solo per un miracolo, ma a quale prezzo!" Singhiozza.
Il nostro allenatore si premura di trovarsi da solo nella nostra cella e prende la parola: "Non potete più stare qui. Qualcuno molto in alto vi vuole male e se ce l'avete fatta questa volta, troverà un'altra occasione per minacciare la vostra vita! Dovete scappare e sto escogitando un piano."
"Quinto, non hai capito", riesco a dire mentre mi coglie una stanchezza infinita, "io non so se ce la faccio a sopravvivere e potrei spegnermi in qualche giorno, fra sofferenze atroci."
Lui mi guarda e poi guarda la ragazza che al mio fianco non smette di tenermi la mano. Ma sembra non capire il mio messaggio: "Tu cerca di sopravvivere, io sto organizzando la tua fuga." Lo fisso rinunciando a insistere, poi accenno col capo alla mia compagna.
"Certo, anche la sua.” Si affretta ad aggiungere. “Qui dentro non dovete più stare, ma almeno, in queste condizioni, per il momento nessuno dovrebbe darti fastidio."
E con questo capisco che ha sistemato le cose anche con Marcius.
Cosa sia capitato tra i patrizi e i senatori mi è sconosciuto, anche se penso che in tutto questo ci sia la mano del capo della guarnigione qui al ludus. Eppure tutti i nobili sono sempre rimasti soddisfatti di me, quando mi hanno invitata nelle loro ville.
Ma tutto questo ora ha poca importanza.
"Quinto", pronuncio con un filo di voce, "Mi serve dell'acqua per lavarmi le ferite e anche una tunica pulita. Se mi prende un'infezione sarò morta in pochi giorni.”
Lui non dice più nulla. Fissa il suo sguardo su Siret, poi prende una decisione e si allontana. Nel pomeriggio arrivano acqua in quantità, cibo e una tunica pulita.
Per tutto il tempo Siret mi lava e mi accudisce, ma io sento una debolezza insostenibile attanagliarmi le membra e la febbre che sta salendo.
Nella notte penso di perdere coscienza. La febbre mi trasforma in una palla di fuoco. Siret mi bagna la fronte per raffreddarmi e per lenire il dolore alla testa che pulsa e sembra di voler scoppiare. Vomito, mi contorco in convulsioni e il mio ventre geme sangue e siero. Dico frasi senza senso e in una lingua che la dace non conosce e non riesce a capire, ma alla fine di un incubo infernale, la luce filtra dalle strette feritoie in cima ai muri che ci rinchiudono. In qualche modo sono sopravvissuta alla prima notte.
La donna dalle trecce rosse mi guarda e non smette di piangere, preoccupata e disperata.
"Non lasciarmi Keiko, non morire. Se tu muori io morirò due volte, prima per il dolore e poi perchè di sicuro senza di te mi uccideranno."
La guardo seria e non ce la faccio a sorridere, anche se mi sforzo di farlo. E non voglio mentirle dicendo che anche questa volta il mio fisico supererà l'ostacolo. Siamo due schiave, in una cella sporca, con qualcuno che vuole la nostra morte. Con queste ferite anche un ricco romano con i migliori medici e in una villa pulita e luminosa avrebbe poche possibilità di sopravvivere.
Il viso mi si è gonfiato dove sono stata penetrata dalle zanne del leone e la testa mi pulsa. Macchie viola mi sono comparse sotto gli occhi e dietro alle orecchie, e questo significa che le ossa dei mio cranio si sono scheggiate. La mia compagna mi guarda con un'espressione di terrore. I miei occhi sono infossati e vengo continuamente scossa dai brividi della febbre, la mia fronte è bagnata di sudore e la mia lingua impastata. Ma quando sposto la tunica per guardarmi la pancia che pulsa di dolore e che sembra voler scoppiare, trovo croste di sangue e bolle gialle di infezione. La situazione è più preoccupante di quanto io stessa prevedessi e se questa infezione si diffondesse difficilmente arriverei ad affrontare una nuova notte. Ho le labbra secche e non riesco a muovere neanche un dito, ma almeno la mente è lucida.
"Siret!" Riesco a bisbigliare con un filo di voce, la debolezza mi ha spento anche la voglia di parlare, ma ancora riesco a respirare bene.
Lei mi si avvicina, mi tiene le mani nelle sue e mi bacia la fronte.
"Io non so se..." comincio a pronunciare.
Ma lei mi interrompe toccandomi le labbra con il suo dito indice.
"Dimmi cosa devo fare, guerriera venuta dall'oriente, e io ti salverò!"
Mi sento mancare, ma di fronte alla sua determinazione e con la mente turbata dai presagi di ciò che le succederebbe se io morissi, cerco di farmi forza.
Un tentativo almeno posso cercare di farlo, ma avrò ancora bisogno di molto aiuto e troppa fortuna e temo che la mia buona sorte sia terminata, come le mie innumerevoli vite, bruciate rapidamente in pochi anni di combattimenti.
"Siret..." Lei si avvicina per sentire cosa bisbiglio. La voce mi ha abbandonata. "Ascolta molto bene."
Lei mi si inginocchio di fianco, la sua espressione è concentrata e convinta.
"Trova della corteccia di salice. Ho visto questi alberi sulla riva del Tiberis. Mi serve tanta corteccia. Dillo a Quinto. La corteccia va sbriciolata e scaldata sulla fiamma fino a farla annerire. Me ne serve tanta, devi fartela procurare. Chiedi a Quinto di trovare in dispensa delle arance ammuffite. Ce ne sono tante, ma me ne servono ancora di più. Quelle con le muffe bianche e verdi sono le migliori. Ne ho viste anche sulle zucche. Questa è la cosa principale, ne ho bisogno adesso e per i prossimi giorni, se non muoio prima." E intanto sento che le sue mani mi stringono a un braccio. Il silenzio è tremendo e il presagio della morte ci è compagno.
"Poi vai al circo Massimo; sai come sono i fiori di camomilla? Ecco, me ne servono tanti, e poi anche quei fiori dal colore rosso intenso. Non so se li sai riconoscere, chiedi ancora a Orazio, il mirmillone della nostra squadra. Lui sa di cosa parlo. Sono i fiori della digitale. Anche quelli mi servono, e le foglie. Trovami tutto e forse un tentativo di combattere la malattia potremo farlo. Ma dobbiamo trovare tutto!"
Siret si mette subito al lavoro, trova Quinto e riesce a comunicare con lui. Per fortuna Marcius è via qualche giorno, sicuro di trovare una persona in meno dopo questa sua breve trasferta altrove, e i pochi amici che ci sono rimasti trovano tutto quello che cerchiamo. La cosa più difficile da procurarci è però la corteccia di salice, ma in serata arriva anche questa.
Già dal pomeriggio, dopo aver lavato le ferite con impacchi di camomilla, applico le muffe sul ventre e sulle lesioni al volto. L'infuso di corteccia di salice invece è imbevibile, troppo amaro. Ma Quinto, su mia richiesta, mi procura dell'aceto che aggiungo al liquido nero, attenuandone il sapore disgustoso. Bevo anche qualche sorso dell'infuso di digitale.
“Che cosa sono questi impasti di muffe e cortecce, Keiko? Sei sicura che non ti faranno male?”
“Fidati, Siret. Se ho una possibilità, anche una sola, di sopravvivere, la posso coltivare grazie a queste muffe e alla corteccia di salice.”
“Dove hai imparato a conoscere le erbe e gli infusi?”
“Presso il popolo Han, una civiltà molto evoluta che ho conosciuto vicino alle terre dove sono nata. Conoscenze tramandate per più di mille anni, in una regione così a oriente che i romani non le hanno neanche dato un nome, ben oltre i confini più estremi delle Indie.”
Le energie mi formicolano nel corpo già dopo le prime ore dall'inizio dei miei trattamenti. L'infuso di corteccia mi ha tolto la febbre e il dolore e la digitale mi ha dato nuove forze. Dobbiamo solo sperare che le muffe riescano a eliminare quella crema gialla e dall'odore di morte che mi si forma in continuazione sulle ferite.
“E com'è la tua terra, Keiko. Cosa ti ricordi dei posti in cui sei nata?”
“Poco, donna della Dacia. Ricordi confusi di una bambina che a cavallo sfidava i maschi in gare di velocità e di forza, vincendole tutte. Nella mia mente scorrono spesso immagini di alberi in fiore, coperti di petali di un rosa lievissimo, quasi candidi, come la tua pelle. Primavere tra i fiori di pesco, rosa come i tuoi capezzoli, e frutti di melograno rossi come le tue labbra. Voli di uccelli dal petto come i tuoi capelli e melodie antiche fiorite da strumenti di cui ho scordato il nome. Verdi distese di tè frammiste a siepi di gelsomino e un vento tiepido che cantava canzoni con le onde del mare.”
“Mi porterai un giorno in questa terra di miele e di latte, dolce guerriera dai capelli neri e vivaci come giovani puledri selvaggi?”
Sorrido alla mia amica e compagna, mentre lei si avvicina per baciarmi sulle labbra. Il suo alito profuma di salvia e menta, erbe che le ho insegnato a usare per lavarci e profumarci e per addolcire l'odore dei nostri corpi. Sorrido e non prometto nulla, mentre, da forte e valorosa, mi faccio di nuovo bambina tra le sue braccia, rannicchiandomi sul tepore del suo soffice ventre. Lei mi canta una canzone della sua terra mentre mi abbandono a un sonno profondo, sperando di rivederla quando sarà giunto il nuovo giorno.
Nella notte Siret mi cambia le medicazioni con le muffe di arancia, lavandomi ogni volta con l'infuso di camomilla e quando mi risveglio mi sento come rinata.
Il dolore alla testa si impadronisce nuovamente di me, mentre ancora perdo sangue dal naso e dalle orecchie, ma meno rispetto ai giorni scorsi. La mia compagna mi aiuta a bere l'infuso di salice e dopo poco il dolore mi passa.
Le ferite al volto e al ventre sono miracolosamente deterse, le muffe hanno compiuto il prodigio. Riesco a mangiare frutta e carne, devo recuperare il sangue perduto e le forze. Ma devo proseguire con le muffe per consolidare il risultato che, insperato, siamo riuscite a ottenere.
In mattinata Quinto ci raggiunge con una cesta di scorze d'arancia ammuffite trovate nei mercati di tutta Roma. Resta stupefatto del risultato ottenuto finora e delle condizioni in cui mi trova, sorridente e seduta a mangiare, e si ferma a farci compagnia.
“Sai, Keiko, il vostro combattimento con il leone ha destato molto stupore. Nessuno avrebbe scommesso sulla vostra pelle.”
“Grazie Quinto, ma credo che la prossima volta non ce la potremo cavare e devo ancora consolidare la mia guarigione, non sono ancora fuori pericolo.”
“È lì che volevo arrivare. Statemi bene a sentire. Appena riuscirai a muoverti dovrete fuggire dalla cella. Ho trovato un posto in cui nascondervi. Vi indicherò dove recarvi. Vi accoglieranno in nascondigli sotterranei; dovrete chiedere dei discepoli di Paolo, un giudeo ucciso qui a Roma molto tempo fa, che ha lasciato proseliti di una nuova religione. Si ritrovano in buie catacombe: loro hanno promesso di aiutarvi.”
“Ma Quinto, chi vuoi che aiuti due schiave fuggitive, ricercate dai pretoriani, se anche riuscissimo a fuggire. C'è la pena di morte per chi aiuta schiavi e gladiatori a sottrarsi dal loro destino, lo sai. E non ci hai ancora detto come fuggire dalla cella.”
“Di questo mi occuperò io, non dovete preoccuparvi. Ora tu pensa a guarire. Vi ho procurato ancora muffe, camomilla e infuso di quei fiori rossi e della corteccia di salice.”
“Grazie nobile amico.” Si lascia sfuggire Siret dalle labbra e il capo dei gladiatori le stringe una mano sulla spalla mentre la dace ricambia il gesto.
Nei giorni successivi le ferite al capo riescono a rimarginarsi e quelle al ventre si riducono molto, e una mattina finalmente riesco a rivedere la luce esterna, mentre, insieme alla nostra squadra, ritorniamo al circo Massimo. Sono tutti stupiti di rivedermi ancora viva e controllano con rispetto le ferite ancora aperte degli artigli del leone sul mio ventre. Siret riprende ad allenarsi con il gruppo e si respira un'aria carica del profumo di fiori. Riesco già a camminare senza aiuto, ma non so se sono già in grado di cavalcare. L'ora della fuga si avvicina, ma il nostro protettore non ha più detto nulla per evitare di tradirsi.
Chiedo a Siret di raccogliere ancora arbusti e fiori di oleandro. Diremo alle guardie che vogliamo addobbare la nostra cella e profumarla di fiori e la dace si procura ancora rosmarino, menta e gelsomino.
Nei giorni successivi le ferite al ventre sembrano ormai quasi rimarginate e un pomeriggio, di ritorno dal circo, Quinto ci bisbiglia che la fuga dovrà essere anticipata a quella sera.
Marcius è ritornato e non ha accolto bene la notizia che siamo sopravvissute, soprattutto io, anche perchè era partito sicuro di ritrovare soltanto Siret nella cella.
Raccogliamo altri rami di oleandro mescolandoli al profumato rosmarino, mentre il nostro allenatore ci spiega di farci trovare sveglie e vestite per l'ora più profonda della notte. La mancanza di luna faciliterà la nostra fuga e solo all'ultimo ci verrà detto dove trovare l'ingresso delle catacombe dei discepoli di Paolo.
In cella consumiamo una frugale cena per tenerci leggere e veloci per la nostra fuga, ma quando cala il sole Marcius irrompe nella nostra cella preceduto da una delle sue guardie, tale Tarquinio.
Ci guarda con sprezzo senza commentare il fatto di ritrovarci vive, ma visibilmente contrariato.
“Che porcheria avete combinato qui, con tutti questi rami?” Ci redarguisce trovandosi in mezzo ai fiori e agli arbusti con cui abbiamo addobbato le pareti.
“È per dare un po' di profumo a queste celle che sanno di fogna, Marcius.” Spiega Siret, strisciandomi vicina.
“Voi due siete le fogne che impestano le celle, schiave!” Ci risponde lui e fa cenno a Tarquinio di avvicinarsi a me.
Lui mi punta un pugnale alla gola e con l'altra mano mi strappa la tunica da sopra il ventre scoprendomi fino al petto.
Il mio seno luccica di sudore alla luce della fiamma della torcia e il mio ventre, ancora coperto di uno strato di fiori e foglie di camomilla, si muove con il mio respiro mentre io resto in attesa di quello che mi può succedere. La guardia con la punta della lama smuove i vegetali e si sposta per mostrare le mie ferite al suo superiore.
Lui guarda con sdegno, perlustrando tutto il mio ventre, senza dimenticare di fissare a lungo il mio seno.
“Com'è che sei sopravvissuta, Keiko? Hai fatto un patto con qualche dio straniero?”
“Ho avuto fortuna, Marcius. Le ferite erano solo superficiali.”
La situazione è delicata: la nostra sopravvivenza, come la possibilità di fuga, sono legate a un filo.
Marcius avanza verso di me e con un calcio mi allarga le cosce. Con la punta di una spada mi sposta il perizoma e si perde a guardarmi il pelo del pube e la vulva. Con la lama mi sfiora il seno vedendomi sussultare al contatto tra il freddo metallo e i capezzoli.
Poi si rivolge alla mia compagna: “Tu, spogliati!”
Lei mi guarda impaurita, ma le faccio un cenno di ubbidire.
Basta sfilare la tunica da sopra una spalla e Siret si ritrova anch'ella nuda sotto la luce tremolante della torcia.
I due guardiani contemplano i nostri corpi nudi, mentre Marcius con la punta della sua arma ci tocca i seni e i capelli. “Vedremo stanotte se sei veramente guarita.” Pronuncia il comandante con una voce che tradisce l'eccitazione sessuale. “E questi li prendo io!”
Si avvicina ai ramoscelli che abbiamo usato per profumare la nostra dimora, ci guarda con sospetto, poi allunga le mani alle pareti e porta vie tutti gli arbusti di rosmarino. Ne fa un fascio e se lo avvicina al naso.
“Buono questo aroma, ma a voi non serve più.” Ed esce dalla cella seguito dal suo compare.
Appena quelli se ne sono andati noi due ci guardiamo preoccupate. Il piano rischia di saltare.
Ci adagiamo sui pagliericci, ma appena riteniamo che sia passato abbastanza tempo ci rialziamo per prendere i rami di oleandro rimasti, ignorati dalle due guardie. Con una pietra li maciniamo, buttando via le parti più dure e trattenendo il succo e la poltiglia delle cortecce e delle foglie e quando riteniamo di averne abbastanza ci mettiamo in attesa.
Ma Quinto non si fa vivo, o forse non è riuscito ad avvicinarsi, vedendo ancora Marcius nella guardiola all'ingresso del ludus.
Udiamo alcune volte il verso della civetta attraverso le feritoie della nostra cella, ma a quel segnale non fa seguito alcun avvenimento.
La situazione non si sblocca e allora incito Siret a cospargersi i seni e i capezzoli del succo dell'oleandro come faccio anch'io, riempendoci le vagine della poltiglia che abbiamo ottenuto con le foglie e le cortecce. La mia compagna esegue tutto quello che le indico, senza chiedere nulla.
“Attenta a non toccare questa roba con la bocca e se ci chiedono di baciarci, non toccarmi i capezzoli con la lingua. Ci baceremo solo sulle bocche. Capito?”
Lei annuisce impaurita, ma non abbiamo ancora finito di riempirci le cavità fra le gambe che sentiamo dei passi concitati avvicinarsi; la luce di una fiamma rende tremule le ombre del corridoio fuori dalla cella. Una porta in metallo viene chiusa e subito dopo compare Marcius con la spada sguainata sporca di sangue fresco.
“Razza di vipere, avevate tramato di scappare, non è vero?” Ci urla alzando la spada macchiata di rosso sopra di noi.
Io e Siret ci stringiamo al fondo della cella, mentre, protetta dalle ombre, lancio sotto la panca il resto della poltiglia degli oleandri.
Non pronunciamo alcuna parola, ma temiamo che chi doveva liberarci sia stato ucciso, e siamo preoccupate per lo stesso Quinto.
“Non dite nulla? Neanche quando state per morire?” Continua a urlare, mentre noi ci stringiamo una all'altra.
“Siamo nelle tue mani, Marcius.” Osa pronunciare Siret in tono sommesso.
“Sì, di fronte al dimostrato tentativo di fuga, posso uccidervi io stesso, qui, nella vostra cella, per esporre domani i vostri corpi agli altri gladiatori!”
“Lo sappiamo, Marcius, ma noi non eravamo al corrente di nulla.” Dico io guardandolo senza ostilità.
“Non vi credo, puttane!” Si arrabbia lui e alza la spada tenendola a due mani.
“Aspetta!” Siret lo ferma alzando una mano. Lui si arresta e rimane a fissarla.
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