Lyskamm

Scritto da , il 2021-03-26, genere saffico

La sveglia.
Tenuta al volume minimo per non svegliare tutto il rifugio, eppure con quel suono odioso fatto apposta per interrompere il sonno più piacevole e disteso.
Sistematicamente ti desta nel momento più profondo e appagante.
Si dorme male al rifugio Gnifetti, a 3647 metri, di fronte ai ghiacciai del Monte Rosa.
La quota, la nausea, il mal di testa. E tutti i rumori del rifugio, la gente che russa, chi si alza per andare in bagno, chi vomita a causa dell'altitudine.
Le due di notte: l'orario per chi si avventura in vie difficili e lunghe, la punta Dufour, la cresta Rey e altre.
Junko ha in programma di affrontare la parete nord del Lyskamm. In genere per questo difficile percorso ci si sveglia a mezzanotte per partire dal rifugio, ma Junko sarà da sola e pertanto molto più veloce, potendo permettersi un paio di ore di sonno in più.
La giapponese armeggia con la pila frontale, raduna rapidamente i suoi vestiti pesanti ed esce rapida dallo stanzone ancora profondamente impregnato di sonno. Qualcun altro si è svegliato, diretto alla Dufour, la cima più elevata del Rosa, a 4633 metri.
Rapida colazione giù nella stanza adibita a mensa. Tè caldo, fette biscottate e marmellata. Sostanze zuccherine per avere energia per la lunga ascensione in quota.
Parole sommesse ed essenziali tra gli altri pochi alpinisti già svegli. Il gestore del rifugio, paziente, prepara le altre colazioni.
La nord del Lyskamm, un sogno coltivato da anni. 700 metri di parete inclinata a 60°. uno sdrucciolo di ghiaccio che culmina a 4527 metri. In altezza il Lyskamm è la quinta cima del massiccio del Monte Rosa, ma come difficoltà è fra le più difficili, soprattutto per il versante nord. Un duro lavoro di polpacci e di picozze, senza mai un attimo di sosta, sempre in equilibrio sulle punte dei ramponi, ed un avvicinamento infinito. L'asiatica è da sola e non si perde in chiacchiere. Si lava i denti con l'acqua ghiacciata del bagno, prepara rapida lo zaino, stringe gli scarponi doppi da alta quota e vi aggancia gli affilati ramponi da ghiaccio a 12 punte, ed è già fuori dal rifugio.
Sarà velocissima. Essendo da sola porterà uno zaino leggero, senza corda né chiodi da ghiaccio, non avendo nessuno da assicurare o da cui farsi assicurare in caso di caduta; solo due o tre moschettoni.
Controlla il filo scorrendo il dito sull'acciaio delle due picozze e dei ramponi.
Ecco, non deve assolutamente cadere. Senza corda e senza compagni di scalata, una caduta sarebbe mortale, scivolando sullo sdrucciolo ghiacciato fino alla base della parete.
Ma il pericolo più grande saranno i crepacci nei ghiacciai che dovrà attraversare sia in salita che in discesa. Il rischio che un ponte di neve ceda facendola precipitare nelle profonde bocche nere che talvolta si aprono nei ghiacciai è significativo.
Deve essere veloce per trovare neve ghiacciata che non ceda sotto il suo peso.
In lontananza, lassù verso il colle del Lys, scorge delle luci che tremolano incerte. Qualche alpinista è già partito prima ed ora si affanna sopra i 4000 metri.
Speriamo di essere da sola in parete, pensa Junko. Avere gente che scala una parete di ghiaccio al di sopra significa essere bombardata di continuo da frammenti e scaglie di ghiaccio, col rischio di ferirsi e di cadere.
Una rapida occhiata verso valle. La pianura padana è ancora avvolta nelle tenebre più buie, ma, come aloni verdastri in lontananza, perduti nelle tenebre si riconoscono i bagliori della principali città.
Verso nord il ghiacciaio del Lys, che dal rifugio sale al colle verso le cime principali, dorme silenzioso, come un drago adagiato nella sua tana. Una mezza luna sta calando, ma illumina ancora in modo prodigioso la candida distesa ghiacciata. La giovane alpinista potrà forse salire senza impiegare la lampada frontale.
Dalla terrazza alle spalle del rifugio, si inoltra con circospezione sui primi metri di ghiacciaio. Le punte dei ramponi penetrando nella neve ghiacciata stridono in modo sinistro, ma il rumore dà sicurezza e Junko parte con passo deciso verso i 4151 metri del colle del Lys. Da lì dovrà discendere lungo il ghiacciaio del Grentz, in territorio svizzero, per raggiungere la base della parete del Lyskamm che vuole sfidare.
L'aria gelida ferisce la gola ed irrita le narici. Occorre qualche minuto per scaldarsi e ingranare col passo giusto.

Sono già le 4 quando si sveglia la maggior parte della gente rimasta al rifugio. La maggioranza delle comitive, dirette alla punta Gnifetti, inizia a muoversi a quest'ora. La meta è la capanna Margherita, a 4554 metri. Il rifugio più alto d'Europa. Lunga camminata in quota seguendo una buona traccia sul ghiacciaio, passando dallo stesso colle del Lys a cui è diretta Junko.
Emma si alza stiracchiandosi dopo una notte quasi insonne. Anche lei è diretta alla capanna in cima al Monte Rosa, ma essendo da sola, si è aggregata ad un gruppo di alpinisti conosciuti la sera prima. Si legherà alla loro cordata e faranno la salita insieme.
Emma è alla sua prima esperienza in alta quota, ma non essendo riuscita a trovare compagni di salita, seguendo il consiglio di amici, ha raggiunto comunque il rifugio cercando lì sul posto i compagni per il giorno dopo.
Ben allenata ed equipaggiata non sarà di peso alla cordata dei nuovi amici.
Legata la corda alle imbragature, la comitiva si avventura sul ghiacciaio quando ad oriente comincia ad apparire un bagliore che sfuma verso il blu della notte.

Junko è già oltre il colle, in discesa verso la base della parete. Le prime luci fiammeggiano sulle rocce arancioni della punta Dufour, la seconda vetta più alta delle Alpi.
La luce rossa dell'alba tinge di rosso le rocce, che contrastano contro le sfumature azzurre dei ghiacciai. Il cielo, a questa quota ridotto ad uno strato sottile di aria verso lo spazio siderale, è blu scuro, con una sfumatura metallica.
L'alpinista ha individuato il percorso che aggira i crepacci della lingua di ghiaccio che con lentezza maestosa scivola impercettibilmente facendosi inghiottire dalle valli, di un colore verde cupo, quasi misterioso.
Mentre la cordata di Emma supera il colle, Junko attacca la ripida scala argentata. Il sole si riflette sugli scivoli azzurri, ferendole dolorosamente lo sguardo. Un immenso specchio di 700 metri che magnifica la radiazione solare.
Superata la crepaccia terminale, Junko inizia un duro e monotono lavoro di polpacci.
La pendenza si fa subito massimale. Le due picozze feriscono il ghiaccio, facendo esplodere la parete di schegge argentate che, infiammate dalla luce del sole, schizzano ad ogni colpo, come le scintille incandescenti dal lavoro di flessibile di un operaio metalmeccanico.
Con leggerezza le quattro punte frontali penetrano nella parete.
La donna sale decisa sfiorando solo la superficie, come la brezza leggera intorno a lei, che dipinge i contorni del ghiaccio rendendoli tremuli ed indistinti.
Equilibrio e velocità, saper dosare le energie.
Ormai arrampica già in alto sul pendio di vetro azzurrino.
La pendenza continua del pendio altera la concezione delle linee orizzontali. Lo sguardo sfugge e non riesce a trovar riposo sulla benchè minima superficie piatta. Le linee precipitano indistintamente verso il fondo del ghiacciaio dando a Junko un vago senso di nausea.
Ma forse è la quota e la fatica dello sforzo continuo.
Ogni tanto fitti coltelli le penetrano nei polpacci interrompendo il suo ritmo.
Allora con la picozza scava una piccola piazzola e si ferma in equilibrio per ripristinare la circolazione nei muscoli delle gambe.
Si guarda in giro, l'alpinista solitaria. Al suo fianco una sequenza di roccette interrotte da salti ghiacciati. La vaga cresta su cui si svolge un itinerario più facile.
La neve è di un bagliore abbagliante e il sole le cuoce la pelle.
Lo sguardo spazia sulla cattedrale di cime ghiacciate dagli affilati profili. Laggiù in fondo, il serpente nero delle comitive che si dirigono alla capanna Margherita.
Riprende il fiato.
Poi di nuovo si consegna alla parete ed alla monotona sequenza di movimenti muscolari ripetuti un'eternità di volte.
'Pianta le picozze,
difenditi dalle schegge di ghiaccio,
muovi i tuoi rapidi passettini sulle punte dei ramponi,
come una ballerina del corpo di ballo della Scala.
Il tuo tutù è costellato di diamanti di ghiaccio.
Il vento è solo una brezza che ti dà ristoro in questa fornace di specchi.
I capelli ti sfuggono da sotto il caschetto da montagna raccogliendo le lusinghe del vento.
Respiri profondamente,
l'aria rarefatta di asciuga gli alveoli lasciandoti insoddisfatta la fame d'aria.
Il cuore di sventra le tempie,
battiti impazziti come tamburi tribali
coprono il suono dell'acciaio che sfida gli scivoli eterni.'

Emma si aggira dentro la capanna, sulla cima della punta Gnifetti. Le tre ore che hanno impiegato per raggiungere la loro meta sono un buon tempo, anche se non eccezionale ed ora lo sguardo precipita inghiottito dal baratro che si apre sotto i suoi occhi sul versante ossolano della grande montagna.
Sfidando le regole della prudenza si è separata dalla cordata che l'ha accompagnata alla cima, già ripartita per discendere prima che il ghiaccio perda consistenza.
Lei si concede un tè ed un ampio giro di foto.
Da questo palcoscenico il suo sguardo dipana un tripudio di cime di roccia e di ghiaccio.
La grigia piramide del Cervino fa da vassallo alla eburnea parete del Lyskamm, proprio di fronte a lei. Un'onda trasformata in ghiaccio da un dio dispettoso. Alla sommità le pericolosissime cornici di neve sporgono come unghie ritorte dalle sfumature azzurrine.
Le terribili cornici che hanno giustificato il macabro soprannome di “mangiatore di uomini” alla scintillante ed elegante cima del Lyskamm.
Un alito di vento porta il sussurro delle cordate precipitate in tanti passati decenni di scalate e di lotte sulle fragili meringhe di ghiaccio, dall'aspetto solido e promettente e dai terribili tradimenti.
Non è ancora troppo tardi quando, seguendo a breve distanza un'altra comitiva, Emma affronta la discesa su ghiaccio ancora duro.
Sotto il pendio che sostiene la cima, occorre risalire poche decine di metri attraversando sotto la punta Parrot, per guadagnare nuovamente il colle del Lys che convoglia le cordate verso la sicurezza del rifugio più a valle.
Alcune grosse nubi di vapore si condensano di fronte ai suoi passi.
Quelle candide architetture che assomigliano a splendidi cavolfiori quando le si rimira sulle cime lontane, stando immersi nel bagno di luce solare.
Ma ora Emma c'è in mezzo e la nube l'ha avvolta fondendosi col biancore dei ghiacci.
Non si vede più nulla. Non si distingue neanche il limite tra ghiaccio e nube.
La cordata davanti a lei è stata inghiottita dall'ovatta e lei non riesce a ritrovare la traccia.
Poco male. Basta aspettare che la nube si risollevi, o che passi la prossima cordata per unirsi a nuovi compagni.
Ma passa il tempo ed Emma resta sempre più sola.
Le cordate a monte, vista la coltre nebbiosa, sono risalite al rifugio sulla cima ed ora, anche se la temperatura si sta alzando rendendo molle e pericolosa la neve, una fastidiosa brezza comincia a sferzarla di aghi fatti da cristalli di neve condensati.
Presto la massa di zucchero filato si trasforma in una bufera di neve.
Palline di polistirolo ghiacciato feriscono il volto di Emma impedendole di vedere la traccia, ormai invasa dalla tempesta. La donna non può neanche togliere gli spessi occhiali da ghiacciaio per cercare un punto di riferimento, un accenno di traccia, per progredire verso la salvezza celata tra le pareti di larice del rifugio.
Cerca di muoversi a memoria. Sulla destra dovrebbero trovarsi le rocce che portano alla cresta della via normale di discesa dal Lyskamm, a sinistra la Piramide Vincent e dritto davanti a lei la via di salvezza. Basta solo stare attenta ai crepacci.
Muove qualche passo, i suoi ramponi scivolano sulla neve che si è raccolta rapidamente sotto i suoi piedi, formando un insidioso zoccolo tra le punte d'acciaio.
Prima o poi finirà anche questo temporale, pensa Emma, per sviare il pensiero dall'idea che sta per essere presa dal panico.
E se invece non dovesse smettere?
Un altro passo, un altro ancora. Emma scivola e si ritrova seduta sulla neve. “Merda!”
Scendere per la via più ripida?
Ma così finirebbe fuori dalla giusta direzione. La via corretta percorre un ampio contorno sotto le pareti della Piramide Vincent, prima di scendere al rifugio Gnifetti.
L'alpinista prova a tenersi sulla sinistra. Alcuni passi incerti.
Il manico della picozza sbatte contro i ramponi con suono metallico. Bisogna percuotere gli attrezzi per staccare l'insidioso zoccoletto di neve che vanifica la presa delle punte dei ramponi.
Si scivola troppo.
Emma comincia a sferrare consistenti colpi di calcagno, per affondare bene i piedi nella neve inconsistente. Il ghiaccio sotto la neve fresca rischia di trasformare la discesa in una pericolosa ed inarrestabile scivolata.
La nebbia è così densa e viscosa che presto Emma si ritrova avvolta in una semioscurità dall'aspetto inquietante. Qui non potrà trovarla nessuno.
Lo concentrazione moltiplica lo sforzo mentre la neve comincia ad inzuppare il duvet della donna.
Ancora un passo ed Emma sente mancarle il terreno sotto i piedi.
Caccia un urlo che viene inghiottito dall'ovatta, e si ritrova appoggiata con i gomiti ed il seno alla superficie nevosa. Le gambe brancolano nel vuoto sotto lo strato di ghiaccio che ha arrestato la caduta.
Un respiro concitato si impadronisce del suo corpo, sfuggendo al suo controllo.
“Cala, Emma, stai calma e non muoverti troppo!”
Adagia le picozze di lato facendo forza sui manici per aumentare la superficie di appoggio e si tira fuori dal buco nella neve.
Là dove era infilato il suo corpo, nell'oscurità incipiente, scorge un insondabile buco nero.
Si è spostata troppo fuori dalla traccia, o forse la temperatura è aumentata ed ora Emma ha sfondato un effimero ponte di neve su un pericoloso crepaccio.
La donna decide di ritornare sui suoi passi per ritrovare la giusta via di discesa, ma nella nebbia perde l'orientamento e presto non sa più in che direzione andare.
Vorrebbe fermarsi ad aspettare che passi la bufera, che si presenti una schiarita anche temporanea per ritrovare l'orientamento, ma la neve le si sta appiccicando addosso, le si scioglie sugli indumenti, le si infila tra cappellino e colletto e comincia a colarle lungo il collo, sulla schiena.
Muoversi col rischio di perdersi ancora di più? Scivolare lungo il ripido pendio fuori dalla giusta direzione? Precipitare in un crepaccio rompendo un ponte di neve?
Sa che più si sposta a casaccio e più sarà difficile trovare qualcuno, o farsi trovare da chi, preoccupato, magari la sta già cercando.
Eppure, aspettare significa abbandonarsi alla tempesta di neve e morire assiderata.
Emma viene scossa dai brividi. Si ferma sedendosi sconfitta sulla neve, cercando di coprirsi il volto ed il collo da questi terribili proiettili di neve che non la risparmiano neanche un secondo.
Si ritrova presto a piangere sommessamente.
Ora che qualcuno si muoverà per cercarla, sarà sepolta dalla neve o dilaniata dal freddo.
Si rannicchia stringendosi dentro il cappuccio della giacca a vento, ormai fradicio di freddo.
Forse si addormenta e forse sogna, ma ad un certo punto le sembra che le sferzate della neve ghiacciata assumano una cadenza innaturale.
Soffoca gli ultimi singulti di pianto che le ostacolano la percezione e si mette in ascolto.
Sembra che dei passi si muovano sul ghiacciaio.
Passi di qualcuno che forse la sta cercando? Ma questa è un'evenienza del tutto irreale. Chi si muoverebbe nella nebbia e in una tempesta in alta quota?
“Hey! C'è qualcuno? Sono qui! Mi sono persa!” Grida senza sapere da che parte rivolgere l'accorato appello.
Ma solo il fischio del vento le risponde.
Solo un'illusione data dallo scoramento, dal panico.
Non si sente più alcun suono di passi.
“Aiuto! Ho bisogno di aiuto!” Grida ancora dandosi della stupida per non aver pensato prima a chiamare qualcuno. Forse prima sarebbe stato più facile trovarla ed ora non sarebbe in questa tremenda situazione imperlata di presagi di morte.
Sente un urlo? Di nuovo il rumore dei passi?
Solo fantasie. È l'ululato della tempesta che ha ripreso con forza e ha cancellato anche tutti i miraggi di un'altra presenza.
“Aiuto!” piange, senza finire la parola, e ritorna a piegarsi su di sé, seduta nella neve, aspettando solo di non farcela più.
“Ohooo!”
E no! Questo l'ha sentito davvero. Questa volta non si sbaglia. Un urlo da qualche parte.
Emma si alza, si sbraccia. Il suo piumino rosso e giallo si deve pur vedere anche nella nebbia! L'ha scelto apposta per essere visibile in montagna, in caso di bisogno!
“Aiuto, aiuto, aiuto! Sono qui!”
Nulla prende vita. Un tuono secco e violento, come il rumore di una spessa asse di legno che viene spezzata da una forza prodigiosa le prosciuga ogni speranza.
Dopo il tuono la tormenta riprende vigore sferzandola con una violenza tale che Emma non riesce neanche più a percepire le sue urla di aiuto e di paura.
Urla di terrore, la giovane alpinista, stringendo le mani inguantate alle orecchie, per non sentire più quel terribile suono che le sembra una pugnalata, che le trafigge il petto, lacerandole ogni speranza.
La neve le si scioglie addosso, un piccolo gelido rivo le scorre sulla schiena risucchiandole l'anima e la vita.
Scossa dai brividi cade in ginocchio.
“Che ci fai qui?” Una manata del tutto inattesa da dietro, sulla spalla, e una frase urlata sopra i gemiti della tempesta la fanno sobbalzare con un urlo di terrore.
Si gira, Emma, e si lascia cadere tra le braccia di uno sconosciuto. Scoppia a piangere, urla il suo terrore, la sua disperazione, la sua sofferenza.
Non c'è nessuna risposta da dare, nessuna spiegazione più esplicita.
“Mi sono persa, aiuto, sto morendo!” si lascia andare in frasi inutili, come insensata era la domanda che l'ha fatta sussultare.
Junko le prende le mani, gliele scosta dal volto per farsi vedere in faccia.
Un volto bruciato dal sole, nascosto quasi interamente sotto un cappuccio incrostato di ghiaccio, occhiali neri coperti da neve ed acqua, un foulard sulla bocca e sul collo.
La figura urla qualcosa, ma Emma non sente, pur trovandosi in faccia allo sconosciuto.
Junko le solleva il cappellino zuppo di acqua e di neve, si avvicina e scandisce poche urla all'orecchio: “Ora ti porto fuori di qui!”
Una donna! Emma ha riconosciuto il timbro della voce di una donna. Un angelo.
Eppure stupidamente si sente venir meno, aspettandosi la robusta voce di un uomo.
Ma è solo un istante. L'alpinista comparsa dalle nebbie e dalla tormenta è una divinità mandata dal cielo, a trovare lei, Emma, a tirarla fuori da quell'inferno in cui si è persa. Ed è solo un miracolo, un'evenienza del tutto irrealistica, essere stata trovata in quella nebbia buia, in quel ghiacciaio smisurato.
Ma Junko non è arrivata per intrattenersi in spiegazioni o conversazioni.
Con piglio deciso prende una direzioni in salita, alle spalle di Emma.
'Ma dove sta andando questa?' riesce solo a pensare l'italiana cedendo allo sgomento, riconoscendo la direzione presa del tutto errata.
Eppure non se la sente di obiettare, non ne ha neanche più la forza. Ora non è più da sola, e qualunque cosa capiterà ci sarà qualcuno ad aiutarla. Qualcuno sicuramente più esperto di lei.
Decide quindi di abbandonarsi in totale fiducia alla sua salvatrice.
Deve solo trovare la forza di camminare, rialzarsi e rimettersi a salire dietro questa figura emersa dal nulla.
“Ce la fai a sa-li-re?” Le urla Junko all'orecchio, ritornata sui suoi passi vedendo di non essere seguita.
“Sìììì!”
L'urlo viene inghiottito da un nuovo tuono. Ma il gesto di assenso che lo ha accompagnato è stato eloquente.
Junko le prende la mano, muove i primi passi tirandosi dietro la compagna, poi procede più spedita lasciando la presa.
'Coraggio Emma' pensa l'altra dentro di sè, 'non mollare questa donna venuta dal cielo, è la tua salvezza!'
A breve distanza le due alpiniste proseguono arrancando nella tempesta.
Junko si piega spesso sulla picozza impiantata col puntale, per resistere alle raffiche del vento, mentre Emma si fa scudo del corpo della giapponese, decisa a tirare fuori tutte le sue energie per non perdere il contato con la donna.
Capisce che devono muoversi e farlo velocemente, se vogliono tirarsi fuori dalle pesti senza soccombere sotto le sferzate della tormenta.
Junko sale decisa, battendo una traccia convincente nella neve ormai fonda, agevolando così, enormemente, la progressione della compagna.
Una salita interminabile ed insensata pensa Emma. Ma ormai ha deciso che ogni possibilità di salvezza dipende dalla donna comparsa dalle nebbie.
Le due si dirigono verso una macchia scura che si delinea nella neve, raggiungendo presto alcune rocce emergenti.
“È la Roccia della Scoperta!” Urla Junko in una breve pausa della tormenta.
Emma la guarda sgomenta. Quelle rocce sono completamente fuori dall'itinerario che stava percorrendo lei, su cui pensava di trovarsi, prima di perdersi nella bufera.
Solo alcune roccette a 4178 metri, sulla via normale di salita al Lyskamm. Possibile che sia finita così fuori rotta? O questa figura la sta portando da tutt'altra parte?
Emma si sente presa dall'angoscia, ma non può fare altro che fidarsi di questa sconosciuta, da sola finirebbe sicuramente morta in breve tempo e di fatto, deve riconoscere, almeno si trovano in un punto ben definito. Insomma, questa persona sa come e dove muoversi, sa il fatto suo.
Decide una seconda volta di fidarsi e di fare qualunque cosa l'altra le proporrà.
'Ma che fa questa?' Si chiede contraddicendo con un nuovo pensiero il proposito che si è appena imposta di seguire.
Junko si è inginocchiata ai piedi delle rocce, sembra che preghi, china, il volto vicinissimo alle pietre.
'Il tempo passa e questa non si muove!' Emma si avvicina all'alpinista e le sembra di sentirla parlare. Ma sì, questa matta sta parlando alle rocce! Addirittura si toglie un guanto e si mette ad accarezzarle. Nella tempesta, momentaneamente ridotta di intensità, Emma percepisce nettamente un idioma incomprensibile rivolto con dolcezza alla rigida superficie incrostata di ghiaccio.
'Ma che fa? Che dice, questa?' L'abbattimento le ritorna di colpo, violento e impietoso, proprio adesso che cominciava a sperare nella salvezza. Si lascia cadere sulle ginocchia, sprofondando nella neve.
“Di là!” si rialza Junko decisa, riprendendo il passo.
“Di là che cosa?” le urla Emma di rimando, senza capire.
“Di là!” ripete soltanto la giapponese, con un franco gesto del braccio che non lascia dubbi, senza dilungarsi in spiegazioni. La tempesta ha ripreso il suo corso. Una bufera tenace, una tormenta che non ti lascia scampo, che di corrode ogni resistenza, ogni speranza.
Ma ora Emma ha ripreso fiducia. La sua compagna si muove in piano, ha smesso di salire e sembra molto ben orientata. Comunque lei, Emma, non ha veramente altra scelta ed ora si vergogna di aver dubitato di quella strana donna che parla ed accarezza le rocce.
La tormenta vomita addosso alle due donne migliaia di gelidi pallini di neve indurita, che graffiano i volti come unghiate e si infilano tra gli indumenti.
Emma capisce profondamente il significato della parola 'tormenta', ben più di qualunque analisi lessicale e filologica. Lo percepisce sulla sua carne e sulla sua fragile volontà, lo scolpisce nella sua comprensione come profondi colpi di flagello che le dilaniano le carni.
Junko cammina decisa a pochi passi da lei, seguendo una direzione decisa ed ostinata, sembra che non risenta neanche delle pugnalate del vento, che fanno vacillare l'andatura incerta della sua compagna.
Si muovono lungo un percorso in lieve discesa, nel bianco della neve che si prosegue senza soluzione di continuità in quello della nebbia, ora leggermente più chiara.
Sembra di camminare dentro ad una nuvola; sarebbe forse il paradiso questo? Un lento incedere sospesi nella luce pura, eppure il freddo e la bufera stanno sfiancando le due donne che senza demordere, sfidando ogni logica resa ad un destino ineluttabile, proseguono una lotta senza senso.
Un inferno camuffato da paradiso, controsenso tra le percezioni visive e quelle fisiche del freddo e della fatica che ormai sembra riaffacciarsi imperiosamente sulla soglia della volontà delle due alpiniste, chiedendo ora di pagare un salato conto per un'ingiustificata perseveranza.
Un lampo, accecante, accompagnato a un rumore innaturale, violento e volgare, come di un treno su un ponte di ferro che al passaggio si distrugge, storcendosi e contorcendosi dolorosamente.
Un fulmine vicinissimo, così vicino che i capelli di Junko si sollevano da sotto il caschetto e il cappellino, mettendosi a volteggiare, carichi di elettricità, emettendo un suono come di qualcosa che crepita e frigge.
Emma caccia un altro urlo e scoppia a piangere, sente la morte vicina, l'ha toccata con mano. Ma è ancora viva, ha sentito il rumore del tuono ed è segno che non è stata folgorata.
Si lancia addosso alla sua guida, giusto in tempo per vederla contemplarsi un guanto fumante.
Una microscopia scarica secondaria, una di quelle ramificazioni che accompagnano i micidiali treni di elettricità quando le folgori toccano il suolo, ha colpito una mano dell'asiatica, sciogliendo un centimetro del materiale sintetico del guanto.
Sotto lo sguardo attonito di Emma, la giapponese si riassetta i capelli che ancora le volteggiano animati da energia elettrostatica e riparte decisa proseguendo nella stessa direzione, incurante dell'ustione alla mano.
Al fulmine fa seguito una ulteriore recrudescenza della tempesta mentre le tenebre sembrano volersi chiudere sulle due donne, inghiottendone nel buio dell'oblio ogni forma di resistenza e di vita.
“Vieni!” urla ancora Junko, come se ne ne fosse bisogno.
Ma almeno ora si muovono in leggera discesa e tra le secchiate di ghiaccio che ne rendono incerta la progressione, le due si portano in vista di una seconda mole scura.
“Balmenhorn!” urla la nipponica, ma l'altra non riesce a percepire altro se non le urla sguaiate del vento.
Junko le prende decisa la mano e in pochi metri si trovano a ridosso di un alto gruppo di rocce. Nella tormenta il castello di pietre sembrava lontano ed indistinto, mentre avvicinandosi è bastato poco per trovarsi al riparo della parete.
Emma comincia ad orientarsi, ma prima di impossessarsi di una nuova speranza, Junko l'ha già trascinata oltre le rocce, si è issata su un canalino di neve proseguendo su facili gradini rocciosi.
Con un grido di vittoria si trovano di fronte all'ingresso di un bivacco.
Junko prende a calci la sbarra ricoperta di ghiaccio che blocca il portellone dell'ingresso e in un attimo le due donne si trovano al riparo.
Emma viene letteralmente trascinata all'interno, su una superficie di legno odoroso di muffa. Junko chiude la tormenta alle loro spalle ed il tremendo frastuono di colpo si cheta, rimanendo solo un sospiro come un sogno che, appena svegli, si scioglie sfuggendo impalpabile nella memoria.
È tanto il contrasto dalla situazione letale di pochi minuti prima con la vita ora riguadagnata, che Emma resta incredula qualche secondo, incapace di proferire la minima parola.
È poi uno scoppio di pianto, quando si abbandona tra le braccia della sua salvatrice. Le ginocchia si piegano ed è solo la presa sicura della giapponese che le impedisce di cadere quasi svenuta sull'umido tavolato del pavimento.
Ma Junko non si è lasciata andare. Con gesti rapidi e precisi si è tolta lo zaino, si è slacciata i ramponi e già si sta occupando della fragile compagna.
Emma lascia fare tutto senza muoversi e senza neanche la forza di commentare.
“Ci siamo, ce l'abbiamo fatta!” la apostrofa la giapponese togliendosi caschetto, cappellino e foulard, scoprendo i suoi tratti somatici.
“Sei... sei... giapponese!” esclama Emma mentre la voce e le membra cominciano ad essere scosse da un tremore irrefrenabile. La tensione ed il freddo, passato il pericolo mortale, stanno riprendendo il sopravvento.
Forse è più la bandiera del sol levante sulla bandana che Junko scopre sotto al cappellino piuttosto che i tratti del viso ad indirizzare la giusta diagnosi di Emma.
L'orientale annuisce, continuando a togliersi i vestiti bagnati. “Dai, svestiti, togliti di dosso quella roba fradicia!”
“Ma... io sto morendo di freddo!” balbetta Emma, con la voce rotta dai tremori.
“Appunto, devi toglierti tutto, dobbiamo scaldarci con le coperte asciutte. Via tutti quei vestiti bagnati!”
Vedendola del tutto inerte, Junko prende l'iniziativa. Le slaccia i ramponi, toglie gli scarponi di plastica, le sfila il duvet zuppo di pioggia e di freddo e li butta in un angolo. Il pile giallo pulcino di Emma le cade addosso fradicio e pesante, come un sacco di iuta. Vinte le labili rimostranze dell'italiana, Junko le sfila anche quell'indumento, le slaccia la salopette e, rimosse le ghette, le sfila i calzoni.
Le cosce di Emma sono pallide e bagnate, marezzate di reticoli bluastri che evidenziano un'ipotermia già di grado avanzato. L'ultima maglia viene levata tra flebili proteste ed Emma, rimasta in mutande e reggiseno, svogliatamente inizia a togliersi calzettoni e calze interne.
Rimasta a piedi nudi si copre seno e slip con le mani, in un impulso di pudore. Lo sguardo sommesso, quasi implorante che dirige verso l'amica denota la completa incapacità di qualunque tipo di iniziativa.
Junko le rimanda un sorriso accondiscendente, ma subito ritorna seria.
“Marsh! Sotto le coperte!” la indirizza verso i cassoni di legno sul fondo del bivacco, dove sono ammassati vecchi materassi e pile di coperte infeltrite.
Mentre Emma si dirige ubbidiente e tremante verso il giaciglio, la giapponese con rapidi gesti si spoglia della giacca in goretex. L'indumento non è bastato a ripararla dalla neve e gli altri vestiti sembrano almeno in parte bagnati, anche se in condizioni migliori rispetto all'italiana.
Senza pensarci su troppo la nipponica si toglie scarponi, pile, salopette e maglia tecnica interna, rimanendo con un'aderente magliettina color fucsia.
Le neve della tempesta si è infiltrata fino a qui, mostrando chiazze scure di bagnato sui seni e lungo la schiena. Le ascelle sono invece bagnate di sudore.
Con noncuranza Junko si toglie calzettoni e maglietta, contemplando lo stato della biancheria intima.
I capezzoli scuri occhieggiano attraverso il cotone bianco del reggiseno bagnato; le mutandine, da cui emergono alcuni peli neri sembrano asciutte.
Come trovandosi perfettamente a suo agio, così, vestita di poche pezze, la dinamica alpinista alla luce della propria lampada frontale scova da un cassettone un fornelletto a gas, un accendino ed un mozzicone di candela. Lo sguardo esterrefatto della sua compagna, tremante di freddo sotto le coperte, ne segue ogni gesto, con espressione tra lo smarrito e lo stupefatto.
Probabilmente, pensa, Junko deve conoscere bene questo bivacco.
Si trovano infatti nel piccolo rifugio non custodito dedicato alla memoria di Felice Giordano, sulle rocce del Balmenhorn, minuscolo rilievo roccioso a 4167 metri in stretta vicinanza con la grande statua del Cristo delle vette. Un posto in cui la giapponese ha avuto già modo di pernottare.
Svuotata la borraccia nel pentolino ha già preparato un tè caldo, con bustine e zucchero trovati su una mensola, versandolo in due tazze di porcellana.
Le due donne ora sono vicine sotto la coperta, a sorseggiare la bevanda bollente.
Emma continua a tremare dal freddo; la voce, rotta dai brividi, non riesce nemmeno ad articolare una sequenza di parole.
Junko si è riscaldata con la bevanda ed ha ripreso a prendersi cura dell'amica, che invece giace ancora atonica, scossa dai tremori per il gelo che ha incamerato fino nel midollo delle ossa.
Spostata la coperta le slaccia il reggiseno bagnato buttandolo nel mucchio dei vestiti fradici.
Emma si copre imbarazzata un piccolo seno dai capezzoli color fiore di pesco.
Junko le sorride per questo piccolo gesto di pudore. “Dai, togli quelle mutandine, sono fradice e ti trasmettono il freddo. Siamo fra donne!” e per convincerla si toglie lei per prima gli indumenti intimi. Un bel seno pieno emerge dal cotone bianco, un seno alto e diviso che lascia immaginare una forte muscolatura pettorale sottostante. Un bel fisico tonico e asciutto, da alpinista allenata. Un ciuffo di peli neri e lunghi compare appena si sfila gli slip.
Completamente nuda si infila subito sotto le coperte, abbracciando il corpo gelido della compagna, aiutandola a sfilarsi le mutandine su un cespuglio di peli biondi.
“Ecco fatto!” conclude la giapponese adagiando l'altra sul materasso e sdraiandosi sopra il suo corpo.
“Ma cosa fai?” si ribella Emma, ma subito percepisce un calore insospettato che emana dalla pelle dell'asiatica, e si azzittisce. Il moto di vergogna per trovarsi completamente nuda coperta dal corpo di un'altra donna, ugualmente nuda, viene subito spento sentendo un calore ancestrale rivitalizzarle le membra.
Junko le allunga le braccia sulla schiena per stringersela contro e trasmetterle vita.
Al confronto con la pelle rosa dell'italiana, ora che è a contatto, la pelle dell'asiatica lascia intravvedere la sua sfumatura giallastra.
Junko avvolge la sua compagna con un tenero sorriso che trasmette calore, corroborando l'azione lenitiva del contatto col suo corpo.
“Va meglio, ora?” chiede con uno sguardo affettuoso.
“Come fai ad essere così calda?” le chiede invece Emma, che sembra adagiarsi e rilassarsi sotto quella calda copertura fatta di pelle orientale.
Junko sorride, allarga le gambe ed avvolge le cosce fredde dell'italiana.
Con un lento movimento ripetitivo inizia a strofinarle le membra col suo corpo. I peli dei loro monti di Venere si toccano e si sfiorano.
“Abbracciami” sussurra l'asiatica e subito sente delle fredde estremità avvolgerle i fianchi, due mani gelide allungarsi sui suoi glutei cercando calore e morbidezza.
Le dita stazionano sulle tonde eminenze, nutrendosi di tepore, poi, più convinte, si infilano tra le cosce, convergendo verso l'apertura della vulva.
Junko strofina le proprie guance sul viso della sua compagna e gradualmente la riscalda e la rianima, nel corpo e nello spirito. Con le sue braccia stringe fra loro i due corpi.
La luce della candela rende incerti i contorni delle ombre delle due donne, abbracciate sotto le coperte mentre fuori la bufera fa tremare le lamiere del tetto del bivacco.
Con estrema naturalezza le bocche delle due giovani si incontrano, si sfiorano e si baciano.
Le lingue dialogano conoscendosi ed accarezzandosi, il respiro di una si perde nell'alito dell'altra.
Gli occhi si chiudono e le mani si inoltrano in percorsi mai esplorati.
I corpi scivolano con movimenti pendolari, lentamente, mentre le mani si accarezzano e si perdono nella morbidezza delle curve, nella setosità delle pelli, negli anfratti e negli umidi pertugi.
Il respiro accelerato ed affannoso che precede l'orgasmo, spegne i ricordi del dolore e della paura provate nella tempesta. Seno contro seno, le bocche serrate in un lungo incantesimo, le dita dentro le umide intimità una dell'altra, insieme raggiungono una prolungata estasi, fatta di tenerezza, rispetto, passione e protezione. Calde, sane e vive, amalgamate in un unico caldo abbraccio le due donne scivolano in un sonno senza sogni, mentre la tempesta gradualmente perde la sua forza, rispettosa del tenero gesto d'amore delle due donne, unica calda reciproca vitalità in un universo di fredda morte e buia paura.

In un silenzio primordiale la mattina dopo un sottile bagliore si infila da uno spiraglio dei portelloni delle finestre.
Uno sgangherato rumore ed una forte spinta dall'esterno spalancano la porta del bivacco inondando di luce abbagliante il tiepido locale interno.
Due, tre voci maschili si interrogano, quando Emma apre gli occhi come risvegliandosi da un lungo letargo.
“Oh!” sussurra solamente, quando il suo sguardo accecato incontra la figura barbuta di una guida alpina.
Accorgendosi di essere nuda si copre con una coperta, cercando intorno a se l'amica.
“Buongiorno, è lei Emma Bonatti?” viene interrogata da un volontario del soccorso alpino, che ha avuto tutto il tempo di vederle il seno nudo.
“Sì” sussurra la donna reggendo la coperta sul corpo per trattenerne l'ultimo calore. Di colpo capisce tutta la situazione.
“Tutto bene? La stavamo cercando. Per fortuna l'abbiamo trovata qui, cominciavamo a disperare di trovarla viva!”
Emma si guarda intorno in cerca di Junko. La giapponese probabilmente si è alzata alle luci che precedono l'alba per andare ad avvisare i soccorsi e in cerca di aiuto per la discesa.
Annuisce, l'alpinista. “Vi ha avvisato Junko che ci eravamo rifugiate qui?”
I tre uomini del soccorso si guardano tra loro, si scambiano alcune parole, appena sussurrate, che la donna non riesce a cogliere.
“Junko chi?”
“Ma si, la mia salvatrice! Non so il cognome, si chiama Junko, un'alpinista giapponese. Vi ha chiamato lei?”
“N-no...” esita la guida alpina, incerta. “Non ci ha chiamato nessuno. Risultava dagli elenchi del rifugio che lei era partita la mattina di ieri. Alla capanna Margherita non l'abbiamo trovata e allora siamo venuti a cercarla. Non l'abbiamo trovata in giro, speravamo proprio...”
“Ma non vi ha chiamato lei?” interrompe Emma con un tono quasi spazientito.
“Non è uscita prima dal rifugio per chiamarvi? Ci saranno state le sue orme nella neve fresca!”
Ancora i tre si guardano tra di loro senza capire. Qualcuno bisbiglia ancora qualcosa a bassa voce.
'Questi mi credono matta' pensa ancora Emma, guardandosi intorno per cercare l'asiatica, forse rotolata da qualche parte nel sonno.
“Non avete visto le sue orme?” insiste.
“Signorina...” riprende uno in un tono quasi di scusa, “fuori non c'era alcuna impronta. Nessuno è venuto a chiamarci.”
“Ma sì” insiste Emma sempre più convinta. “Junko è scesa a cercare aiuto! Dove sarebbe finita se no?”
“Scusi... parla di Junko Mishima?” chiede infine un altro del gruppo.
“Non so come si chiami di cognome. È un'alpinista, una giapponese!”
I tre restano sbalorditi. Dopo alcuni cenni fra di loro, uno dei tre chiama gli altri fuori dal piccolo rifugio.
“Si vesti, intanto, signorina, ora scendiamo” le dice uno, tanto per sviare il discorso.
I tre soccorritori all'esterno del bivacco, intavolano una discussione serrata.
Quando Emma varca la soglia, rivestita dei suoi indumenti ancora umidi, viene folgorata da una luce accecante. La nevicata della notte, candida ed immacolata, sotto i raggi del sole degli oltre 4000 metri di quota esplode di un bagliore che trascende gli elementari concetti di luce.
Non riesce a tenere gli occhi aperti e rientra al rifugio per ritrovare gli occhiali da ghiacciaio e la giacca a vento, da stendere al sole.
Tornata all'esterno si distende in un respiro profondo. L'aria tersa e frizzante le invade i polmoni come un divino soffio di vita in un corpo resuscitato.
Si guarda intorno alla ricerca di un volto asiatico.
“Signorina, è sicura di essere stata in questo rifugio con Junko Mishima?” viene interrogata da quello che sembra il più anziano del gruppo.
“Non so il cognome”, ripete paziente, “ma un'alpinista giapponese di nome Junko, mi ha trovata ieri nel mezzo della bufera di neve e mi ha portato in salvo nel bivacco.” Si guarda in giro. “Dov'è ora?”
Una mano le si appoggia sulla spalla, uno sguardo le si posa negli occhi, trapassando le spesse lenti di protezione degli occhiali d'alta quota. Uno sguardo di quegli che ti scava dentro, ti esplora, ti cerca l'anima, per venirne in contatto intimo.
Una pausa infinita prima che il suono di una voce scandisca con fatica il suono doloroso di una frase.
“Signorina... Junko è precipitata ieri, scendendo dalla cresta est del Lyskamm, dopo aver salito da sola la parete nord.”
“Ma non diciamo cazzate!” si infervora l'italiana perdendo ogni controllo. Questo stupido gioco non le piace per nulla. “Junko era qui, lo volete capire? Ed io sono viva grazie a lei!” sbuffa spazientita.
L'uomo la guarda con intensità, la mano sulla sua spalla si serra stringendole i muscoli, perdendosi nell'imponderabile, nell'impossibilità di capire ciò che una spiegazione non può avere.
Scuote la testa lentamente.
“Signorina... Junko è morta. Scendendo dalla via normale, una cornice ha ceduto sotto il suo peso e lei è precipitata. Abbiamo recuperato il suo corpo con l'elicottero, poco prima che le nubi si chiudessero nella tempesta che...” non finisce la frase.
Emma rimane di pietra sotto il peso di quella assurda notizia.
Si guarda in giro. Nessuna traccia dell'angelo che l'ha trovata e guidata nella tormenta. In lontananza alcune cordate stanno salendo verso la capanna Margherita.
La montagna intorno a lei è sempre uguale. Grandiosa ed indifferente di fronte alla tragedia umana che prende corpo nella sua coscienza. Brillante e terribile nella sua maestosità trascendente.
Piega il capo, Emma, sconfitta, trafitta da un'assurda realtà che soffoca il vortice di domande che gradualmente si spegne nel suo cuore.
Torna nel rifugio a raccogliere picozza e ramponi. Nessuna traccia dell'attrezzatura della giapponese.
Sul tavolo un mozzicone di candela consumato, un fornelletto a gas e due tazze di porcellana.

In memoria di Junko Tabei. Tabei Junko 田部井 淳子 (1939-2016), alpinista giapponese, è stata la prima donna a scalare la cima dell'Everest e a completare l'ascesa delle Seven Summits.

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