Raffaella. Dalla Perfezione alla sottomissione

di
genere
dominazione

Alcune dovute premesse:
1) questo racconto non è frutto di fantasia, è assolutamente vero. Solo alcune circostanze sono state romanzate. Ma neanche troppo.
2) spero che questo racconto ecciti la fantasia di qualcuno, uomo o donna che sia, e che sia di ispirazione. Se così non fosse, potete dedicare la vostra lettura ad altri autori.
3) se qualcuno ha dei commenti da fare può contattarmi su b_bull_and_master@proton.me

Raffaella aveva quarant’anni e un viso dolce, carino, di quelli che ti fanno sorridere senza motivo: occhi castani luminosi, un naso piccolo, labbra morbide che si curvavano in un sorriso timido. I suoi lunghi capelli neri li portava quasi sempre raccolti in una coda pratica o in una treccia laterale, perché con due bambini piccoli non aveva tempo per altro. Vestiva sempre in modo semplice, modesto: jeans comodi, magliette basiche a manica lunga o corta a seconda della stagione, scarpe da ginnastica bianche un po’ consumate. Niente trucco pesante, al massimo un filo di mascara e un rossetto neutro. Era il classico look da mamma pratica, invisibile tra le altre al parco giochi o davanti alla scuola.
Il marito, Marco, la trascurava da anni. Passava le serate a chattare con altre mamme della classe dei figli, organizzava aperitivi “tra genitori”, tornava a casa tardi con la scusa degli impegni. Raffaella sentiva il vuoto, ma non diceva niente: tirava avanti, puliva, cucinava, accompagnava i bambini a calcio e danza. Dentro, però, si sentiva sempre più sola.
Ci incontrammo un martedì pomeriggio piovoso, al parco coperto vicino alla scuola elementare. Io ero lì perché accompagnavo mio nipote, che gioca nella stessa squadra del suo figlio maggiore. Pioveva a dirotto, i bambini correvano comunque, e noi adulti ci riparavamo sotto la tettoia. Raffaella era seduta su una panchina, jeans blu scuro un po’ bagnati in fondo, maglietta grigia aderente quel tanto che bastava a far intravedere il fisico asciutto e tonico sotto, scarpe da ginnastica infangate. Teneva in mano un thermos di tè, i capelli neri raccolti in una coda bagnata che le lasciava scoperto il collo sottile.
Mi sedetti accanto a lei, casualmente. “Che tempo schifoso, eh?” dissi, scrollando l’ombrello. Lei sorrise, un sorriso educato ma stanco. “Sì, ma almeno i bambini si sfogano.” Parlammo del più e del meno: dei figli, della scuola, degli allenatori. Notai che ogni tanto guardava il telefono, poi lo rimetteva in tasca con un piccolo sospiro. “Aspetti qualcuno?” chiesi. Lei esitò, poi scrollò le spalle. “No, mio marito… diceva che forse passava, ma tanto lo so che è con gli altri genitori al bar.”
Qualcosa nella sua voce – una nota di rassegnazione – mi colpì. Le offrii un sorso dal mio caffè caldo, e lei accettò, ridendo piano: “Grazie, il mio tè è diventato acqua tiepida.” Le nostre mani si sfiorarono quando le passai il bicchiere termico, e lei non ritrasse subito la sua. Rimase lì un secondo di troppo, gli occhi nei miei. Fu un momento piccolo, quasi impercettibile, ma carico.
Da lì l’aggancio fu naturale. Le chiesi il numero “per organizzare un passaggio condiviso per gli allenamenti, così almeno non siamo sempre soli sotto la pioggia”. Lei me lo diede senza esitare, con un sorriso più aperto questa volta. Quella sera stessa le scrissi un messaggio innocente: “I bambini si sono divertiti nonostante il diluvio. Tu tutto ok?”.
Rispose quasi subito: “Sì, grazie. È stato bello chiacchierare con qualcuno oggi.”
Nei giorni successivi i messaggi divennero più frequenti. Le raccontavo cose buffe successe al lavoro, lei mi mandava foto dei figli che disegnavano o delle torte bruciate in cucina. Sempre cose leggere, ma piano piano si aprì: “A volte mi sento invisibile, sai? Marco nemmeno mi guarda più.” Io rispondevo con calma, facendola sentire vista, apprezzata. “Non sei invisibile, Raffaella. Hai un sorriso che illumina anche questa pioggia infinita.”
Una sera, dopo che il marito era uscito di nuovo “per un aperitivo con i genitori”, mi scrisse: “Sono sola a casa, i bambini dormono. Mi annoio.” Le risposi: “Se vuoi, passa da me a bere un bicchiere di vino. Abito a dieci minuti dal parco.” Esitò a lungo, vidi i tre puntini comparire e sparire. Poi: “Ok. Arrivo tra mezz’ora.”
Quando aprì la porta del mio appartamento, era sempre lei: un trench sopra jeans aderenti, maglietta nera semplice, scarpe da ginnastica, capelli sciolti per la prima volta che la vedevo così – una cascata nera lucida che le arrivava quasi alla vita. Arrossì quando i nostri sguardi si incrociarono. “Non so nemmeno perché sono qui,” disse piano.
Io sorrisi, la feci entrare. “Perché avevi voglia di essere vista, Raffaella. E stasera ti guarderò io.”
Chiudemmo la porta alle sue spalle, e da quel momento iniziò tutto.
Quella sera la pioggia martellava insistente sui vetri, un sottofondo perfetto per il battito irregolare del cuore di Raffaella. Era lì, al centro del mio soggiorno, il trench ancora addosso, gocciolante sul parquet. I lunghi capelli neri, umidi e pesanti, le aderivano al collo e alle spalle. Jeans scuri, maglietta grigia a manica lunga, scarpe da ginnastica infangate: tutto in lei gridava normalità, quotidianità. Ma i suoi occhi castani erano febbrili, le labbra socchiuse, il respiro corto.
Le porsi il bicchiere di vino. Lo prese con mani tremanti, ne bevve un sorso lungo, quasi disperato.
«Non voglio amore,» sussurrò, la voce bassa e rauca. «Non voglio che mi dici che sono bella o che mi meriti di meglio. Voglio… voglio che qualcuno mi prenda e basta. Che mi dica cosa fare, cosa essere. Che mi usi fino a farmi dimenticare chi sono fuori da questa porta.»
La guardai in silenzio per un lungo momento, lasciando che le sue parole le bruciassero dentro.
Mi avvicinai fino a sfiorarla quasi. «Guardami, Raffaella.»
Alzò gli occhi di scatto. «Sì…»
«Sí cosa?»
«Sí, Padrone,» mormorò, arrossendo violentemente.
«Brava ragazza. Dimmi esattamente cosa vuoi che ti faccia stasera.»
Deglutì, le guance in fiamme. «Voglio… voglio che mi ordina di spogliarmi. Voglio che mi faccia inginocchiare. Voglio che mi tocchi come se fossi una cosa tua. Senza chiedere, senza dolcezza. Voglio sentirmi… sporca, usata, desiderata in un modo che a casa non esiste più.»
Le sfiorai la guancia con il dorso delle dita. «E se ti dicessi di implorare?»
«Lo farei,» rispose subito, la voce tremante. «Ti implorerei, Padrone.»
«Togliti il trench. Lentamente. E mentre lo fai, dimmi perché lo stai facendo.»
Le dita armeggiarono con la cintura. Il cappotto scivolò a terra con un tonfo bagnato.
«Lo faccio perché… perché voglio che mi veda,» sussurrò. «Perché voglio che decida lei cosa sono stasera.»
«Inginocchiati.»
Si abbassò piano, le ginocchia sul tappeto, le mani sulle cosce, la testa china. I capelli le ricaddero sul viso come una tenda nera.
«Mani dietro la schiena. Schiena dritta. Guardami.»
Obbedì. Il petto le si alzava e abbassava rapido sotto la maglietta.
«Dimmi cosa senti adesso.»
«Sento… vergogna,» ammise con voce rotta. «E eccitazione. Mi sento bagnata solo a stare così, in ginocchio davanti a lei. È… è sbagliato, ma non voglio che finisca.»
Mi sedetti sul divano, le gambe accavallate, e la osservai a lungo. Poi mi alzai, le girai intorno lentamente.
«Togliti la maglietta. E mentre la togli, dimmi cosa sono i tuoi seni per me stasera.»
Afferrò l’orlo, la sfilò dalla testa con movimenti lenti. Il reggiseno nero semplice le conteneva i seni piccoli, i capezzoli già duri e visibili.
«Sono… sono suoi, Padrone,» disse piano, la voce che tremava. «Per toccarli, per pizzicarli, per farli male quanto vuole. Non sono più miei.»
«Brava. Ora i jeans. Alzati solo quel tanto che serve.»
Si sollevò appena, slacciò il bottone, abbassò la zip. I jeans scivolarono giù lungo le cosce toniche, rivelando le mutandine nere, già con una macchia umida al centro.
«Guarda come sei già fradicia,» dissi, chinandomi accanto a lei. «Dimmi perché.»
«Perché… perché sto obbedendo,» gemette piano. «Perché finalmente qualcuno mi dice cosa fare. Perché mi sento una troia in ginocchio e… mi piace da morire.»
Le afferrai i capelli dalla nuca, tirandoli indietro con forza controllata. Il suo collo si inarcò, la bocca si aprì in un piccolo ansito.
«Ripetilo.»
«Mi sento una troia in ginocchio, Padrone. E mi piace da morire.»
Le passai un dito lungo il bordo delle mutandine, sfiorando appena la pelle umida. Lei sussultò.
«Ti prego…» mormorò senza che glielo chiedessi.
«Pregami di cosa?»
«Di toccarmi… di più. Di entrare dentro. Di farmi male se vuole. Ti prego, Padrone, ho bisogno di sentirti dentro di me.»
«No,» dissi secco, ritraendo la mano. «Stasera non verrai. Imparerai che il tuo orgasmo non è più una tua scelta. È un mio regalo. E stasera non te lo meriti ancora.»
Un gemito di frustrazione le sfuggì dalle labbra. «Sì, Padrone… come vuole lei.»
Passai l’ora successiva a torturarla dolcemente: le pizzicai i capezzoli fino a farla ansimare, le leccai il collo mentre le tenevo le mani bloccate dietro la schiena, le sfiorai il clitoride attraverso il tessuto delle mutandine fino a portarla al limite, poi mi fermai.
Ogni volta che si avvicinava al bordo, le ordinavo: «Dimmi chi decide se vieni o no.»
«Lei, Padrone… solo lei… ti prego, non fermarti…»
E io mi fermavo.
Alla fine, quando era un fascio di nervi, sudata, tremante, con le lacrime agli occhi per la frustrazione, le annodai al collo il nastro nero.
«Domani sera tornerai alle 22 in punto. Solo cappotto e questo nastro. Niente sotto. E porterai con te la tua completa sottomissione. Dimmi che lo farai.»
«Lo farò, Padrone,» rispose con voce spezzata, gli occhi lucidi. «Tornerò nuda sotto il cappotto. Mi metterò in ginocchio appena entrata. E farò tutto quello che mi ordinerai. Tutto. Ti prego… fammi essere la tua schiava.»
Le accarezzai la guancia, l’unica tenerezza della serata. «Lo sarai, Raffaella. Lo sarai completamente.»
La accompagnai alla porta. Prima di aprirla, le sussurrai all’orecchio: «Stanotte, a casa, non ti toccherai. Se disobbedisci, lo saprò. E la punizione sarà peggiore di questa attesa.»
«Sí, Padrone,» mormorò, la voce carica di desiderio. «Non mi toccherò. Aspetterò lei.»
Chiuse la porta dietro di sé, ma le sue parole – e i suoi gemiti – rimasero nell’aria, appesi come una promessa.
Raffaella rientrò a casa poco dopo mezzanotte. La pioggia era cessata, ma l’aria era ancora umida e fredda. Chiuse la porta piano, attenta a non fare rumore: i bambini dormivano al piano di sopra, e Marco di solito era già sul divano con la TV accesa o il telefono in mano.
Si tolse le scarpe da ginnastica nell’ingresso, il cuore che ancora le batteva forte per tutto quello che era successo da me. Sentiva il nastro nero annodato al collo, nascosto sotto il collo alto della maglietta, come un marchio segreto che le bruciava sulla pelle. Tra le cosce era ancora bagnata, dolorosamente eccitata, il corpo teso per l’orgasmo negato. Ogni passo le ricordava quanto fosse vicina al limite.
Entrò in soggiorno. Marco era lì, esattamente come si aspettava: sdraiato sul divano, luce blu del telefono che gli illuminava il viso, auricolari nelle orecchie. Indossava la solita tuta, una birra aperta sul tavolino. Non alzò nemmeno lo sguardo quando lei passò.
«Ciao,» disse Raffaella, la voce un po’ rauca, quasi sperando in una reazione qualsiasi. Un “dove sei stata?”, un “sei bagnata”, un “che cos’hai al collo?”. Qualcosa che dimostrasse che lui la vedeva.
Marco grugnì qualcosa di impercettibile, gli occhi fissi sullo schermo. Probabilmente stava scorrendo i messaggi di qualche altra mamma del gruppo WhatsApp dei genitori, o guardando storie su Instagram. Non si mosse, non la guardò, non chiese nulla.
Raffaella rimase lì un secondo, in piedi davanti a lui, il cappotto ancora addosso. Sentì un nodo in gola, non di tristezza, ma di qualcosa di più profondo: una conferma crudele. Era davvero invisibile. Aveva passato la serata in ginocchio davanti a un altro uomo, aveva implorato di essere toccata, aveva accettato di diventare una schiava… e suo marito non si accorgeva nemmeno che era rientrata a mezzanotte, con i capelli umidi, le labbra gonfie, gli occhi diversi.
«Vado a dormire,» disse piano.
Marco annuì appena, senza staccare gli occhi dal telefono.
Salì le scale lentamente. In camera da letto si chiuse la porta alle spalle e si specchiò. Si tolse la maglietta con cura, osservando il nastro nero che le stringeva il collo. Lo sfiorò con le dita, e un brivido le percorse la schiena ricordando la mia voce: “Stanotte non ti toccherai. Aspetterai me.”
Le mani le tremavano dalla voglia di disobey, di sfregarsi fino a esplodere, di scaricare tutta quella tensione. Ma non lo fece. Si sdraiò sul letto, accanto a Marco che poco dopo salì e si addormentò subito russando piano, senza sfiorarla.
Raffaella fissò il soffitto al buio, il corpo in fiamme.
“Domani,” pensò. “Domani tornerò da lui. Nuda sotto il cappotto. In ginocchio appena entrata.”
Un sorriso lento, quasi cattivo, le sfiorò le labbra.
Marco non l’aveva guardata neanche quella sera.
Ma io l’avrei guardata. L’avrei guardata fino a farla tremare, fino a farla implorare, fino a farla mia completamente.
E quella consapevolezza, per la prima volta dopo tanto tempo, la fece sentire viva.
L’indomani fu una giornata infernale, di quelle che sembrano studiate apposta per mettere alla prova i nervi.
Raffaella si svegliò alle 6:30, con Marco che già russava accanto a lei, voltato dall’altra parte. Il nastro nero era ancora al collo, nascosto sotto la maglietta del pigiama; lo sfiorò un attimo con le dita prima di alzarsi, e un brivido le corse tra le cosce ricordando l’ordine: non toccarsi. Non si era toccata. Aveva passato la notte insonne, il corpo in fiamme, stringendo le lenzuola per resistere.
Corse in cucina, preparò le colazioni, le merende, firmò i diari dei bambini, li vestì, li accompagnò a scuola. Poi spesa al supermercato, lavatrice da stendere, telefonata alla suocera, appuntamento dal pediatra per il piccolo che aveva un po’ di tosse. Pranzo veloce in piedi, stireria mentre ascoltava un podcast qualsiasi per non pensare. Pomeriggio: ritiro a scuola, compiti, merenda, calcio del grande, danza della piccola. Marco le scrisse solo un messaggio alle 17: «Esco con i genitori della classe, cena fuori, torno tardi».
Ogni minuto della giornata era pieno, meccanico, perfetto nel suo ruolo di mamma e moglie organizzata.
Ma dentro aveva solo una cosa in mente.
Io.
L’orario: 22 in punto.
Il cappotto lungo, nero, chiuso fino al collo.
Niente sotto. Solo il nastro nero e la pelle nuda.
Durante la spesa, mentre spingeva il carrello tra gli scaffali, si era ritrovata a stringere le cosce senza volerlo, immaginando le mie mani che l’avrebbero aperta più tardi.
Mentre stirava le camicie di Marco, aveva fissato il ferro da stiro e pensato a quanto avrebbe voluto essere piegata su quel tavolo da me, usata senza preavviso.
Al parco giochi, mentre guardava i bambini sullo scivolo, aveva chiuso gli occhi un secondo e rivisto se stessa in ginocchio sul mio tappeto, la bocca aperta, la voce che implorava: «Ti prego, Padrone…»
Alle 20:30 finalmente i bambini erano a letto. Spense le luci, controllò che dormissero. Marco non era ancora rientrato – meglio così.
Andò in camera, aprì l’armadio. Prese il cappotto lungo, quello elegante che usava solo per le occasioni. Lo appoggiò sul letto e si spogliò lentamente, come se io fossi già lì a guardarla.
Si tolse la maglietta grigia, i jeans comodi, il reggiseno sportivo, le mutandine di cotone. Rimase nuda davanti allo specchio. Il corpo asciutto, i seni piccoli con i capezzoli già duri solo al pensiero, la pelle d’oca sulle braccia. I capelli neri sciolti, lunghi fino alla vita. Il nastro nero ancora annodato al collo – non l’aveva tolto nemmeno per fare la doccia, lo aveva nascosto sotto la sciarpa tutto il giorno.
Si infilò il cappotto direttamente sulla pelle nuda. Il tessuto freddo le accarezzò i capezzoli, scivolò sulle cosce, le sfiorò il sesso ancora sensibile. Lo abbottonò fino in alto, controllò che il nastro fosse visibile appena sopra il collo.
Guardò l’orologio: 21:37.
Prese le chiavi, il telefono, uscì di casa in punta di piedi.
In macchina, durante il breve tragitto, tenne le mani strette sul volante. Ogni semaforo rosso era una tortura: sentiva l’aria fresca tra le cosce aperte sotto il cappotto, il clitoride pulsante, il respiro corto.
Alle 21:59 parcheggiò davanti al mio palazzo.
Alle 22:00 precise suonò il citofono.
Quando aprii la porta, Raffaella era lì, il cappotto abbottonato, i capelli neri lucidi sulle spalle, gli occhi bassi, le guance arrossate.
La porta si chiuse dietro di lei con un clic sommesso, come il sigillo di un segreto.
Raffaella era nuda sotto la luce calda e bassa dell’ingresso, il cappotto abbandonato ai suoi piedi come una pelle vecchia che non le apparteneva più. Il nastro nero al collo catturava appena il riflesso della lampada, un contrasto sottile contro la sua pelle chiara. I capelli lunghi, neri, ancora leggermente umidi della serata, le scivolavano sulle spalle e sulla schiena in una cascata lenta, sfiorandole la curva dei fianchi. Il suo corpo asciutto tremava piano, non di freddo, ma di attesa accumulata per ventiquattro ore interminabili.
Si inginocchiò senza che io dicessi una parola. Le ginocchia sul legno fresco, le mani aperte sulle cosce, la schiena dritta, il mento appena abbassato. Un gesto perfetto, istintivo, come se il suo corpo avesse già imparato la posizione prima ancora della mente.
Mi avvicinai lentamente. Le sfiorai i capelli con le dita, raccogliendone una ciocca e portandomela piano alle labbra, inspirando il suo profumo di shampoo delicato e pioggia lontana. Poi scesi lungo la nuca, seguendo la linea del nastro, fino a posare il palmo aperto sulla sua gola. Non strinsi: solo sentii il battito veloce, quasi furioso, sotto la pelle.
«Guardami,» sussurrai.
Alzò gli occhi. Castani, lucidi, pieni di una resa dolce e totale. Non c’era più vergogna, solo desiderio di essere vista, finalmente.
«Dimmi cosa hai pensato tutto il giorno.»
«Ho pensato a lei, Padrone,» rispose con voce bassa, vellutata. «Mentre correvo da un impegno all’altro, mentre sorridevo alle maestre, mentre stiravo le sue camicie… pensavo solo a questo momento. A essere qui, nuda, in ginocchio. A non dover decidere più niente.»
Le accarezzai la guancia con il pollice, scendendo lungo la linea della mascella, poi sul labbro inferiore. Lei lo socchiuse istintivamente, lasciando che la mia dita sfiorasse l’interno umido, caldo.
«Brava,» dissi piano. «Stasera ti prenderò piano. Ti farò sentire ogni secondo. Non ti lascerò scappare dentro la tua testa.»
La guidai in soggiorno tenendola per il nastro, come una guida leggera. La feci sedere sul bordo del divano, le gambe leggermente aperte, le mani appoggiate ai lati. Rimasi in piedi davanti a lei, osservandola a lungo. Il suo respiro si faceva più profondo, i capezzoli si indurivano sotto il mio sguardo, la pelle si copriva di un velo di brividi.
Mi chinai, le labbra vicine al suo orecchio. «Non muoverti. Lascia che ti guardi quanto voglio.»
Passai minuti interi a percorrerla con gli occhi, poi con le dita leggere: la curva del collo, la clavicola delicata, il bordo dei seni piccoli e sodi, i fianchi stretti, l’interno delle cosce che tremavano appena. Ogni tocco era lento, quasi reverenziale, ma carico di possesso. Quando finalmente le sfiorai il sesso, già gonfio e umido, lei trattenne il fiato, inarcandosi impercettibilmente.
«Ti prego…» sussurrò.
«Prego cosa?»
«Di non fermarti. Di prendermi. Di farmi sentire che sono tua.»
La baciai allora, non sulle labbra, ma sul nastro nero, proprio lì dove pulsava la vena del collo. Poi scesi piano: clavicola, sterno, il piccolo avvallamento tra i seni. Le presi un capezzolo tra le labbra, lo succhiai dolcemente, poi con più intensità, fino a strapparle un gemito lungo, profondo.
Quando entrai in lei, fu lento, profondo, inevitabile. Le tenni le mani ferme sui fianchi, obbligandola a sentire ogni centimetro, ogni movimento controllato. I suoi capelli neri si sparsero sul cuscino mentre le inarcavo la schiena, il corpo asciutto che si tendeva come una corda sotto le mie mani.
Non ci furono urla, solo respiri spezzati, sussurri, gemiti sommessi. «Padrone… sì… così…» Le sue parole si dissolvevano in sospiri, in piccoli singhiozzi di piacere.
La portai al limite più volte, fermandomi ogni volta che sentivo il suo corpo contrarsi, obbligandola a guardarmi negli occhi mentre le negavo l’oblio. Solo alla fine, quando era tutta un tremito, le labbra gonfie, gli occhi velati, le permisi di lasciarsi andare.
Venne in silenzio, quasi con stupore, stringendomi forte, il viso nascosto nell’incavo del mio collo, i capelli neri sparsi sul mio petto come inchiostro versato.
Rimanemmo così a lungo, il suo respiro che piano tornava regolare contro la mia pelle.
Quando alla fine la avvolsi in una coperta morbida e le accarezzai i capelli, sussurrò contro il mio petto: «Grazie… per avermi vista.»
Io le baciai la fronte, sfiorando il nastro nero ancora al suo collo.
«Sei mia, Raffaella. E stasera hai iniziato a sentirlo davvero.»
Fuori, la notte era quieta. Dentro, per la prima volta dopo tanto tempo, anche lei lo era..
scritto il
2025-12-16
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