Lo stalker parte 6
di
Ripe (with decay)
genere
sentimentali
Non aveva solo scoperto i soldi lì nel buio mentre l’amante la possedeva. Vide documenti e cifre, grosse cifre. Con la mente divisa tra ciò che accadeva dietro quella porta e la necessità di capire il significato della scoperta ne prese uno a caso. Giù in auto lo rigirava freneticamente tra le mani.
La quietanza di un bonifico. Un versamento di cinquemila euro emessi un paio di settimane prima. Ciò poteva suggerire come dietro l’acronimo si celassero movimenti illegali oppure adombrati da un opportuno cono d'ombra.
Si distese sul sedile. Che novità era? Ne aveva intravisti altri ancora: 2500, 2200, 3000. E poi ancora e ancora. Tutti inoltrati ad una fondazione dal nome criptico che non alludeva a nulla in particolare. Neanche dopo una ricerca su internet ne ricavò qualcosa di concreto.
La sede della società offshore si trovava nei pressi di ***. Versamento registrato alle tre di notte di un lunedì. Di un altro pagamento aveva intravisto ora e data: pagava sempre a notte fonda, dopo essere rientrata dal weekend. Rammentò come nell’inserzione pubblicata sul sito lei escludesse ogni possibilità di prenotare i suoi servizi durante i fine settimana.
Il sabato successivo si appostò sotto casa. Era lei l’obiettivo. Affittò una macchina e parcheggiò nelle vicinanze già dalla mezzanotte. Se fosse partita prima dell’alba intendeva essere pronto. Chi andava ad incontrare? L’uomo con cui voleva rifondare la propria vita o gli esattori della banda di cui era caduta vittima?
Alle quattro del mattino raggiunse l'auto a capo chino. Portava valigia e zainetto. Si mise in marcia. Non era pratico di pedinamenti e poco mancò ci scappasse l'incidente. Le strade erano buie, gli automobilisti rari. Infilò l’autostrada e imboccò direzione nord. Quando alle cinque rallentò per infilarsi in autogrill lui percorse ancora un tratto e aspettò in un’isola di sosta. Avrebbe gradito un bel caffè bollente. Avrebbe gradito berlo con lei, come nelle volte che andavano via senza destinazione. Svuotò la vescica e restò in attesa.
La vide sfrecciare di gran carriera dopo una lunga pausa. Ricominciò l’inseguimento raggiungendola dopo parecchi chilometri in cui dubitò avesse preso un’altra uscita. In tangenziale le cose si complicarono: sebbene fosse un brutto sabato il traffico minacciava di fargli perdere le tracce. Ma non si arrese.
Barbara imboccò l'illusione barocca di un viale esclusivo, schivo e monumentale, attraversato da un viavai insolito. Per sicurezza mantenne le distanze. Un cancello permetteva l’ingresso ad un imponente nosocomio. Dottori e personale intrecciavano cammini lungo una ragnatela ordinata. La vide sgambettare veloce. La spiò ancora per tutto il percorso che seguì nella ripetitività dei reparti oncologici. Sulla cartellonistica dei padiglioni lesse soltanto orribili nomi. Gli sovvenne del bisogno di soldi, del segno sul collo, che forse non era stato provocato da qualcuno ma da qualcosa...
Fu preso dallo sconforto e dalla paura. Ad una reception si presentò per espletare le formalità di rito. Si sottoponeva a delle costose cure private contro un tumore? Abbordò il bancone e con voce bassa ed incerta chiese: “È passata di qui la signora Barbara Lombardi? Sono il marito”. Gli venne il capogiro a pronunciare quelle antiche, civilizzatrici parole: la sua signora, la sua donna, la sua vita. E lui era suo marito, il suo uomo, e voleva tornare ad essere la sua vita, anche se ne fosse rimasta poca.
“Sì, certo, poco fa”, rispose la ragazza con inflessione interrogativa. Forse la cosa procedeva da così tanto tempo che l’assenza del sostegno del marito durante il decorso traumatico delle terapie invasive non poteva passare come la svista di uno smemorato. Una sfumatura di accusa e di antipatia venava quello sguardo. “Stanza 15, in fondo al corridoio a sinistra”.
Percorse la direzione che gli era stata indicata ma le gambe cedettero. Quasi davanti alla soglia avrebbe voluto voltarsi e andarsene. La immaginò dedita alla cerimonia della vestizione, pronta ad occupare il costosissimo letto di quella clinica privata, sola, persa nei propri pensieri, prigioniera della paura, abbandonata da tutto e da tutti, e circondata da estranei che facevano buon viso soltanto perché lei era una cliente pagante della merce ancora più preziosa del corpo svenduto al sesso: la malattia.
Si affacciò sulla soglia. Un volto improvvisamente radioso lo accolse con affetto sincero. Rimase così stordito per la sorpresa da doversi aggrappare allo stipite. Era qualcuno che conosceva e di cui si era completamente dimenticato. “Paolo, finalmente!” pronunciò quasi a singhiozzi suo suocero. “Che sorpresa… Era da tanto che ti aspettavo, ma la ragazza qui diceva sempre di non volerti dare questo pensiero. Che sciocchezze, no?”
Raggiunse la sedia accanto a quella di Barbara. Si fissarono in modo criptico. In un solo sguardo comunicarono quanto non erano riusciti a fare in tutti quegli anni agitati di un matrimonio agitato. Sua moglie si era irrigidita e dopo avergli rivolto un falso sorriso di benvenuto tornò a concentrarsi sul padre. Anche lui lo osservò, fingendo di sapere tutto.
Stentava a riconoscerlo. Era un manichino di cartapesta. La faccia scavata era l’impressionante monumento della morte. Gli zigomi erano così grandi, enormi, che sembravano sul punto di crollare. Gli occhi gialli e polverosi erano febbricitanti, pieni di quell’attività febbrile che riempie le ore notturne del malato.
“Pensa che credevo mi portassi rancore”, proseguì l’uomo nel suo soliloquio. Non avrebbe saputo come intervenire. Stropicciava le coperte. Dava l’idea di essere davvero felice per la visita. Parlava a ruota libera e non si curava delle reazioni. Non riusciva a staccare gli occhi dalla fragilità delle dita ossute. Volle mostrargli l'unità della coppia allungando la mano per stringere quella di lei. Subito percepì l'iniziale reticenza, poi si ammorbidì per scambiare il dono di quel piccolo gesto. Da quanto andava avanti quella storia? E cosa aveva permesso la sua esclusione? Si era lasciato scorrere tutto addosso, incapace di cogliere i segnali che chi ha bisogno di aiuto invia al di sopra delle parole? Aveva le mani gelide.
“Lo so che sono tanti soldi”, disse indicando con gesto intimidito lo sfarzo che lo circondava. “E io ero contrario. La mia vita è fatta, e non ho rimorsi, grazie a Dio. Non volevo essere di peso per nessuno”.
“Ti prego pà basta con questi discorsi”, lo ammonì gentilmente la figlia come chi combatte a lungo contro lo stesso genere di obiezioni.
Era frastornato. Ricordava vagamente allusioni alla vendita della casa di proprietà dove l’anziano genitore viveva ormai da solo dopo la morte della madre di Barbara. Ma si trattava di un modesto appartamento di edilizia convenzionata in un quartiere popolare. La famiglia aveva vissuto con decoro nonostante l’unico reddito di un lavoro umile ma assolto con orgoglio per decenni fino alla pensione funestata dal lutto improvviso e, scopriva ora, dalla malattia. Dei tre figli, solo lei non aveva smesso di occuparsi dei genitori. Il maggiore, uno sbandato, aveva fatto perdere le proprie tracce. Il secondo si era trasferito dall’altra parte del globo, e i contatti si erano diradati con il trascorrere del tempo e le trasformazioni della vita.
“Come te la passi?”, gli chiese allora per non contrariare la figlia, desideroso di udire un altra voce.
“Bene, bene. Mi dispiace essere venuto solo ora. Ci sono state un po' di incomprensioni…”
L’espressione del vecchio si fece contrita. “Spero di non essere io la causa. Barbara…” Lasciò la frase in sospeso. Tra i due esistevano ed erano sempre esistiti momenti di attrito che sfociavano nel silenzio reciproco e nel risentimento.
“Le cause sono nostre, Lorenzo, non farti idee sbagliate”.
Annuì, mettendo il broncio. Sul volto decrepito e sfatto l'espressione era così irragionevole da apparire comica. Eppure era come se un nuova luce interiore stesse scuotendo e lacerando la scorza di quella maschera funebre che provava a nascondere l'antico vigore, l'antica fierezza di vivere. “Ragazzi vi prego, non fate nulla di cui non potrete pentirvi”.
E ora che il ghiaccio era rotto proseguirono a parlare fino alla colazione. Entrò il personale infermieristico per somministrare i farmaci quotidiani. Paolo e Barbara si tenevano ancora per mano, e ne percepiva la tensione, il nervosismo. Di punto in bianco Paolo si alzò, dichiarando “Ci vediamo tra poco”.
Passarono dieci ore tra l'affermazione e il ritorno nella stanza di degenza del suocero. Tanto gli servì per tornare indietro, restituire l’auto, salire sul treno, farsi accompagnare in clinica dal taxi. Notò subito che dove avrebbe dovuto essere parcheggiata quella di Barbara non c’era più. E anche che lei non era in camera.
“E tu cosa ci fai qui?”, gli chiese, visibilmente sorpreso e contrariato.
“Ti ho detto che sarei ritornato”, gli ricordò pensando che la debilitazione lo confondesse. “Dov’è Barbara?”
“Come sarebbe, dov’è Barbara? Scende a casa tutti i sabato sera per stare con te e ritorna la domenica mattina… Paolo, rispondimi sinceramente, cos’è questa storia?”
Non rispose. Vide lo zainetto e ci ficcò le mani, angosciato da ciò che avrebbe potuto scoprire. Trovò nella taschina interna un cellulare: era quello di Rebecca. Febbrilmente cercò di individuare la logica degli sviluppi.
“Paolo…”
“Non è il momento” tagliò corto. Le vecchie paure erano tornate a bussare. “Non è il momento”.
La quietanza di un bonifico. Un versamento di cinquemila euro emessi un paio di settimane prima. Ciò poteva suggerire come dietro l’acronimo si celassero movimenti illegali oppure adombrati da un opportuno cono d'ombra.
Si distese sul sedile. Che novità era? Ne aveva intravisti altri ancora: 2500, 2200, 3000. E poi ancora e ancora. Tutti inoltrati ad una fondazione dal nome criptico che non alludeva a nulla in particolare. Neanche dopo una ricerca su internet ne ricavò qualcosa di concreto.
La sede della società offshore si trovava nei pressi di ***. Versamento registrato alle tre di notte di un lunedì. Di un altro pagamento aveva intravisto ora e data: pagava sempre a notte fonda, dopo essere rientrata dal weekend. Rammentò come nell’inserzione pubblicata sul sito lei escludesse ogni possibilità di prenotare i suoi servizi durante i fine settimana.
Il sabato successivo si appostò sotto casa. Era lei l’obiettivo. Affittò una macchina e parcheggiò nelle vicinanze già dalla mezzanotte. Se fosse partita prima dell’alba intendeva essere pronto. Chi andava ad incontrare? L’uomo con cui voleva rifondare la propria vita o gli esattori della banda di cui era caduta vittima?
Alle quattro del mattino raggiunse l'auto a capo chino. Portava valigia e zainetto. Si mise in marcia. Non era pratico di pedinamenti e poco mancò ci scappasse l'incidente. Le strade erano buie, gli automobilisti rari. Infilò l’autostrada e imboccò direzione nord. Quando alle cinque rallentò per infilarsi in autogrill lui percorse ancora un tratto e aspettò in un’isola di sosta. Avrebbe gradito un bel caffè bollente. Avrebbe gradito berlo con lei, come nelle volte che andavano via senza destinazione. Svuotò la vescica e restò in attesa.
La vide sfrecciare di gran carriera dopo una lunga pausa. Ricominciò l’inseguimento raggiungendola dopo parecchi chilometri in cui dubitò avesse preso un’altra uscita. In tangenziale le cose si complicarono: sebbene fosse un brutto sabato il traffico minacciava di fargli perdere le tracce. Ma non si arrese.
Barbara imboccò l'illusione barocca di un viale esclusivo, schivo e monumentale, attraversato da un viavai insolito. Per sicurezza mantenne le distanze. Un cancello permetteva l’ingresso ad un imponente nosocomio. Dottori e personale intrecciavano cammini lungo una ragnatela ordinata. La vide sgambettare veloce. La spiò ancora per tutto il percorso che seguì nella ripetitività dei reparti oncologici. Sulla cartellonistica dei padiglioni lesse soltanto orribili nomi. Gli sovvenne del bisogno di soldi, del segno sul collo, che forse non era stato provocato da qualcuno ma da qualcosa...
Fu preso dallo sconforto e dalla paura. Ad una reception si presentò per espletare le formalità di rito. Si sottoponeva a delle costose cure private contro un tumore? Abbordò il bancone e con voce bassa ed incerta chiese: “È passata di qui la signora Barbara Lombardi? Sono il marito”. Gli venne il capogiro a pronunciare quelle antiche, civilizzatrici parole: la sua signora, la sua donna, la sua vita. E lui era suo marito, il suo uomo, e voleva tornare ad essere la sua vita, anche se ne fosse rimasta poca.
“Sì, certo, poco fa”, rispose la ragazza con inflessione interrogativa. Forse la cosa procedeva da così tanto tempo che l’assenza del sostegno del marito durante il decorso traumatico delle terapie invasive non poteva passare come la svista di uno smemorato. Una sfumatura di accusa e di antipatia venava quello sguardo. “Stanza 15, in fondo al corridoio a sinistra”.
Percorse la direzione che gli era stata indicata ma le gambe cedettero. Quasi davanti alla soglia avrebbe voluto voltarsi e andarsene. La immaginò dedita alla cerimonia della vestizione, pronta ad occupare il costosissimo letto di quella clinica privata, sola, persa nei propri pensieri, prigioniera della paura, abbandonata da tutto e da tutti, e circondata da estranei che facevano buon viso soltanto perché lei era una cliente pagante della merce ancora più preziosa del corpo svenduto al sesso: la malattia.
Si affacciò sulla soglia. Un volto improvvisamente radioso lo accolse con affetto sincero. Rimase così stordito per la sorpresa da doversi aggrappare allo stipite. Era qualcuno che conosceva e di cui si era completamente dimenticato. “Paolo, finalmente!” pronunciò quasi a singhiozzi suo suocero. “Che sorpresa… Era da tanto che ti aspettavo, ma la ragazza qui diceva sempre di non volerti dare questo pensiero. Che sciocchezze, no?”
Raggiunse la sedia accanto a quella di Barbara. Si fissarono in modo criptico. In un solo sguardo comunicarono quanto non erano riusciti a fare in tutti quegli anni agitati di un matrimonio agitato. Sua moglie si era irrigidita e dopo avergli rivolto un falso sorriso di benvenuto tornò a concentrarsi sul padre. Anche lui lo osservò, fingendo di sapere tutto.
Stentava a riconoscerlo. Era un manichino di cartapesta. La faccia scavata era l’impressionante monumento della morte. Gli zigomi erano così grandi, enormi, che sembravano sul punto di crollare. Gli occhi gialli e polverosi erano febbricitanti, pieni di quell’attività febbrile che riempie le ore notturne del malato.
“Pensa che credevo mi portassi rancore”, proseguì l’uomo nel suo soliloquio. Non avrebbe saputo come intervenire. Stropicciava le coperte. Dava l’idea di essere davvero felice per la visita. Parlava a ruota libera e non si curava delle reazioni. Non riusciva a staccare gli occhi dalla fragilità delle dita ossute. Volle mostrargli l'unità della coppia allungando la mano per stringere quella di lei. Subito percepì l'iniziale reticenza, poi si ammorbidì per scambiare il dono di quel piccolo gesto. Da quanto andava avanti quella storia? E cosa aveva permesso la sua esclusione? Si era lasciato scorrere tutto addosso, incapace di cogliere i segnali che chi ha bisogno di aiuto invia al di sopra delle parole? Aveva le mani gelide.
“Lo so che sono tanti soldi”, disse indicando con gesto intimidito lo sfarzo che lo circondava. “E io ero contrario. La mia vita è fatta, e non ho rimorsi, grazie a Dio. Non volevo essere di peso per nessuno”.
“Ti prego pà basta con questi discorsi”, lo ammonì gentilmente la figlia come chi combatte a lungo contro lo stesso genere di obiezioni.
Era frastornato. Ricordava vagamente allusioni alla vendita della casa di proprietà dove l’anziano genitore viveva ormai da solo dopo la morte della madre di Barbara. Ma si trattava di un modesto appartamento di edilizia convenzionata in un quartiere popolare. La famiglia aveva vissuto con decoro nonostante l’unico reddito di un lavoro umile ma assolto con orgoglio per decenni fino alla pensione funestata dal lutto improvviso e, scopriva ora, dalla malattia. Dei tre figli, solo lei non aveva smesso di occuparsi dei genitori. Il maggiore, uno sbandato, aveva fatto perdere le proprie tracce. Il secondo si era trasferito dall’altra parte del globo, e i contatti si erano diradati con il trascorrere del tempo e le trasformazioni della vita.
“Come te la passi?”, gli chiese allora per non contrariare la figlia, desideroso di udire un altra voce.
“Bene, bene. Mi dispiace essere venuto solo ora. Ci sono state un po' di incomprensioni…”
L’espressione del vecchio si fece contrita. “Spero di non essere io la causa. Barbara…” Lasciò la frase in sospeso. Tra i due esistevano ed erano sempre esistiti momenti di attrito che sfociavano nel silenzio reciproco e nel risentimento.
“Le cause sono nostre, Lorenzo, non farti idee sbagliate”.
Annuì, mettendo il broncio. Sul volto decrepito e sfatto l'espressione era così irragionevole da apparire comica. Eppure era come se un nuova luce interiore stesse scuotendo e lacerando la scorza di quella maschera funebre che provava a nascondere l'antico vigore, l'antica fierezza di vivere. “Ragazzi vi prego, non fate nulla di cui non potrete pentirvi”.
E ora che il ghiaccio era rotto proseguirono a parlare fino alla colazione. Entrò il personale infermieristico per somministrare i farmaci quotidiani. Paolo e Barbara si tenevano ancora per mano, e ne percepiva la tensione, il nervosismo. Di punto in bianco Paolo si alzò, dichiarando “Ci vediamo tra poco”.
Passarono dieci ore tra l'affermazione e il ritorno nella stanza di degenza del suocero. Tanto gli servì per tornare indietro, restituire l’auto, salire sul treno, farsi accompagnare in clinica dal taxi. Notò subito che dove avrebbe dovuto essere parcheggiata quella di Barbara non c’era più. E anche che lei non era in camera.
“E tu cosa ci fai qui?”, gli chiese, visibilmente sorpreso e contrariato.
“Ti ho detto che sarei ritornato”, gli ricordò pensando che la debilitazione lo confondesse. “Dov’è Barbara?”
“Come sarebbe, dov’è Barbara? Scende a casa tutti i sabato sera per stare con te e ritorna la domenica mattina… Paolo, rispondimi sinceramente, cos’è questa storia?”
Non rispose. Vide lo zainetto e ci ficcò le mani, angosciato da ciò che avrebbe potuto scoprire. Trovò nella taschina interna un cellulare: era quello di Rebecca. Febbrilmente cercò di individuare la logica degli sviluppi.
“Paolo…”
“Non è il momento” tagliò corto. Le vecchie paure erano tornate a bussare. “Non è il momento”.
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