Serva di famiglia (parte 9)
di
Kugher
genere
sadomaso
Nala si sedette sul divano poco distante.
La sua voce tradiva tutta la sua eccitazione, cosa che sperava non accadesse. Tuttavia la situazione era troppo fortemente emotiva, per riuscire a celare le sue sensazioni.
Ormai Camille aveva capito che madre e figlia avevano parlato di quella possibilità, anche prima della speranza di avere soldi da parte dei suoi genitori. Forse avevano rimandato solo in attesa di vedere gli sviluppi.
Non ebbe particolari pensieri su questa circostanza.
“Dai mamma, mandala qui da me”.
Camille attese l’ordine che arrivò subito.
Michelle tolse i piedi e si chinò a dare una ulteriore carezza alla ragazza, quasi volesse rassicurarla sulle loro intenzioni nonostante la nuova situazione.
“Da brava Camille, vai da lei”.
Cercò di alzarsi per percorrere quella brevissima distanza. Non era giustificato che si alzasse in piedi ma pensava di coprire il percorso carponi.
Michelle le mise un piede sopra per impedirle di cambiare posizione.
“Striscia, cara, per andare da lei”.
La voce era morbida, quasi carezzevole. Non percepì il contrasto tra l’ordine ed il tono usato per impedirlo.
Camille era ancora un po’ stordita, coinvolta e stravolta dagli eventi.
Era successo tutto troppo in fretta. Sicuramente lei si sentiva condizionata dal fatto di sentirsi quasi una rifugiata.
In quei centimetri sul pavimento, per passare dai piedi di una ai piedi dell’altra, nel suo animo non lucido, passò di tutto: la sua vita precedente, il trauma di quel maledetto filo spinato, l’accoglienza in quella casa, le prospettive che erano cambiate dalla costruzione di quelle maledette torrette in mattoni, quel materiale che sapeva di solidità, che sembravano costruite per essere proiettate nel tempo e ricordare a chi le avesse viste che la situazione non sarebbe stata provvisoria.
Ecco, da quel giorno anche la sua presenza in casa divenne diversa. Da ospite si sentì sempre più quale intrusa, come colei che occupa uno spazio non suo nel quale viene tollerata. Tollerata in casa come fuori. Li vedeva gli sguardi dei residenti che la consideravano come “una di quelle che sta di là”. Già conosciuta prima, per la sua ricchezza e posizione, temuta ma sicuramente non stimata, ed ora una di loro o, peggio, meno di loro, perché nemmeno aveva cittadinanza.
Poi ancora il ricordo della sua vecchia casa e vecchia vita, vista come al cinema, una vita che sullo schermo pareva vicina ma in realtà non esisteva o, almeno, non esisteva più. La vedeva bidimensionale e in bianco e nero come nella sala di proiezione.
Il percorso sul pavimento, per raggiungere i piedi di Nala, era quasi concluso. Vedeva vicinissime le scarpe e le caviglie, senza osare alzare lo sguardo verso di lei, così come aveva guardato il meno possibile Michelle, stando ai suoi piedi.
Si sentiva combattuta, frastornata, come in gabbia e l’”ora d’aria” era costituita dalle carezze e dai sorrisi. Voleva sperare, doveva sperare, lo voleva fortemente che queste fossero sincere, sentite, pur in quella situazione assurda, fuori dal mondo.
Una cosa è accettare (o sopportare) di essere serva di una donna che avrebbe potuto essere sua madre. Altra esserlo di una ragazza più giovane di lei di qualche anno.
D’altro canto non le sfuggì il fatto che anche Michelle era stata serva di sua madre, quasi coetanea, anche se davanti a lei non aveva mai dovuto inginocchiarsi o strisciare.
Era diverso, però, il tono con il quale i suoi genitori si rivolgevano alla sua attuale Padrona, o Signora che fosse, e quello usato da questa nei suoi confronti.
Raggiunse i piedi della sua amica e si fermò quando il viso era vicino alle sue estremità. Pensò di dover andare più avanti, ma un piede della ragazza era stato posato sulla sua schiena, per imporle di fermarsi, pur senza alcun ordine vocale.
Vi fu un attimo di silenzio. Non sapeva come comportarsi, così restò immobile.
Nala attendeva a parlare, perché sentiva forte la sua eccitazione e si sentiva la testa girare per l’emozione.
La sua voce tradiva tutta la sua eccitazione, cosa che sperava non accadesse. Tuttavia la situazione era troppo fortemente emotiva, per riuscire a celare le sue sensazioni.
Ormai Camille aveva capito che madre e figlia avevano parlato di quella possibilità, anche prima della speranza di avere soldi da parte dei suoi genitori. Forse avevano rimandato solo in attesa di vedere gli sviluppi.
Non ebbe particolari pensieri su questa circostanza.
“Dai mamma, mandala qui da me”.
Camille attese l’ordine che arrivò subito.
Michelle tolse i piedi e si chinò a dare una ulteriore carezza alla ragazza, quasi volesse rassicurarla sulle loro intenzioni nonostante la nuova situazione.
“Da brava Camille, vai da lei”.
Cercò di alzarsi per percorrere quella brevissima distanza. Non era giustificato che si alzasse in piedi ma pensava di coprire il percorso carponi.
Michelle le mise un piede sopra per impedirle di cambiare posizione.
“Striscia, cara, per andare da lei”.
La voce era morbida, quasi carezzevole. Non percepì il contrasto tra l’ordine ed il tono usato per impedirlo.
Camille era ancora un po’ stordita, coinvolta e stravolta dagli eventi.
Era successo tutto troppo in fretta. Sicuramente lei si sentiva condizionata dal fatto di sentirsi quasi una rifugiata.
In quei centimetri sul pavimento, per passare dai piedi di una ai piedi dell’altra, nel suo animo non lucido, passò di tutto: la sua vita precedente, il trauma di quel maledetto filo spinato, l’accoglienza in quella casa, le prospettive che erano cambiate dalla costruzione di quelle maledette torrette in mattoni, quel materiale che sapeva di solidità, che sembravano costruite per essere proiettate nel tempo e ricordare a chi le avesse viste che la situazione non sarebbe stata provvisoria.
Ecco, da quel giorno anche la sua presenza in casa divenne diversa. Da ospite si sentì sempre più quale intrusa, come colei che occupa uno spazio non suo nel quale viene tollerata. Tollerata in casa come fuori. Li vedeva gli sguardi dei residenti che la consideravano come “una di quelle che sta di là”. Già conosciuta prima, per la sua ricchezza e posizione, temuta ma sicuramente non stimata, ed ora una di loro o, peggio, meno di loro, perché nemmeno aveva cittadinanza.
Poi ancora il ricordo della sua vecchia casa e vecchia vita, vista come al cinema, una vita che sullo schermo pareva vicina ma in realtà non esisteva o, almeno, non esisteva più. La vedeva bidimensionale e in bianco e nero come nella sala di proiezione.
Il percorso sul pavimento, per raggiungere i piedi di Nala, era quasi concluso. Vedeva vicinissime le scarpe e le caviglie, senza osare alzare lo sguardo verso di lei, così come aveva guardato il meno possibile Michelle, stando ai suoi piedi.
Si sentiva combattuta, frastornata, come in gabbia e l’”ora d’aria” era costituita dalle carezze e dai sorrisi. Voleva sperare, doveva sperare, lo voleva fortemente che queste fossero sincere, sentite, pur in quella situazione assurda, fuori dal mondo.
Una cosa è accettare (o sopportare) di essere serva di una donna che avrebbe potuto essere sua madre. Altra esserlo di una ragazza più giovane di lei di qualche anno.
D’altro canto non le sfuggì il fatto che anche Michelle era stata serva di sua madre, quasi coetanea, anche se davanti a lei non aveva mai dovuto inginocchiarsi o strisciare.
Era diverso, però, il tono con il quale i suoi genitori si rivolgevano alla sua attuale Padrona, o Signora che fosse, e quello usato da questa nei suoi confronti.
Raggiunse i piedi della sua amica e si fermò quando il viso era vicino alle sue estremità. Pensò di dover andare più avanti, ma un piede della ragazza era stato posato sulla sua schiena, per imporle di fermarsi, pur senza alcun ordine vocale.
Vi fu un attimo di silenzio. Non sapeva come comportarsi, così restò immobile.
Nala attendeva a parlare, perché sentiva forte la sua eccitazione e si sentiva la testa girare per l’emozione.
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