Sulla pelle di Eva Capitolo VIII

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genere
confessioni

Capitolo 7
Arrivò Natale. Michele mi aveva ignorato per tutto il tempo — forse vergognandosi per quello che era accaduto. Io avevo evitato di cercarlo, e Aldo aveva intuito che qualcosa non andava tra noi, ma non chiese nulla. La mattina dell’antivigilia, mio cognato — come ogni anno — partì con la comunità per disabili che frequentava, diretto al lago d’Iseo, dove avrebbe trascorso le festività. Ma, anche se era la cosa che desideravo di più, non saremmo rimasti soli. Attendevamo ospiti: Giorgio, un cugino di mio marito, sua moglie Mara e i loro due figli, Luca e Paolo due universitari al primo anno che si comportavano adolescenti viziati e pestiferi sarebbero venuti a passare le feste con noi. Non ne ero entusiasta. Giorgio era un fallito, e invidiava il successo che Aldo aveva ottenuto. Era agronomo anche lui, ma la sua azienda vinicola non aveva raccolto la stessa fortuna: era pieno di frustrazione e debiti. Giravano voci di una sua imminente bancarotta, e nascondeva il disagio dietro un sarcasmo costante. Manco a dirlo: visto che la vita non gli aveva concesso il lusso che aveva concesso al cugino, cercava in me , insidiandomi continuamente ,una valvola per il suo senso di rivalsa. Verso il mondo. Verso mio marito. A suo giudizio ingiustamente baciato dalla fortuna. Mara, sua moglie, era una giovane donna in frantumi. Succube di un uomo prepotente ,e secondo qualcuno, violento , molto più grande di lei. I due figli di lui, avuti dalla prima moglie, non miglioravano certo la sua condizione: avevano nei suoi confronti atteggiamenti a dir poco inopportuni.
Il campanello suonò alle undici e mezza. Aldo andò ad aprire, Sentii la voce di Giorgio prima ancora di vederlo. Quel tono ironico, sempre un po’ troppo alto, come se dovesse dimostrare qualcosa a ogni parola, già mi irritava.
Andai ad accoglierli cercando di mettere da parte il disagio che quell’uomo mi suscitava.
Mara lo seguiva in silenzio, con un cappotto troppo leggero per il freddo e uno sguardo che sembrava chiedere scusa per il solo fatto di esistere. Dietro di lei, Luca e Paolo si spingevano a vicenda, ridacchiando. Avevano lo stesso modo di camminare del padre: invadente, rumoroso, inconsapevole.
Quando Mara mi vide, mi sorrise. Un sorriso piccolo, fragile, di circostanza che si spezzò subito. Mi colpì la sua postura nell’abito elegante corto, tagliato, che forse la esponeva troppo, più di quanto sembrava voler veramente mostrare: le spalle curve, le mani strette sul manico della borsa, come se dovesse trattenere qualcosa.
Mi sentii solidale verso di lei.
Ma c’era qualcosa in lei che mi inquietava. Non era solo tristezza. Era rassegnazione nell’idea di essere costretta in una trappola da cui non poteva liberarsi.
Giorgio l’aveva conosciuta durante un suo stage nella sua azienda ,una giovane universitaria, l’aveva sedotta, con un lusso e un potere che in verità non aveva e Mara ,forse ingenua ,forse speranzosa di trovare una sistemazione per il suo futuro si era lasciata sedurre.
Nel primo pomeriggo io e Giorgio rimanemmo soli in casa. Gli altri erano usciti per una passeggiata, io avevo preferito restare a preparare la cena. Giorgio entrò in cucina, con una bottiglia di vino e quell’aria da uomo che si sente in credito con il mondo, della sua azienda vinicola insistendo che avremmo bevuto quello a cena.
Si aggirava per la cucina come se fosse la sua, osservandomi con uno sguardo che non era semplice curiosità. Cercava qualcosa. Forse conferme. Forse un varco.
Mi studiava, con la stessa attenzione con cui si valuta un terreno prima di seminarlo.
Non era desiderio, era strategia. Io lo sapevo. E lui sapeva che io lo sapevo. In quel gioco muto, fatto di distanze calcolate e presenze troppo vicine, c’era qualcosa di sporco e insieme affascinante.
Non mi toccò. Non ne ebbe bisogno. Bastava il modo in cui mi stava addosso con gli occhi, come se volesse dimostrare a se stesso che poteva ancora ottenere qualcosa. Non da me. Da ciò che rappresentavo, poteva prendere per se qualcosa che suo cugino Aveva ottenuto con il successo.
Qualcosa che in un passato di cui avevo cercato di rimuovere il ricordo, aveva ottenuto e forse memore di quel mio attimo di debolezza, dicendomi che gli ero mancata, mise da parte gli indugi e passò all’azione.
Mentre mescolavo il ragù sul fuoco, si incollò a me prese a baciarmi il collo e poi senza chiedermi il permesso, si inginocchio dietro di me ,sollevò il vestito e una volta scoperte le natiche prese a baciarle, prima una poi l’altra per poi insinuare la propria lingua grassoccia e umida tra di esse rubando il sapore della mia carne appena celata sotto un sottile lingua di stoffa celeste.
Se non fosse stato per il campanello che annunciava il ritorno di Aldo e dei nostri ospiti ,forse avrei commesso qualcosa che di nuovo avrei dovuto rimuovere dalla mia memoria.
Più tardi prima di cena l’atmosfera di natale sembrava corrotta da una tensione che impregnava l’aria.
Mara si muoveva per casa con la cautela di chi ha imparato a non farsi notare. Quando apparecchiava, lo faceva in silenzio, piegata sul tavolo, come se ogni gesto dovesse essere invisibile. Luca e Paolo le giravano intorno con un’ironia che non aveva nulla di infantile. La sfioravano troppo spesso, troppo a lungo. Ridevano tra loro, si scambiavano sguardi complici che Mara fingeva di non vedere. Non li rimproverava. Non si ritraeva. Era come se avesse accettato quel ruolo, come se avesse capito che opporsi avrebbe solo peggiorato le cose, come se quei gesti fossero qualcosa di quotidiano, normale.
Aldo e Giorgio parlavano di affari seduti sul divano e parevano non badare troppo a quello che stava avvenendo
Io osservavo. Non intervenivo. Non sapevo se fosse paura, prudenza o qualcosa di più oscuro. Ma dentro di me cresceva un fastidio sordo, una rabbia che non trovava voce. Non per lei. Per me. Per tutte le volte in cui ,non ero stata capace di mantenere il controllo e che avevo lasciato che gli sguardi degli altri e le loro azioni decidessero chi ero.
Fu più forte di me.
Lo decisi senza pensarci troppo. Non fu un gesto eroico, né una forma di pietà. Fu istinto. Vidi Mara schiacciata da sguardi che non le appartenevano, da attenzioni che non chiedeva.
Vidi Giorgio guardarla e trattarla come si guarda un oggetto che ha perso valore, e i suoi figli trattarla come se fosse trasparente o peggio, come se fosse disponibile.
E capii che, se non avessi fatto qualcosa, quella tensione avrebbe continuato a crescere, a deformarsi, a diventare insostenibile.
Così decisi di attirarla su di me. Non fu difficile. Mi bastò tornare di sopra con una scusa, entrare in camera, aprire l’armadio e scegliere. Ci misi un pò e la decisione non parve mia, fu l’abito a pretendere di essere indossato e cosi feci.
Il tubino nero che indossavo aveva una lucentezza innaturale, quasi liquida. Aderiva al corpo come pelle bagnata, sembrava vivo. Lucido, stretto ,elastico, con una texture che ricordava la pelle di un serpente appena uscito dall’acqua.
Sembrava sciogliersi sopra le mie curve, sui fianchi, le cosce scoperte appena sotto le natica, come se non fosse fatto per durare. Non era solo un abito. Era una superficie instabile, una pelle che non proteggeva, ma esponeva. Indossarlo era come dichiarare guerra al silenzio.
Lo avevo indossato poche volte, a volte con una certa esitazione, non sentendomi degna della sua sfida. Ma quella sera non esitai. Non era provocazione. Era strategia. Il tessuto si muoveva con me, tratteneva la luce, la restituiva in ombra. Non servivano gioielli, né ritoccare il trucco. Bastava il corpo, bastava la linea. Quando tornai giù, sentii gli sguardi cambiare. Aldo mi osservò per primo, con quella distrazione che si trasforma in attenzione solo quando qualcosa si sposta. Le sue sopracciglia si aggrottarono, come se fosse diviso tra ammirazione e imbarazzo. Sembrava indeciso se giudicare il mio abito adatto o troppo provocante. Non disse nulla, ma nel suo sguardo c’era una tensione nuova , un tentativo di contenere qualcosa che non aveva previsto, una versione di sua moglie che forse non voleva condividere. Poi Giorgio, che smise di guardare Mara e cominciò a seguire i miei movimenti e i suoi occhi non mi lasciarono più per un solo secondo. Infine Luca e Paolo, che iniziarono a cercarmi, a commentare sottovoce, a ridere senza motivo. Lessi nel loro tono l’eccitazione tipica degli adolescenti. Non mi sentii potente. Mi sentii necessaria. Come se il mio corpo fosse diventato un filtro, un parafulmine, qualcosa che poteva assorbire il veleno e restituirlo in forma controllata. Lo feci per Mara. E lo feci per me. lo feci per Aldo per testimoniare le conquiste ottenute con il duro lavoro. Perché era un gioco, un quel gioco, non sarei stata pedina, ma artefice, architetto di quella situazione.
Ci sedemmo a tavola. I due nipoti pretesero di sedersi accanto a me, separandomi da Aldo, che occupava l’altro capo insieme a Mara. Giorgio, sempre arrogante e inopportuno, si era accomodato a capotavola. Teresa — la signora che due volte a settimana mi aiutava nelle faccende di casa, dietro compenso — ci avrebbe servito la cena.
I due ragazzi non mi diedero un attimo di tregua. Mentre cercavo di contenere le mani di uno, l’altro ne approfittava per insinuarsi negli spazi che ero costretta a lasciare liberi. Era un gioco silenzioso, ma continuo. Un assedio fatto di contatti sfiorati, di sguardi troppo lunghi, di risatine soffocate.
Aldo non pareva accorgersi di nulla. Mara, forse grata di non essere — per una volta — al centro delle loro attenzioni, taceva. Giorgio, da canto suo, sembrava aver colto la situazione. E gradiva. Gradiva l’iniziativa dei figli, come se fosse una conferma, una prova di virilità, un’eredità che si compiaceva di riconoscere.
L’imbarazzo, la vergogna, la paura di essere scoperta si mescolavano dentro di me. La necessità di restare immobile, impassibile, per non dare nell’occhio, finì per rendermi accessibile ai capricci dei due ragazzi. Sentivo il vestito tirarsi, sollevarsi, come se non fosse più mio. Le loro mani cercavano, esploravano, invadevano e io, nel tentativo di non tradire nulla, restavo ferma. Teresa, la povera Teresa, donna di chiesa, si accorse di qualcosa. Fece il segno della croce, poi abbassò lo sguardo sparecchiando la tavola. Io mi alzai. Non per pudore. Non per rabbia. Mi alzai per non cedere. Per non lasciar che il piacere, improvviso e indecente, prendesse il posto dell’imbarazzo e della vergogna, per non concedere a quei due mocciosi viziati ,qualcosa che gia il padre tempo a dietro si era gia preso.
Chiedendo scusa ai presenti, lasciando Aldo abbastanza confuso, corsi al piano di sopra. Mi chiusi in bagno. E lì, finalmente, respirai.
Cercavo di riprendere il controllo, di ricompormi, di ricacciare indietro ciò che si era acceso dentro di me. Ma non avevo ancora smaltito l’eccitazione che i due mi avevano lasciato addosso. Quando sentii Giorgio, al piano di sotto, invitare i figli a salire per vedere se la loro zia stava bene, tramai. Sapevo che non era premura. Era un gioco sadico a cui il loro padre mi invitava a giocare. E io, consapevole del mio stato, del mio corpo ancora teso, ancora vulnerabile, capii che se fossero entrati, se mi avessero trovata così, avrei finito per commettere un altro errore. Uno di quelli che non si dimenticano.
Luca e Paolo entrarono senza nemmeno bussare. Rimasi immobile, tremante, in attesa. Mi circondarono, come se sapessero esattamente dove riprendere ciò che avevano lasciato a metà. Le loro mani tornarono su di me, leggere ma decise, come se il mio silenzio fosse un invito.
La mia difesa fu debole, le proteste appena accennate. Non ero sicura di volerlo. Non ero sicura di meritarlo. Ma lo avevo provocato, indotto, costruito — gesto dopo gesto, sguardo dopo sguardo — per tutta la sera.
Chiesi un momento, un pretesto, un respiro. Dissi che dovevo andare in bagno. E loro, a modo loro, mi seguirono.
Mi ritrovai sospesa, sollevata, esposta. Il vestito ridotto a una striscia nera intorno alla vita, il corpo riflesso nello specchio, nudo e vulnerabile. C’era imbarazzo, sì. Ma anche qualcosa di più profondo, più oscuro. Un bisogno che non avevo previsto. Un piacere che non avevo chiesto. E che, proprio per questo, mi travolse.
Esposta come poche volte nella mia vita ero stata, mentre i due mi invitavano a abbandonare gli indugi, lasciai che l’impellente bisogno fisico trovasse il suo sfogo.
L’urina si sparse ovunque, la povera Teresa avrebbe avuto da fare, quando ebbi finito ,mi ritrovai sul pavimento in gionocchio davanti ai due fratelli e il loro sesso offerto davanti al mio viso.
Dieci minuti dopo Luca e Paolo lasciavano il bagno soddisfatti dandosi il cinque mentre io restavo seduta sul marmo gelido sotto di me, nuda, sconfitta eppure vincente, con il loro seme a farmi da maschera sul viso ,a colarmi sul petto e scivolare dentro la gola.
Dopo essermi data una sistemata, scesi di sotto. In fondo alle scale trovai Aldo, con le mani sui fianchi. I suoi occhi indagatori restavano su di me. Non ebbi il coraggio di sostenerne lo sguardo.
Dietro di lui, Giorgio sedeva in poltrona. Mi guardava divertito, fumando un sigaro ,anche se sapeva che odiavo che si fumasse in casa. Alla sua destra, sul divano, i suoi figli. Incredibilmente non paghi di ciò che avevo offerto, riservavano alla moglie del loro padre le stesse attenzioni che avevano avuto per me. Celavano, dietro atteggiamenti di affetto che sfociavano nel morboso, una fame che non si era placata e Mara li assecondava, come se non poteva far altro. Come se tutto quello che avevo fatto fosse stato inutile, un semplice aperitivo che ne aveva acceso l’appetito.
Lo sconforto mi assalì. Non per ciò che era accaduto. Ma per ciò che stava continuando ad accadere , sotto gli occhi di tutti, e nel silenzio, nella complicità di ciascuno.
scritto il
2025-11-02
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