Sbattimi!

di
genere
saffico

Nel groviglio di strade non riesco più a orientarmi.
Ho imboccato già tre viottoli pensando ogni volta che in qualche modo sarei arrivata e invece mi sono persa ancora di più. Google maps mi sbatte continuamente in qualche vicolo cieco. Decido alla fine di chiedere aiuto a un passante.
Non è sempre facile per me interloquire con le persone del posto: nella maggior parte dei casi mi si rivolgono in inglese e quando parlo in italiano mi guardano come se fossi un'aliena. In questa città poi il rischio di incomprensione è ancora più concreto.
“Scusi!” Ottengo attenzione da un signore di mezza età, “come faccio a raggiungere i quartieri alti?”
Quello per fortuna non si lascia intimorire dai miei tratti orientali. Si guarda in giro per orientarsi e mi indica una direzione: “Hela, huu, ala hula hea, ada haa!”
Il discorso non sembra fare una grinza, ma: “Scusi? Non ho capito.”
Quello mi si avvicina, pensando che non abbia sentito il tono della voce. Si china un poco e gesticola con il braccio chiarificando il percorso da seguire: “Ada hua! De hee, fess”, piccola pausa, “anda haa, hura, pess, pess, enda haa!”
“Mi perdoni, non riesco a capirla.” Questo vizio di intendere l'italiano e rispondere in dialetto che si incontra in qualche città di provincia!
“Fò de coo, herv de poia, desda fö na holta, fass ciaaa!” Mi risponde quello, visibilmente stufo e incazzato e se ne va mandandomi a quel paese con un gesto internazionale che almeno riesco a distinguere.
Di tutto il discorso che mi ha fatto, e riconosco se non altro la sua gentilezza a dedicarmi del tempo, applicando molta fantasia penso di aver capito solo le ultime sue parole: “Va a farti chiavare”.
È esattamente questo il mio intento. Se solo trovassi dove abita Fuuka.
Però a bracciate mi ha indicato almeno la direzione e con google riesco a raggiungere l'abitazione che cerco. Ora posso seguire il consiglio che mi ha dato il signore gentile.

Ed ecco, sono sul letto di Fuuka. Il silenzio ricorda quello di un tempio buddista. Gli incensi bruciano ai quattro angoli del talamo e il sole gioca con le spirali di fumo frammentandole in segnali morse, come un linguaggio solo sussurrato, qualcosa che non si può pronunciare a voce alta per timore di spezzare un incantesimo, un'intesa spirituale che trascende le regole razionali.
Lei, in mutandine di pizzo. Così trasparenti che la fine filigrana bianca si staglia sulla sua pelle eburnea come se ci avessero scolpito i versetti coranici delle finestre di Alhambra.
Una canotta larga con i colori dei Lakers di Los Angeles e sotto niente. Così larga che basta che si pieghi un poco in avanti per farmi vedere tutto.
E lei è esattamente in questa posizione, ora, gattoni a cavallo dei miei fianchi mentre mi lega i polsi agli angoli del letto.
Un rituale che viene ripetuto con una precisione nella sequenza dettagliata delle operazioni che ricorda una consacrazione, un rito magico.
La musica di Brian Eno “Stars” rende tutto irreale.
Mi sfila i calzoni lasciando anche me in mutande. Il tessuto già macchiato dalla mia eccitazione non sarà sfuggito al suo sguardo.
Mi piega le ginocchia e mi lega le caviglie alle cosce, obbligandomi in una posizione di sottomissione.
Mi slaccia i bottoni della camicetta senza divaricarne i lembi, poi si alza in ginocchio tra i miei piedi nudi e contempla la sua opera.
I suoi capezzoli che si stagliano attraverso il tessuto della canottiera tradiscono la sua eccitazione.
Due antenne che bucano il cotone. Le sue tette a punta in su.
Io sono lì, sotto ai suoi occhi.
Le braccia legate, la camicetta semi aperta lascia intravedere la pelle nuda dello sterno, ma i miei seni sono ancora coperti. Il ventre nudo intorno al mio ombelico, le mutandine ormai bagnate, ultima difesa tra le mie cosce aperte e le corde che mi vincolano.
Fremo dal desiderio che mi apra la camicetta, che mi guardi le tette, ma lei resta in contemplazione della sua opera d'arte.
Io.
Così come sono, mezza nuda, ma non ancora nuda, posseduta, ma non del tutto.
In attesa.
Tutto deve ancora compiersi, ma tutto è già pronto, ogni cosa è stabilita.
Il mio corpo.
Lei si china su di me, come un felino, una pantera a caccia. Il mio sguardo affonda nella sua scollatura che viene lasciata apposta sotto ai miei occhi, provocante, sfacciata, esplicita.
Con i denti mi prende un lembo della camicia e me lo striscia sul seno, scoprendo un capezzolo.
Quel movimento, quel lento attrito, la frizione sulla mia pelle. Una scarica elettrica che mi fa contrarre il bacino in scosse incoercibili. E non ha ancora cominciato a toccarmi veramente.
Si avvicina, ma non mi tocca.
Mi annusa il capezzolo.
Ora non sono una donna, sono la sua preda.
Lei sa che non posso scappare e dilata gli attimi in anni, le frazioni di secondo in ere geologiche in cui sale la tensione erotica e il desiderio.
La sensibilità della pelle si acuisce, gli ormoni corrono all'impazzata nelle arterie.
Un sottile strato di sudore per l'eccitazione incontenibile mi vela la pelle dei seni e delle cosce.
La mia superficie luccica sotto impietosi raggi di sole. Sulla mia cute le ombre dei fumi degli incensi, variabili indipendenti.
Fuuka si inebria del mio odore, un misto di profumo, sudore ed eccitazione.
Il mio capezzolo si erge a chiamare il contatto con la sua bocca, ma le sue labbra mi sfiorano soltanto e un nuovo sussulto schianta il mio corpo.
Il mio bacino si alza verso di lei, la mia figa la chiama a penetrarla e ancora nessuna di noi sa con precisione quanto tempo ancora ci vorrà e in che condizioni sarà la mia coscienza già provata quando si deciderà il mio destino.
Con i denti prende l'altro lembo della camicia aperta e come un sipario apre la scena sull'altro seno.
Sento i capezzoli gonfi, le areole sporgenti e sensibili.
Lei ancora mi annusa e percepisco un contatto che è solo nella mia mente, non esiste nella realtà, eppure è sufficiente per provocarmi un nuovo balzo del bacino.
Riflessi primordiali, saldamente in pugno alla donna che mi sta dominando.
Fuuka ora non è più una donna, è un predatore che contempla la sua vittima, privata della possibilità di fuggirle.
Nella contrazione involontaria del bacino il seno mi sobbalza e tocca le sue labbra e stavolta è un gemito che sfugge dalla mia bocca.
Lei continua la sua danza felina. Mi annusa tutto il seno, ne delimita i confini.
Il contatto sfumato, solo suggerito, tra il mio seno e le sue labbra, mi provoca una tensione muscolare dolorosa. Spasmi vaginali si sciolgono in umori caldi che mi ammorbidiscono la vagina in preparazione a un atto sessuale che si fa attendere.
Finalmente le sue labbra assaggiano il sapore dei miei seni.
Pinzettamenti, la sua bocca cattura e stira lembi della mia pelle mentre, paralizzata, non riesco nemmeno a respirare. Solo quando si allontana riesco a tirare un sospiro che è più una supplica, una resa, un abbandono.
Con le labbra ora mi tormenta un capezzolo.
Stringo i pugni tra le legature che mi bloccano i polsi. Vorrei trascinarle la testa sul mio petto, passarmi l'altra mano sulla vulva che chiede di ucciderla, per pietà, per un residuo moto di umanità.
Ma le corde mi trattengono fino a farmi male, impedendomi ogni movimento.
Mi sfiora l'areola con la lingua. La sensazione del caldo della sua bocca e poi il fresco della saliva che evapora.
Mi prende un capezzolo tra i denti e lo tira fino a farmi male.
“Stronza” bisbiglio, ma lei non risponde.
Un massaggio tra le labbra, un balsamo per il capezzolo, un lampone sensibile ed eccitabile.
Ancora mi annusa, l'odore della sua saliva e del mio sudore.
L'aroma della mia figa giunge forte e selvatico fino alle mie narici.
Il mio bacino si muove in lente oscillazioni alla ricerca di un contatto interno, di qualcosa che mi penetri fino a dilaniarmi.
Con le labbra mi accarezza i seni, ogni tanto affonda nel mio tessuto elastico e poi mi lecca.
Lentamente, come una gatta che lava i suoi cuccioli.
Una lingua che scotta, che scuote.
Mi tira un succhiotto.
Poi si alza, lentamente, non prima di avermi regalato una nuova prospettiva nella sua scollatura.
I suoi seni pendenti, prigionieri della gravità, oscillano assecondando i suoi movimenti.
Lei, sopra di me.
La mia dominatrice.
“Sei una troia, Yuko!”
Una sberla su una tetta mi fa gemere di dolore e di piacere.
Quel dolore che, quando l'eccitazione è alle stelle, viene condotto su vie nervose anomale e finisce nei centri del piacere, distorcendo le sensazioni, amplificandole, arricchendole quando i canali morfeici sono saturi.
Ora allarga la mia camicia scoprendomi completamente il petto, fino alle spalle.
Ancora mi annusa, la puttanella, dal pube fino alle ascelle, sfiorandomi con il suo naso, torturandomi con il fiato che mi soffia addosso dopo avermi leccato, facendo orripilare la mia pelle.
Poi resta lì a guardarmi, le mie tette gonfie di desiderio, i capezzoli ancora eccitati e le sue strisce di saliva in geografie polimorfe sulla mia pelle.
Da sotto il letto estrae un coltello da cucina e si avvicina a me, attenta a non cadermi addosso.
Allarga le gambe davanti alle mie cosce aperte e si inginocchia sulle mie mutandine.
Solleva un lembo intorno all'inguine e ci infila la punta della lama, il filo verso l'esterno, fino a spuntare sopra all'elastico.
Lo slip si solleva sui miei peli neri, una visione che fa sussultare la mia torturatrice, che però non si lascia sviare dal suo intento.
Solleva il cotone bianco e bagnato.
Tira, tira ancora allo spasimo il mio indumento intimo, con quel metallo affilato, fino a quando, con una lieve angolazione il filo incide il bordo e la mutandina si lacera di scatto con un rumore secco.
Il mio pube, la selva ordinata del mio pelo, schiacciato e addomesticato dal cotone, percepisce il fresco dell'aria, esacerbato dal mare che mi cola dalla vulva e che, all'aria fresca, inizia a evaporare spandendo intorno la confessione della mia eccitazione.
Lei sta a guardare con orgoglio l'opera del suo dominio.
Una donna nuda e legata, davanti ai suoi occhi insaziabili, tette e pelo pubico, una mutandina lacerata da un colpo di coltello.
Sporgo il pube verso il suo muso, cercando di sedurla, di addomesticare la belva, di farle arrivare più forte l'odore della mia figa, ma lei non si muove.
Sposta un po' il capo per guardarmi meglio, per scrutare da sotto i peli le mia labbra, il liquido che mi cola dalla vulva e scivola sul sedere.
E ancora non mi tocca.
Si china su di me senza contatto.
Ancora è il suo olfatto a inebriarsi del mio odore di donna, dei miei sentori più intimi ed espliciti.
Solo una pietosa carezza con la lingua, che mi dilata le piccole labbra fin quasi al clitoride.
Un elettroshock.
Una violenta contrazione del bacino e un lamento stroncato da una convulsione che mi blocca il respiro.
Lei mi prende per le ginocchia e mi allarga le gambe governando i miei movimenti.
La mia figa si apre, lo sento dal fresco che mi arriva nelle pieghe più interne.
Il suo sguardo si sazia della mia anatomia, dei miei particolari.
Le grandi labbra incorniciate dagli ultimi peli, neri e dritti, bagnati e agglutinati nel mio muco.
Le piccole labbra scure, quasi nere, fino al clitoride grigio rosa.
Con le dita lo scopre, lo inquadra, lo contempla.
Con la mucosa vulvare me lo spompina, su e giù, facendomi contorcere come un'anguilla.
Un lamento che sembra un ululato alla luna. Tiro le braccia fino a sentire il dolore delle corde sui polsi.
E poi si solleva a guardarmi.
“Puttana, finisci il tuo lavoro” la provoco.
“Zitta, troia!”
Cosa sarà di me adesso?
Di nuovo allunga la mano sotto il letto.
Ma cosa nasconde lì in basso? Un museo delle torture, un pornoshop?
Quello che ne esce mi ghiaccia il sangue.
Un cazzone gigante, nero come la morte nera di Guerre Stellari, uno strap on per ippopotami.
Con gli occhi sbarrati guardo Fuuka, ammutolita, pensando a cosa sta per succedere.
“Ora ti sfondo, Yuko.”
Così, detto semplicemente, con un sorrisino da stronzetta.
Si sfila la canottierina rimanendo a seno nudo, con solo le mutandine, e si lega le cinghie di cuoio nero di quel membro gigante molto realistico, corredato di completo apparato venoso che promette stimolazioni aggiuntive.
“Succhia, baldracca!” Mi ordina, avvicinando l'oggetto delle prossime sevizie al mio volto.
Di cazzi in bocca ne ho presi già tanti, ma questo rischia di soffocarmi.
Apro le labbra e mi lascio penetrare. Lei orchestra i movimenti e io la assecondo con quello che riesco a fare, legata come sono. Lo bagno, mi lascio riempire, ci sputo sopra, me lo passo contro la guancia mentre lei contempla la mia umiliazione.
Non è come il cazzo di un uomo, non ne ha il sapore né il calore, ma è il cazzo con cui Fuuka sta scopando la mia bocca, e questo mi eccita come una porca.
Lei mi guarda compiaciuta. Le braccia avvinghiate nei lacci, la mia bocca attorno a quella bestia nera che mi arriva in gola.
Quando Fuuka è soddisfatta mi estrae il mostro dalle labbra e si porta di nuovo ai piedi del letto.
Mi appoggia le mani sulle ginocchia e mi allarga le cosce.
Sputa sulla mia vulva e poi bagna della propria saliva il fallo di lattice.
Mi si avvicina come un moschettiere in guardia col suo fioretto, mi punta la figa, la tocca facendomi sussultare. Una scossa del bacino e la punta del dildo mi percorre il solco vulvare toccandomi il clitoride. Un nuovo urlo mi scappa dalle labbra, un avvertimento.
Lei riprende il controllo delle mie ginocchia, mi spalanca le cosce e dirige la punta per toccarmi.
Fa scorrere la cappella nera sulle mie labbra, poi ci entra in mezzo mentre io spingo con bacino per essere impalata, per farmi penetrare.
L'uccello gigante scivola su e giù, toccandomi il clitoride, distillando il mio piacere perverso, coltivato e in cerca di una sazietà che tarda a compensarmi.
Poi lei scende, dirige la punta verso l'apertura della mia vagina.
Si accosta, si impone, iniziando a dilatarmi.
Un movimento lento, un'introduzione senza fine e il grosso cazzo mi entra dentro, tutto intero.
È spaventosa la capacità di contenere che la vagina di una donna riesce a disporre con un po' di allenamento, e vedo scomparire l'enorme uccello tutto dentro al mio ventre.
È una stimolazione viscerale quella che sconquassa il mio interno e che mi fa chiudere gli occhi, inarcare la schiena e buttare indietro il capo.
Una sensazione indescrivibile che parte dalla vagina e ti risale lungo il ventre, i capezzoli e le ascelle per trapanarti il cervello e obnubilare i tuoi sensi, imbavagliare la ragione.
Dopo tutta la giostra della seduzione che Fuuka ha orchestrato attorno al mio corpo, ora che la sento dentro mi sento svenire.
Le pareti della vagina si dilatano mentre quel coso entra, penetra, viola la mia intimità imponendosi nell'interno del mio ventre.
La pressione contro le mucose, le irregolarità che strisciano al mio interno mi soffocano la mente facendo schizzare piacere da ogni mia apertura.
Un urlo soffocato mi logora la gola, un rantolo di piacere e di perdizione allo stato puro.
Stringo i pugni e mi tiro sulle corde che mi legano i polsi, quasi sollevata dalla bestia che mi possiede.
Fuuka si ferma dentro di me, mentre riprendo i sensi e il respiro affannoso trova regolarità dopo il singulto di apnea. Il suo corpo a contatto col mio, le sue cosce contro le mie, le sue mani che mi spalancano le ginocchia e mi tengono aperta, dilatata, come un libro di lettura.
Mi guarda mentre riapro gli occhi e lentamente si sfila da me.
Percepisco nella figa ogni centimetro di quel cazzo nero ricoperto di vene.
Lei esce e mi guarda con aria di sfida.
Fili di bava argentata uniscono lo strap on alla mia vulva.
Io completamente in suo possesso. In possesso di orco, un demone da cui nessuno potrà esorcizzarmi.
Di colpo rientra dentro di me.
Una spinta brutale, violenta, improvvisa.
Entra tutta dentro toccandomi l'utero.
Gemo di dolore: “Fuuka, fai più piano, ti prego. Sono una donna, non il personaggio di un tuo racconto.”
Lei si morde un labbro, esce lentamente; uno scatto netto quando il dildo spunta dal mio vestibolo.
Una mano afferra una bottiglietta di lubrificante e ricopre la bestia nera.
Poi mi apre la vulva, il buco che porta alla vagina ancora aperto, beante. Lei mi riempie di olio, come una coppa di champagne.
Poi di nuovo, il cazzone mio entra dentro, lento, ma inesorabile. Spinge ancora in fondo, resta fermo mentre mi sembra di esalare l'ultimo respiro, un sibilo asmatico che veicola il piacere più animale.
E inizia un moto vorticoso, un rumore di lussuria mentre il dildo si ricopre della mia schiuma bianca. Un urlo a ogni penetrazione.
Vorrei stringere la ragazza al mio seno, ma sono legata, manovrata, scopata con violenza da una donna. Le mie urla si intensificano e non cerco più neanche di soffocarle.
Quando sto per venire Fuuka si ferma ed esce.
“Stai godendo, troia, vero?”
“Finiscimi, Fuuka, sfondami, sbattimi, sventrami, ma uccidimi, ti prego!” Imploro in lacrime. Il sudore mi gocciola dal collo e dai seni, i capelli mi si appiccicano alla fronte.
Lei afferra il coltello e mi taglia i legacci delle caviglie.
Contemplo i segni rossi delle corde sui miei malleoli e sulle cosce mentre ansimo in uno stato di confusione mentale.
Lei mi prende le caviglie e mi raddrizza le gambe. Le allarga e si infila ancora dentro provocandomi uno spasmo che mi contorce il ventre.
Poi mi unisce le gambe tenendole dritte e mi scopa da sotto. Mi entra fino in fondo ed esce, poi spinge di nuovo, più forte.
Il rumore che facciamo è osceno, solo in parte coperto dalle mie urla che ormai non controllo più. Lei si mette due dita nel culo; continua a scoparmi e intanto scopa se stessa.
Presto le sue urla si sommano alle mie in questo ritmo bestiale, in questa possessione diabolica.
Ormai non possiamo più fermarci, ormai abbiamo passato il limite del non ritorno.
Lei allarga le mie gambe e se le appoggia sulle spalle, mi afferra per una coscia e si spinge sempre più violentemente dentro di me.
E quando sente che sto per scoppiare rallenta il ritmo dentro di me e accelera quello delle sue dita nel profondo di sé.
“Vengo, amore” mi sussurra mentre io non riesco più a trattenermi.
È la parola d'ordine, la mia fine, l'epilogo di questa insostenibile tortura che chiede il suo compimento.
Esplodo assordata dalle sue urla. Un lungo gemito strozzato, una fuga d'aria che mi lascia i polmoni asfittici e poi una scarica di contrazioni involontarie, un'epilessia di contorcimenti, mentre mi ferisco i polsi a sangue contro le corde e stringo i pugni, gli occhi e lo stomaco.
Un orgasmo infinito, che non cede, che non molla di intensità.
Lei mi abbraccia le cosce e mi si spinge ancora più dentro, fino al midollo, fino all'anima, e poi si accascia su di me.
Le mie cosce, abbandonate dalla sua presa cascano morte ai due lati e accolgo Fuuka sul mio ventre, il suo capo sul mio collo, i suoi capelli sui miei seni.
Così, una morte dolce, eutanasia reciproca.
Lei si alza e mi libera i polsi, io la abbraccio stringendomela sul petto. Le nostre bocche si uniscono in un bacio lento, il nostro sudore a cementare i corpi esausti, mentre il respiro riprende sembianze umane.
di
scritto il
2025-10-08
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