Avventura folle (parte 14)
di
Kugher
genere
sadomaso
Helen era accovacciata sulla faccia di Ileana.
“Dai cagna”.
Provava un particolare piacere ad insultare quella donna, stesa sotto di lei, che cominciava ad inserire la lingua nella sua figa.
“Più dentro, puttana bianca”.
L’eccitazione era alta, non solo per la lingua che le accarezzava le grandi labbra ed il clitoride, ma per la situazione fortemente erotizzante che l’aveva colta, avvolta, sollevata, trascinata come in un vortice, il cui motore era il dominio ed il sesso il solo strumento.
Non paga dell’impegno della schiava, Helen impugnò i suoi capezzoli ed iniziò a strizzarli, forte.
Pensava a sé, al suo piacere e al suo potere su quella cagna dal colore diverso dal suo.
“Tira fuori la lingua, bestia”.
Dosava gli insulti, non voleva renderli eccessivamente frequenti, così che ognuno di essi, formulato con forza, veniva avvertito come scarica di piacere.
Si sedette sulla faccia per farsi penetrare. Lo fece pesantemente, appoggiando le natiche sul viso, godendo nel sentire la punta del naso della schiava a contatto col culo. Premette, come se questo le consentisse di farsi penetrare anche l’ano.
Si lascò pesante sulla schiava, fino a che non avvertì la sua difficoltà respiratoria che, inizialmente, la lasciò immobile. La eccitò la reazione della donna bianca che si dimenò per riuscire ad avere aria. La sentì ansimare sotto di lei che, subito, cercò nuovamente la seduta per impedirle nuovamente di respirare e, ancora, trarre piacere dai suoi contorcimenti, quando l’aria veniva definitivamente meno.
“Ancora la lingua fuori, cagna bianca”.
Le piaceva sottolineare la differenza di pelle.
Mosse il bacino, mentre le ordinò di tenere ferma quella cazzo di lingua.
Decise lei il ritmo della leccata, soffermandosi quando le accarezzava il clitoride, sedendosi per farsi penetrare e muovendosi nuovamente per farsi leccare le grandi labbra.
Guardava il corpo steso sotto di lei e, per un attimo, per uno strano motivo che cercò di scacciare, si chiese come si chiamasse quella donna, chi fosse, cosa facesse, cosa l’avesse spinta lì, in quella tenuta, a terra, sotto di lei.
Si liberò immediatamente di quel pensiero che, per un attimo, le aveva fatto calare l’eccitazione.
Per compensare, quasi arrabbiata con sé stessa per ciò che l’aveva tormentata per una frazione di secondo, prese nuovamente a torcere i capezzoli della cagna.
“Quando strizzo aumenta la leccata, quando lascio la presa, rallenta”.
Non si curò se la bestia avesse, o meno, capito l’ordine.
Helen stette ferma col bacino in modo che la figa fosse a contatto con la bocca della donna sotto di lei, ma abbastanza sollevata per consentirle, seppur a fatica, di respirare.
Regolò così il suo piacere con altra fonte di piacere.
Più strizzava i capezzoli, maggiore era la velocità della lingua nella sua figa. Così alternava la velocità, muovendo appena il bacino per scegliere il luogo in cui la lingua avrebbe dovuto concentrarsi maggiormente.
“Passami il frustino".
Ogni gioco, prima o poi, è destinato a stancare e lasciare il giocatore alla ricerca del suo sostituto che, però, possa donare qualcosa di più forte.
Iniziò a frustare la figa della schiava, che non se lo aspettava.
“Tieni le gambe allargate, puttana bianca”.
I colpi non avevano una regolarità o un ritmo. A volte passava un po’ di tempo, altre erano in rapida successione.
Trovava divertente osservare non solo i contorcimenti, ma anche lo sforzo della donna di tenere le cosce allargate.
Helen si dimenticò di tutto, in quella tenuta fuori dal tempo che pose il suo cervello all’esterno di una realtà, che quel posto aveva il potere di chiudere fuori da quel muro scrostato all’interno.
Non pensò al suo futuro, alla visita medica che avrebbe avuto tra pochi giorni.
Godette, godette fortemente e, mentre il piacere la avvolse e sconvolse, diede un ultimo colpo forte col frustino sulla figa di quella che era ritornata ad essere solo un corpo, dopo quell’attimo in cui, chissà perché, l’aveva umanizzata, dandole quella dignità di essere umano che si era imposta di dimenticare, una volta varcata la soglia della fattoria.
La mattina successiva, Ileana entrò nella casa padronale per cercare Alfio.
Entrò come era entrata la prima volta, in piedi, da donna libera.
“Si accomodi”.
Alfio la ricevette con quel sorriso che non le aveva regalato la prima volta. Non lo aveva fatto perché non poteva, dovendo stare in quel ruolo dal quale, ora, era uscito.
Ileana si guardò in giro e vide quell’abitazione con altri occhi, per ciò che effettivamente era, cioè una casa adattata alla bisogna mentre, quando vi aveva fatto ingresso la prima volta, l’aveva vista come il suo desiderio voleva che la vedesse, cioè una stanza fuori dal tempo che l’avrebbe fatta entrare in altro tempo, quello del suo piacere e della sua perversione sempre più forte.
La partenza è sempre cosa diversa dall’arrivo. Così come all’ingresso di un enorme parco giochi, quando ci si guarda attorno, meravigliati da ciò che non ci si accorge essere una finzione. All’uscita, invece, dopo avere vissuto, goduto, lo si vede per ciò che è effettivamente.
Alfio non aveva mai fatto accomodare nessuno. Era cosa fuori luogo, ma non seppe resistere.
Vide anche lui, con occhi diversi, quella donna della quale aveva provato stima al solo studio della sua “pratica”, e che non l’aveva lasciato indifferente quando l’aveva dominata.
Ileana, pur avvertendo la stranezza dell’invito che era al limite di essere fuori luogo, accettò, dopo un momento di esitazione.
Osservò il suo interlocutore, ponendosi quelle domande che non si era fatta all’inizio e che, invece, si poneva quando solitamente dialogava con qualcuno: chi era, cosa pensava, cosa provava. Era sempre alla ricerca del “perché” delle persone, perché fanno una determinata cosa, perché pensano in quel determinato modo, qual è stata la loro storia per arrivare ad avere quei pensieri.
Era sempre stata attratta dalle motivazioni, più che dagli atti.
Trovò comunque piacevole quella conversazione che, per tutto il tempo in cui avvenne, le lasciò quella sensazione di stranezza, come se avesse di fronte, in un tempo reale, ciò che per un attimo era appartenuto ad altro tempo e, così, collocava fuori quella circostanza in una zona grigia.
Alfio, forse stanco dell’eccessiva oggettivizzazione o del suo ruolo, si azzardò a chiederle come stesse, come si fosse trovata e cosa provasse.
“Liberazione, provo un senso di liberazione, di leggerezza, come se mi fossi liberata di un peso enorme e adesso fossi più leggera, così che l'aria stessa entra più facilmente nei miei polmoni, nella mia anima e nel mio cuore che è tornato ad appartenermi. Mi sento bene”.
Sorrise nel precisare che la sensazione era tale, anche se si sentiva rotta nelle ossa e nella muscolatura, sia per lo sforzo del servizio, sia per avere dormito, legata alle caviglie e ai polsi, tutta la notte, sotto il letto dei Padroni.
Prima di uscire dal portone scrostato, si voltò indietro ed osservò quel luogo. Sapeva che non sarebbe più tornata ma, come tutte le cose che sono accadute, lasciano qualcosa dentro.
Era stata una esperienza forte, fortissima. In quel momento si sentiva come si era descritta ad Alfio, ma sapeva che il suo carattere l’avrebbe portata, nei giorni successivi, ad analizzare quanto era accaduto, fino a che non l’avesse perfettamente metabolizzato.
Chiuso il portone, salì sull’auto. Accese la radio per ritornare in questo mondo. Al primo accenno di notiziario, inserì spotify. Voleva farsi coccolare ancora un poco dalla sensazione che stava provando prima di tornare, definitivamente, nel mondo reale.
Nello specchietto retrovisore, prima di affrontare la curva che le avrebbe definitivamente tolto la visuale, osservò quel muro che, all’esterno, era curatissimo, circondato da quel verde ben tenuto.
Sapeva però che non avrebbe ripetuto quella esperienza ... forse.
“Dai cagna”.
Provava un particolare piacere ad insultare quella donna, stesa sotto di lei, che cominciava ad inserire la lingua nella sua figa.
“Più dentro, puttana bianca”.
L’eccitazione era alta, non solo per la lingua che le accarezzava le grandi labbra ed il clitoride, ma per la situazione fortemente erotizzante che l’aveva colta, avvolta, sollevata, trascinata come in un vortice, il cui motore era il dominio ed il sesso il solo strumento.
Non paga dell’impegno della schiava, Helen impugnò i suoi capezzoli ed iniziò a strizzarli, forte.
Pensava a sé, al suo piacere e al suo potere su quella cagna dal colore diverso dal suo.
“Tira fuori la lingua, bestia”.
Dosava gli insulti, non voleva renderli eccessivamente frequenti, così che ognuno di essi, formulato con forza, veniva avvertito come scarica di piacere.
Si sedette sulla faccia per farsi penetrare. Lo fece pesantemente, appoggiando le natiche sul viso, godendo nel sentire la punta del naso della schiava a contatto col culo. Premette, come se questo le consentisse di farsi penetrare anche l’ano.
Si lascò pesante sulla schiava, fino a che non avvertì la sua difficoltà respiratoria che, inizialmente, la lasciò immobile. La eccitò la reazione della donna bianca che si dimenò per riuscire ad avere aria. La sentì ansimare sotto di lei che, subito, cercò nuovamente la seduta per impedirle nuovamente di respirare e, ancora, trarre piacere dai suoi contorcimenti, quando l’aria veniva definitivamente meno.
“Ancora la lingua fuori, cagna bianca”.
Le piaceva sottolineare la differenza di pelle.
Mosse il bacino, mentre le ordinò di tenere ferma quella cazzo di lingua.
Decise lei il ritmo della leccata, soffermandosi quando le accarezzava il clitoride, sedendosi per farsi penetrare e muovendosi nuovamente per farsi leccare le grandi labbra.
Guardava il corpo steso sotto di lei e, per un attimo, per uno strano motivo che cercò di scacciare, si chiese come si chiamasse quella donna, chi fosse, cosa facesse, cosa l’avesse spinta lì, in quella tenuta, a terra, sotto di lei.
Si liberò immediatamente di quel pensiero che, per un attimo, le aveva fatto calare l’eccitazione.
Per compensare, quasi arrabbiata con sé stessa per ciò che l’aveva tormentata per una frazione di secondo, prese nuovamente a torcere i capezzoli della cagna.
“Quando strizzo aumenta la leccata, quando lascio la presa, rallenta”.
Non si curò se la bestia avesse, o meno, capito l’ordine.
Helen stette ferma col bacino in modo che la figa fosse a contatto con la bocca della donna sotto di lei, ma abbastanza sollevata per consentirle, seppur a fatica, di respirare.
Regolò così il suo piacere con altra fonte di piacere.
Più strizzava i capezzoli, maggiore era la velocità della lingua nella sua figa. Così alternava la velocità, muovendo appena il bacino per scegliere il luogo in cui la lingua avrebbe dovuto concentrarsi maggiormente.
“Passami il frustino".
Ogni gioco, prima o poi, è destinato a stancare e lasciare il giocatore alla ricerca del suo sostituto che, però, possa donare qualcosa di più forte.
Iniziò a frustare la figa della schiava, che non se lo aspettava.
“Tieni le gambe allargate, puttana bianca”.
I colpi non avevano una regolarità o un ritmo. A volte passava un po’ di tempo, altre erano in rapida successione.
Trovava divertente osservare non solo i contorcimenti, ma anche lo sforzo della donna di tenere le cosce allargate.
Helen si dimenticò di tutto, in quella tenuta fuori dal tempo che pose il suo cervello all’esterno di una realtà, che quel posto aveva il potere di chiudere fuori da quel muro scrostato all’interno.
Non pensò al suo futuro, alla visita medica che avrebbe avuto tra pochi giorni.
Godette, godette fortemente e, mentre il piacere la avvolse e sconvolse, diede un ultimo colpo forte col frustino sulla figa di quella che era ritornata ad essere solo un corpo, dopo quell’attimo in cui, chissà perché, l’aveva umanizzata, dandole quella dignità di essere umano che si era imposta di dimenticare, una volta varcata la soglia della fattoria.
La mattina successiva, Ileana entrò nella casa padronale per cercare Alfio.
Entrò come era entrata la prima volta, in piedi, da donna libera.
“Si accomodi”.
Alfio la ricevette con quel sorriso che non le aveva regalato la prima volta. Non lo aveva fatto perché non poteva, dovendo stare in quel ruolo dal quale, ora, era uscito.
Ileana si guardò in giro e vide quell’abitazione con altri occhi, per ciò che effettivamente era, cioè una casa adattata alla bisogna mentre, quando vi aveva fatto ingresso la prima volta, l’aveva vista come il suo desiderio voleva che la vedesse, cioè una stanza fuori dal tempo che l’avrebbe fatta entrare in altro tempo, quello del suo piacere e della sua perversione sempre più forte.
La partenza è sempre cosa diversa dall’arrivo. Così come all’ingresso di un enorme parco giochi, quando ci si guarda attorno, meravigliati da ciò che non ci si accorge essere una finzione. All’uscita, invece, dopo avere vissuto, goduto, lo si vede per ciò che è effettivamente.
Alfio non aveva mai fatto accomodare nessuno. Era cosa fuori luogo, ma non seppe resistere.
Vide anche lui, con occhi diversi, quella donna della quale aveva provato stima al solo studio della sua “pratica”, e che non l’aveva lasciato indifferente quando l’aveva dominata.
Ileana, pur avvertendo la stranezza dell’invito che era al limite di essere fuori luogo, accettò, dopo un momento di esitazione.
Osservò il suo interlocutore, ponendosi quelle domande che non si era fatta all’inizio e che, invece, si poneva quando solitamente dialogava con qualcuno: chi era, cosa pensava, cosa provava. Era sempre alla ricerca del “perché” delle persone, perché fanno una determinata cosa, perché pensano in quel determinato modo, qual è stata la loro storia per arrivare ad avere quei pensieri.
Era sempre stata attratta dalle motivazioni, più che dagli atti.
Trovò comunque piacevole quella conversazione che, per tutto il tempo in cui avvenne, le lasciò quella sensazione di stranezza, come se avesse di fronte, in un tempo reale, ciò che per un attimo era appartenuto ad altro tempo e, così, collocava fuori quella circostanza in una zona grigia.
Alfio, forse stanco dell’eccessiva oggettivizzazione o del suo ruolo, si azzardò a chiederle come stesse, come si fosse trovata e cosa provasse.
“Liberazione, provo un senso di liberazione, di leggerezza, come se mi fossi liberata di un peso enorme e adesso fossi più leggera, così che l'aria stessa entra più facilmente nei miei polmoni, nella mia anima e nel mio cuore che è tornato ad appartenermi. Mi sento bene”.
Sorrise nel precisare che la sensazione era tale, anche se si sentiva rotta nelle ossa e nella muscolatura, sia per lo sforzo del servizio, sia per avere dormito, legata alle caviglie e ai polsi, tutta la notte, sotto il letto dei Padroni.
Prima di uscire dal portone scrostato, si voltò indietro ed osservò quel luogo. Sapeva che non sarebbe più tornata ma, come tutte le cose che sono accadute, lasciano qualcosa dentro.
Era stata una esperienza forte, fortissima. In quel momento si sentiva come si era descritta ad Alfio, ma sapeva che il suo carattere l’avrebbe portata, nei giorni successivi, ad analizzare quanto era accaduto, fino a che non l’avesse perfettamente metabolizzato.
Chiuso il portone, salì sull’auto. Accese la radio per ritornare in questo mondo. Al primo accenno di notiziario, inserì spotify. Voleva farsi coccolare ancora un poco dalla sensazione che stava provando prima di tornare, definitivamente, nel mondo reale.
Nello specchietto retrovisore, prima di affrontare la curva che le avrebbe definitivamente tolto la visuale, osservò quel muro che, all’esterno, era curatissimo, circondato da quel verde ben tenuto.
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