Casa di riposo - finale

di
genere
feticismo

Il mercoledì successivo arrivò come un conto alla rovescia. Paolo l’aveva atteso con una miscela di desiderio e timore: il ricordo del gesto segreto compiuto nella stanza della madre di Simona lo bruciava dentro, come una fiamma che non si spegne. Da giorni si chiedeva se lei lo avesse intuito davvero, se avrebbe notato qualcosa, se avrebbe usato quello spiraglio per smascherarlo.

Arrivò in anticipo, come la settimana precedente. Lo zio era di buon umore, ma Paolo faceva fatica a prestargli attenzione. Ogni parola gli scivolava via, mentre il suo pensiero correva costantemente alla stanza 219. Sapeva che, presto, sarebbe comparsa anche lei.

E infatti eccola: Simona entrò nel corridoio con il suo passo calmo e deciso, una borsa leggera sulla spalla e un paio di Birkenstock nuove, marroni, ai piedi. Paolo sentì un brivido attraversargli la schiena. Non era solo il vederla: era la consapevolezza che ormai bastava un dettaglio, una suola, una fibbia, per farlo tremare.

Lei gli rivolse un sorriso rapido, ma diverso dal solito: meno cortese, più penetrante. Paolo ebbe l’impressione che fosse un sorriso di chi sa già la risposta a una domanda che non ha ancora posto.

Le ore scorsero lente. Simona si occupava della madre con gesti calmi, Paolo dello zio con una presenza distratta. Ogni tanto, nei corridoi, i loro sguardi si incrociavano. E ogni volta Paolo si sentiva denudato, come se Simona vedesse oltre la sua maschera, oltre la sua calma apparente, fino a quell’istante preciso della settimana precedente, quando aveva stretto tra le mani i suoi sandali.

Quando la madre di Simona venne portata a mensa dalle infermiere, accadde ciò che Paolo temeva e desiderava allo stesso tempo. Simona uscì dalla stanza, ma invece di allontanarsi, lo fissò direttamente. Con un cenno del capo, secco, gli fece segno di seguirla.

Paolo obbedì senza una parola.

Entrarono insieme nella stanza 219, ora vuota. Simona chiuse la porta con un gesto lento, controllato. Poi si sedette sul letto, accavallò le gambe e si tolse un sandalo con calma, lasciandolo cadere sul pavimento. Paolo trattenne il respiro: la scena era identica a quella che aveva vissuto da solo, ma ora era lei a scrivere il copione.

— «Sai, Paolo,» cominciò con voce bassa, «ci sono cose che non si possono nascondere. Io so leggere i dettagli. I tuoi occhi parlano. I tuoi silenzi, ancora di più.»

Paolo abbassò lo sguardo, incapace di sostenere la sua intensità.

— «Lo so,» continuò Simona, «che sei entrato qui. Che hai toccato ciò che ti attirava. Che hai respirato ciò che non potevi chiedere.»

Paolo si irrigidì. Le parole erano esatte, precise. Non c’era più scampo.

— «E sai perché lo so?» proseguì, piegando leggermente il capo. «Perché sono stata io a guidarti. Non c’è nulla che tu abbia fatto che io non abbia già previsto. Ti ho portato esattamente dove volevo: dentro la mia ragnatela.»

Lo fissò. Non c’era durezza nei suoi occhi, ma un potere tranquillo, come quello di chi non ha bisogno di urlare.

— «Ogni mercoledì, io sceglievo. E tu seguivi. Senza neppure rendertene conto.»

Paolo alzò lentamente lo sguardo. Si sentiva smascherato, ma non umiliato: anzi, avvertiva un senso di liberazione. Non doveva più fingere. Non doveva più nascondere la sua ossessione. Simona l’aveva visto, lo aveva colto, e lo aveva accettato — a modo suo, facendone parte di un gioco che era sempre stato nelle sue mani.

Si avvicinò a lui con passo lento, calmo, sicuro. Paolo era immobile, ma il suo cuore batteva come un tamburo. Quando fu a un passo, Simona poggiò una mano sul suo volto e lo sollevò, costringendolo a guardarla.

— «Adesso non serve che tu dica nulla. Devi solo ricordare una cosa: non sei tu a decidere. Io conduco.»

Il silenzio si fece denso, carico di tensione. Il tempo parve fermarsi. In quell’istante, Paolo comprese che tutto ciò che era accaduto — i sorrisi, i sandali lasciati a terra, lo sguardo prolungato — non era mai stato casuale. Simona aveva orchestrato ogni dettaglio. E lui, inconsapevolmente, aveva seguito ogni filo fino a trovarsi imprigionato.

Eppure, non provava paura. Provava pace. Perché in quella resa totale c’era finalmente chiarezza: non doveva più lottare, non doveva più fingere di avere il controllo. Gli bastava lasciarsi condurre.

Restarono insieme a lungo, immersi in un silenzio fitto, interrotto solo dal respiro di entrambi. La tensione, lentamente, si trasformò in una complicità intensa, un’intimità che non aveva bisogno di gesti clamorosi per essere vera. Paolo sentiva che quello era il culmine, ma anche l’inizio di qualcosa di nuovo.

Quando Simona si ricompose, infilò di nuovo i sandali con la stessa calma con cui li aveva tolti. Lo guardò e sorrise, questa volta apertamente.

— «Ogni mercoledì, Paolo. Ricordalo. Non sei tu a venire qui. È il mercoledì che ti porta da me.»

Poi aprì la porta ed uscì, lasciandolo solo nella stanza.

Paolo rimase immobile per qualche minuto, ascoltando il proprio cuore che batteva ancora forte. Si sentiva stordito, ma stranamente leggero. Sapeva che non avrebbe mai potuto dimenticare quella scena. Sapeva che ogni mercoledì, da ora in avanti, avrebbe avuto un solo significato: entrare, di nuovo, nella tela di Simona.
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2025-09-27
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