Lucido nero
di
JM
genere
etero
Era uno di quei pomeriggi estivi in cui si entra in un centro commerciale più per scappare dal caldo che per cercare qualcosa di preciso.
Andrea vagava senza meta tra vetrine lucide e pavimenti tirati a specchio, con l’aria condizionata che scivolava lungo il collo come un respiro freddo.
Non cercava nulla.
Finché la vide.
O meglio, vide prima le scarpe.
Un paio di décolleté nere, lucidissime, con tacco 12 sottile come un colpo di penna.
Camminavano davanti a lui, decise, tra le corsie.
Il rumore dei tacchi sembrava risuonare più forte di tutto il resto.
Il pavimento, sotto, le restituiva in eco, come se volesse trattenerle.
Le gambe che li portavano erano fasciate da calze velate nere, che brillavano appena sotto la luce artificiale.
Una donna.
Alta, elegante.
Gonna scura, tubino.
Camicia color crema, leggermente sbottonata, con le maniche rimboccate.
Camminava come se avesse disegnato lei stessa il corridoio.
Un’andatura che non cercava di essere notata, ma che impossibile non notare.
Andrea rallentò il passo.
Non con l’intenzione di seguirla, ma come se il corpo decidesse da solo.
A un certo punto, la donna si fermò davanti a una vetrina di profumeria.
Lo specchio del vetro rifletteva le sue forme e… i suoi occhi.
Lo aveva visto.
E non si era girata.
Si era riflessa.
Un sorriso lento, appena accennato, le comparve sulle labbra.
Poi si voltò davvero.
Lo guardò negli occhi.
Nessun imbarazzo.
Nessuna fretta.
Camminò verso di lui.
Si fermò a meno di un metro.
«Piacciono anche a te, le cose ben fatte?»
Il tono era basso, sfumato da un accento indefinito.
Andrea annuì, senza sapere se stava parlando delle scarpe, delle calze o di lei.
«Allora seguimi.»
E si voltò.
Entrò nella zona servizi, dove l’eco della musica commerciale non arrivava più.
Un corridoio in marmo chiaro, quasi deserto.
A sinistra, un bagno riservato con una piccola lounge silenziosa davanti.
Andrea non ci pensò troppo.
Entrò.
Lei era appoggiata alla parete, una gamba piegata, la décolleté lucida sospesa a mezz’aria.
«Chiudi la porta,» sussurrò.
La porta si richiuse col suono secco dell’ottone.
Fu come entrare in una parentesi.
Un tempo sospeso.
Lei si avvicinò, con calma.
Lo guardò.
Non c’era malizia nei suoi occhi.
Solo consapevolezza.
Si sedette sul bordo del lavabo, con movimenti eleganti e misurati.
Poi sollevò una gamba.
Il piede — ancora con la scarpa — si avvicinò piano al petto di lui.
Sfiorò.
Si fermò.
Poi scese lentamente.
Andrea seguiva ogni movimento senza parlare.
Le mani sulle ginocchia.
Il cuore in gola.
Lei sorrise, e con naturalezza, sfilò la scarpa dal piede destro.
Un gesto lento, quasi cerimoniale.
La calza aderente era leggermente opaca, perfetta.
Poi, con delicatezza, portò la pianta del piede vicino al viso di lui.
Non ci fu contatto, all’inizio.
Solo la prossimità.
Ma quando la calza sfiorò la pelle del suo naso, fu come se un interruttore invisibile scattasse.
Un profumo caldo, personale, intenso.
Non di profumeria.
Di lei.
Lei non disse nulla.
Fece solo quel gesto, lento, di sfiorare e poi ritirare.
Come un test.
Un dono, forse.
Andrea chiuse gli occhi un istante.
E quando li riaprì, lei lo stava guardando con uno sguardo diverso.
Meno enigmatico.
Più diretto.
«Ti basta questo?»
Una domanda senza ironia.
Quasi sincera.
«No,» rispose lui.
La voce più bassa del solito.
Lei si sporse in avanti, lo baciò piano.
Un bacio pieno di silenzio.
E calore.
E significato.
Poi prese la sua mano.
La guidò lungo il bordo della calza.
Fino al ginocchio.
Poi più su.
Il resto fu una danza senza parole.
Non serve raccontare ogni dettaglio.
Si sentirono le mani che cercavano.
Le gambe che si incrociavano.
I respiri che cambiavano ritmo.
Nel silenzio ovattato, ci furono sospiri pieni di trattenuto.
Gemiti bassi, controllati.
Parole non dette, ma sentite.
Durò quanto basta per non essere fretta, ma nemmeno attesa.
Quando si rivestirono, lo fecero senza fretta.
Lei si rimise la scarpa con un piccolo gesto secco.
Poi, mentre sistemava la camicia, lo guardò ancora una volta.
«Non serve sapere il mio nome,» disse.
«Tanto, se mi rivedrai… riconoscerai le scarpe.»
Aprì la porta.
Uscì.
Andrea rimase un attimo in piedi, nel silenzio.
Poi sorrise, piano.
Sapeva che quel pomeriggio non era stato una distrazione.
Era stato un capitolo.
Intero.
E perfetto.
Andrea vagava senza meta tra vetrine lucide e pavimenti tirati a specchio, con l’aria condizionata che scivolava lungo il collo come un respiro freddo.
Non cercava nulla.
Finché la vide.
O meglio, vide prima le scarpe.
Un paio di décolleté nere, lucidissime, con tacco 12 sottile come un colpo di penna.
Camminavano davanti a lui, decise, tra le corsie.
Il rumore dei tacchi sembrava risuonare più forte di tutto il resto.
Il pavimento, sotto, le restituiva in eco, come se volesse trattenerle.
Le gambe che li portavano erano fasciate da calze velate nere, che brillavano appena sotto la luce artificiale.
Una donna.
Alta, elegante.
Gonna scura, tubino.
Camicia color crema, leggermente sbottonata, con le maniche rimboccate.
Camminava come se avesse disegnato lei stessa il corridoio.
Un’andatura che non cercava di essere notata, ma che impossibile non notare.
Andrea rallentò il passo.
Non con l’intenzione di seguirla, ma come se il corpo decidesse da solo.
A un certo punto, la donna si fermò davanti a una vetrina di profumeria.
Lo specchio del vetro rifletteva le sue forme e… i suoi occhi.
Lo aveva visto.
E non si era girata.
Si era riflessa.
Un sorriso lento, appena accennato, le comparve sulle labbra.
Poi si voltò davvero.
Lo guardò negli occhi.
Nessun imbarazzo.
Nessuna fretta.
Camminò verso di lui.
Si fermò a meno di un metro.
«Piacciono anche a te, le cose ben fatte?»
Il tono era basso, sfumato da un accento indefinito.
Andrea annuì, senza sapere se stava parlando delle scarpe, delle calze o di lei.
«Allora seguimi.»
E si voltò.
Entrò nella zona servizi, dove l’eco della musica commerciale non arrivava più.
Un corridoio in marmo chiaro, quasi deserto.
A sinistra, un bagno riservato con una piccola lounge silenziosa davanti.
Andrea non ci pensò troppo.
Entrò.
Lei era appoggiata alla parete, una gamba piegata, la décolleté lucida sospesa a mezz’aria.
«Chiudi la porta,» sussurrò.
La porta si richiuse col suono secco dell’ottone.
Fu come entrare in una parentesi.
Un tempo sospeso.
Lei si avvicinò, con calma.
Lo guardò.
Non c’era malizia nei suoi occhi.
Solo consapevolezza.
Si sedette sul bordo del lavabo, con movimenti eleganti e misurati.
Poi sollevò una gamba.
Il piede — ancora con la scarpa — si avvicinò piano al petto di lui.
Sfiorò.
Si fermò.
Poi scese lentamente.
Andrea seguiva ogni movimento senza parlare.
Le mani sulle ginocchia.
Il cuore in gola.
Lei sorrise, e con naturalezza, sfilò la scarpa dal piede destro.
Un gesto lento, quasi cerimoniale.
La calza aderente era leggermente opaca, perfetta.
Poi, con delicatezza, portò la pianta del piede vicino al viso di lui.
Non ci fu contatto, all’inizio.
Solo la prossimità.
Ma quando la calza sfiorò la pelle del suo naso, fu come se un interruttore invisibile scattasse.
Un profumo caldo, personale, intenso.
Non di profumeria.
Di lei.
Lei non disse nulla.
Fece solo quel gesto, lento, di sfiorare e poi ritirare.
Come un test.
Un dono, forse.
Andrea chiuse gli occhi un istante.
E quando li riaprì, lei lo stava guardando con uno sguardo diverso.
Meno enigmatico.
Più diretto.
«Ti basta questo?»
Una domanda senza ironia.
Quasi sincera.
«No,» rispose lui.
La voce più bassa del solito.
Lei si sporse in avanti, lo baciò piano.
Un bacio pieno di silenzio.
E calore.
E significato.
Poi prese la sua mano.
La guidò lungo il bordo della calza.
Fino al ginocchio.
Poi più su.
Il resto fu una danza senza parole.
Non serve raccontare ogni dettaglio.
Si sentirono le mani che cercavano.
Le gambe che si incrociavano.
I respiri che cambiavano ritmo.
Nel silenzio ovattato, ci furono sospiri pieni di trattenuto.
Gemiti bassi, controllati.
Parole non dette, ma sentite.
Durò quanto basta per non essere fretta, ma nemmeno attesa.
Quando si rivestirono, lo fecero senza fretta.
Lei si rimise la scarpa con un piccolo gesto secco.
Poi, mentre sistemava la camicia, lo guardò ancora una volta.
«Non serve sapere il mio nome,» disse.
«Tanto, se mi rivedrai… riconoscerai le scarpe.»
Aprì la porta.
Uscì.
Andrea rimase un attimo in piedi, nel silenzio.
Poi sorrise, piano.
Sapeva che quel pomeriggio non era stato una distrazione.
Era stato un capitolo.
Intero.
E perfetto.
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