Casa di riposo - 2
di
JM
genere
feticismo
Il mercoledì tornò presto. Paolo si rese conto di averlo aspettato con un’ansia insolita, come si aspetta una partenza, un esame, un appuntamento importante. Tutti i giorni precedenti erano scivolati uno dentro l’altro, privi di peso, fino a quel pomeriggio che invece pulsava già al mattino.
Si svegliò presto, sistemò la casa senza motivo, scelse una camicia più curata del solito. «È solo la casa di riposo», si disse, ma le sue mani tradivano un’eccitazione che non aveva nulla di casuale.
Arrivò qualche minuto prima del solito. Il cielo era di un azzurro slavato, quasi primaverile, e i pini del vialetto sembravano più verdi del solito. «Stranezze della percezione», pensò. In realtà era lui a vedere tutto diverso: il mercoledì, ormai, non era un giorno qualsiasi, era un varco.
Lo zio dormiva ancora, e Paolo rimase a lungo accanto al letto, seduto con lo sguardo perso. Sentiva un’attesa che gli premeva dentro, e sapeva bene il motivo. Era lei, la presenza discreta e insieme invadente di Simona, che ormai aveva invaso ogni suo pensiero.
Si alzò, uscì nel corridoio. Fece finta di andare a prendere un caffè. Ma in realtà cercava soltanto lei.
La vide poco dopo. Era già lì, davanti alla stanza della madre, con una borsa sulle ginocchia. Simona indossava la stessa sicurezza del mercoledì precedente, ma con un dettaglio nuovo: accanto al letto, sul pavimento, c’erano i suoi sandali Birkenstock, appoggiati come due segni di interpunzione, lasciati lì senza riguardo. Lei era scalza, seduta di fianco alla madre, intenta a parlarle con voce calma. I suoi piedi nudi si muovevano piano sul linoleum, sicuri come tutto il resto di lei.
Paolo restò immobile nel corridoio, a osservare. Ogni parola di Simona, ogni movimento era naturale, ma per lui diveniva carico di significati. Quei sandali, lasciati lì, gli sembravano quasi un invito, o forse una prova. Sentì un calore diffondersi dentro, una tensione che non sapeva più controllare.
Il tempo passò lento. Quando le infermiere vennero a prendere la madre di Simona per accompagnarla a mensa, Simona uscì nel corridoio, scambiò due parole con una volontaria, e poi si allontanò verso il giardino. La porta della stanza rimase socchiusa. Sul pavimento, i sandali.
Paolo si fermò a qualche passo. Si sentiva come diviso: una parte di sé gli diceva di continuare, di tornare dallo zio. L’altra parte lo tirava dentro. Guardò attorno: nessuno. Il corridoio era vuoto, il brusio delle sale lontano. Un passo, poi un altro, e si ritrovò davanti alla porta. La spinse piano. Entrò.
Il letto era in ordine, la luce filtrava dalle tende leggere. Tutto era immobile, silenzioso. Tutto, tranne quei sandali a terra. Paolo si chinò, quasi tremando. Li prese tra le mani.
Il cuoio era tiepido, ancora intriso del calore di Simona. Li sollevò piano, come se fossero un oggetto sacro, e li avvicinò al volto. Inspirò profondamente. Fu un gesto istintivo, senza freni. L’odore di pelle, di vissuto, lo travolse. Era come se stesse toccando indirettamente lei, come se la presenza di Simona lo avvolgesse, intima, proibita.
Chiuse gli occhi. In quel gesto si accorse di non essere più l’uomo razionale che credeva di essere: era un prigioniero, catturato. Non c’era logica, non c’era ragione. C’era solo un desiderio che lo trascinava in avanti.
Rimase così qualche istante, poi, con un sussulto, tornò in sé. Rimise i sandali esattamente al loro posto, facendo attenzione a non lasciare tracce del suo passaggio. Si guardò intorno come un ladro, il cuore che batteva all’impazzata. Uscì piano, richiuse la porta dietro di sé e tornò nel corridoio. Nessuno lo aveva visto.
Eppure, dentro, sapeva che non era vero. Qualcosa gli diceva che Simona sapeva già. Non come fatto concreto, non come prova, ma come certezza sottile. Come se lo avesse previsto, come se lo avesse voluto. Paolo rabbrividì.
Tornò dallo zio, ma non riuscì più a concentrarsi. Ogni rumore lo faceva sobbalzare, ogni passo fuori dalla porta gli sembrava quello di Simona. Nella mente si ripeteva la scena: la porta semiaperta, i sandali a terra, le mani che li sollevano, il respiro che li inala. Non avrebbe mai più potuto cancellarla.
Si disse che era stato solo un gesto, un istante, eppure era molto di più. Era un confine oltrepassato. Non si trattava più solo di attrazione: era ossessione.
Quando fu il momento di andare via, Paolo uscì nel cortile con passo irregolare. Il sole filtrava tra gli alberi, ma lui aveva freddo. Nel vialetto incrociò Simona che rientrava. Lei lo guardò. Non sorrise come le altre volte. Lo fissò, a lungo, con occhi profondi, impenetrabili. Un silenzio che diceva: so più di quanto pensi.
Paolo abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello sguardo. Le passò accanto senza dire nulla.
Guidando verso casa, la mente gli ribolliva. Era convinto di essersi spinto troppo oltre, eppure non poteva provare rimorso. Provava invece un desiderio più acuto, una dipendenza crescente. Sapeva che Simona l’aveva catturato senza fare nulla, semplicemente lasciando i suoi sandali lì, come un’esca.
E capì che, mercoledì dopo mercoledì, non avrebbe fatto altro che precipitare sempre più in quella ragnatela.
Si svegliò presto, sistemò la casa senza motivo, scelse una camicia più curata del solito. «È solo la casa di riposo», si disse, ma le sue mani tradivano un’eccitazione che non aveva nulla di casuale.
Arrivò qualche minuto prima del solito. Il cielo era di un azzurro slavato, quasi primaverile, e i pini del vialetto sembravano più verdi del solito. «Stranezze della percezione», pensò. In realtà era lui a vedere tutto diverso: il mercoledì, ormai, non era un giorno qualsiasi, era un varco.
Lo zio dormiva ancora, e Paolo rimase a lungo accanto al letto, seduto con lo sguardo perso. Sentiva un’attesa che gli premeva dentro, e sapeva bene il motivo. Era lei, la presenza discreta e insieme invadente di Simona, che ormai aveva invaso ogni suo pensiero.
Si alzò, uscì nel corridoio. Fece finta di andare a prendere un caffè. Ma in realtà cercava soltanto lei.
La vide poco dopo. Era già lì, davanti alla stanza della madre, con una borsa sulle ginocchia. Simona indossava la stessa sicurezza del mercoledì precedente, ma con un dettaglio nuovo: accanto al letto, sul pavimento, c’erano i suoi sandali Birkenstock, appoggiati come due segni di interpunzione, lasciati lì senza riguardo. Lei era scalza, seduta di fianco alla madre, intenta a parlarle con voce calma. I suoi piedi nudi si muovevano piano sul linoleum, sicuri come tutto il resto di lei.
Paolo restò immobile nel corridoio, a osservare. Ogni parola di Simona, ogni movimento era naturale, ma per lui diveniva carico di significati. Quei sandali, lasciati lì, gli sembravano quasi un invito, o forse una prova. Sentì un calore diffondersi dentro, una tensione che non sapeva più controllare.
Il tempo passò lento. Quando le infermiere vennero a prendere la madre di Simona per accompagnarla a mensa, Simona uscì nel corridoio, scambiò due parole con una volontaria, e poi si allontanò verso il giardino. La porta della stanza rimase socchiusa. Sul pavimento, i sandali.
Paolo si fermò a qualche passo. Si sentiva come diviso: una parte di sé gli diceva di continuare, di tornare dallo zio. L’altra parte lo tirava dentro. Guardò attorno: nessuno. Il corridoio era vuoto, il brusio delle sale lontano. Un passo, poi un altro, e si ritrovò davanti alla porta. La spinse piano. Entrò.
Il letto era in ordine, la luce filtrava dalle tende leggere. Tutto era immobile, silenzioso. Tutto, tranne quei sandali a terra. Paolo si chinò, quasi tremando. Li prese tra le mani.
Il cuoio era tiepido, ancora intriso del calore di Simona. Li sollevò piano, come se fossero un oggetto sacro, e li avvicinò al volto. Inspirò profondamente. Fu un gesto istintivo, senza freni. L’odore di pelle, di vissuto, lo travolse. Era come se stesse toccando indirettamente lei, come se la presenza di Simona lo avvolgesse, intima, proibita.
Chiuse gli occhi. In quel gesto si accorse di non essere più l’uomo razionale che credeva di essere: era un prigioniero, catturato. Non c’era logica, non c’era ragione. C’era solo un desiderio che lo trascinava in avanti.
Rimase così qualche istante, poi, con un sussulto, tornò in sé. Rimise i sandali esattamente al loro posto, facendo attenzione a non lasciare tracce del suo passaggio. Si guardò intorno come un ladro, il cuore che batteva all’impazzata. Uscì piano, richiuse la porta dietro di sé e tornò nel corridoio. Nessuno lo aveva visto.
Eppure, dentro, sapeva che non era vero. Qualcosa gli diceva che Simona sapeva già. Non come fatto concreto, non come prova, ma come certezza sottile. Come se lo avesse previsto, come se lo avesse voluto. Paolo rabbrividì.
Tornò dallo zio, ma non riuscì più a concentrarsi. Ogni rumore lo faceva sobbalzare, ogni passo fuori dalla porta gli sembrava quello di Simona. Nella mente si ripeteva la scena: la porta semiaperta, i sandali a terra, le mani che li sollevano, il respiro che li inala. Non avrebbe mai più potuto cancellarla.
Si disse che era stato solo un gesto, un istante, eppure era molto di più. Era un confine oltrepassato. Non si trattava più solo di attrazione: era ossessione.
Quando fu il momento di andare via, Paolo uscì nel cortile con passo irregolare. Il sole filtrava tra gli alberi, ma lui aveva freddo. Nel vialetto incrociò Simona che rientrava. Lei lo guardò. Non sorrise come le altre volte. Lo fissò, a lungo, con occhi profondi, impenetrabili. Un silenzio che diceva: so più di quanto pensi.
Paolo abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello sguardo. Le passò accanto senza dire nulla.
Guidando verso casa, la mente gli ribolliva. Era convinto di essersi spinto troppo oltre, eppure non poteva provare rimorso. Provava invece un desiderio più acuto, una dipendenza crescente. Sapeva che Simona l’aveva catturato senza fare nulla, semplicemente lasciando i suoi sandali lì, come un’esca.
E capì che, mercoledì dopo mercoledì, non avrebbe fatto altro che precipitare sempre più in quella ragnatela.
1
3
voti
voti
valutazione
7.3
7.3
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Casa di riposoracconto sucessivo
Casa di riposo - finale
Commenti dei lettori al racconto erotico