Casa di riposo
di
JM
genere
feticismo
Il mercoledì, per Paolo, aveva un odore preciso: disinfettante al limone, lenzuola appena cambiate e un vago sentore di minestra che arrivava dalla cucina della casa di riposo. Da mesi ripeteva lo stesso percorso: parcheggio sul retro, vialetto con i pini bassi, porta scorrevole, reception, corridoio a sinistra, stanza 214 dallo zio Carlo. Si sarebbe detto un rito modesto, quasi invisibile, eppure negli ultimi tempi quel rito aveva preso una piega inattesa, come se una nota fuori spartito avesse cominciato a modulare l’intera melodia.
Quella nota aveva un nome: Simona.
Paolo l’aveva notata la prima volta senza volerlo, come succede con le figure che non cercano di farsi vedere ma sanno farsi guardare. Capelli corti e grigi, tagliati in modo netto; un viso che portava con grazia la maturità; una postura dritta e calma, di chi non ha più niente da dimostrare. Non era appariscente: era sicura. Ogni gesto misurato, ogni parola soppesata. E un magnetismo discreto, che gli restava addosso anche dopo che se ne andava.
Mercoledì dopo mercoledì, Paolo si era accorto che anche lei arrivava sempre più o meno alla stessa ora. Accompagnava la madre — una signora minuta, con una giacca di lana azzurra anche d’estate — e restava a lungo a parlarle con una dolcezza severa, come se la tenerezza avesse bisogno di spine per essere vera. A volte Simona sorrideva, a volte taceva; in ogni caso, la stanza della madre diventava un piccolo teatro di cura e autorità. Di tanto in tanto, gli occhi di Simona scivolavano fuori, oltre la porta, nel corridoio. In quei momenti, Paolo sentiva — prima ancora di rendersene conto — l’urgenza di esserci, di inserirsi in quell’orbita, come se un filo impercettibile lo tirasse esattamente lì.
Quella mattina il cielo era di un grigio uniforme. Paolo arrivò con dieci minuti di anticipo, giusto il tempo di scambiare due parole con l’infermiera di turno, la quale sollevò appena il mento in un saluto consueto. Lo zio dormiva di traverso, con la coperta a metà. Paolo gli rimboccò il lenzuolo, gli sistemò il cuscino, restò un po’ appoggiato allo stipite della finestra a guardare le formiche che correvano sulla ringhiera del balconcino. Poi, come guidato da un’abitudine non detta, uscì in corridoio a camminare senza meta, il passo rallentato, le mani nelle tasche.
La vide all’estremità opposta, vicino al distributore dell’acqua. Simona parlava con un’infermiera, il tono basso, la mano che disegnava nell’aria un gesto breve, conclusivo. Ma non fu la conversazione a catturarlo. Fu il dettaglio: ai piedi, un paio di Birkenstock nere, il cuoio morbido, i listini lucidi, il profilo semplice e deciso che pareva disegnare un invito alla calma. Simona si spostò di mezzo passo e il piede, con la naturalezza di chi non ci pensa nemmeno, scivolò un istante fuori dal sandalo per poi ritrovarlo al tatto, come se l’incontro tra pelle e tomaia fosse un piccolo ritorno a casa.
Paolo restò fermo. Non era un uomo da colpi di fulmine, né da fissazioni improvvise. Eppure quel gesto minimo — il piede che rotola, l’appoggio, il ritorno — gli rimase negli occhi, come la cadenza di un metronomo interiore. Non c’era nulla di esibito, nulla di studiato; e proprio per questo quell’immagine gli parve più potente. Non saprebbe dire perché, ma la semplicità dei sandali, la sobrietà delle linee, la sicurezza con cui Simona li abitava gli sembrò riassumere qualcosa del suo carattere: essenziale, fermo, irresistibilmente concreto.
Lei lo vide. Non come si vede chiunque: lo contemplò per un secondo pieno, senza fretta, senza grazia di circostanza. Uno sguardo che passava attraverso, setacciando. Poi un cenno; un sorriso minimo, non tanto cortese quanto consapevole. Paolo ricambiò in ritardo, colto da quella lieve vertigine che si prova quando, in un attimo, si capisce di essere stati visti per davvero.
Seguì una scena di quotidianità: Simona rientrò nella stanza con la madre, Paolo tornò dallo zio. Il tempo scorse ordinato, con cadenze di tazze posate, parole semplici, silenzi buoni. Ma qualcosa nella postura di Paolo era cambiato: mentre lo zio gli raccontava per l’ennesima volta della squadra di calcio di quando era ragazzo, lui si scoprì a misurare il tempo non sui minuti dell’orologio, ma sui passi che separavano la stanza 214 dalla stanza 219 — quella della madre di Simona. Una misura di distanza che era, in realtà, una misura di attesa.
A metà pomeriggio, una luce più chiara filtrò dalle nuvole. Paolo, con una scusa qualsiasi allo zio («Vado a prendere un caffè, torno subito»), uscì. Il distributore di bevande faceva un rumore meccanico, l’odore di plastica nuova si mescolava al vapore del caffè. Mentre la tazzina si riempiva, la vide ancora: Simona stava sistemando la borsa sulla sedia, seduta accanto al letto della madre. Il suo piede dondolava, appena fuori dal sandalo, in un equilibrio perfetto tra abbandono e controllo. Non c’era ostentazione, non c’era posa; c’era un ritmo — lento, sicuro — che Paolo riconobbe come si riconosce una musica dopo poche note.
Si sentì sciocco. Si disse che stava proiettando, che quel movimento era solo un gesto casuale. Eppure, ogni volta che provava a distrarsi, lo sguardo vi tornava, come se un magnete lo richiamasse. Quando Simona sollevò la testa, il loro occhio si agganciò a mezz’aria. Lei non ritrasse, non fermò il movimento: lasciò che accadesse. Fu appena un istante, ma bastò a Paolo per avvertire sulle spalle il peso dolce di una decisione non detta: non sei tu a scegliere il mercoledì; è il mercoledì che ti sceglie.
Rientrò dallo zio con il caffè tra le dita, che adesso gli pareva più amaro. Cercò di dare un senso ai pensieri, ma i pensieri non volevano essere ordinati. Tornavano sempre lì: al passo misurato di Simona nei corridoi, al modo con cui si chinava per aggiustare il plaid alla madre, alle dita che sfioravano il cellulare senza concedere mai il privilegio di una distrazione vera. E soprattutto, tornavano a quei sandali. Non capiva perché un oggetto così comune gli stesse scavando dentro; e forse era proprio questa incomprensione a dargli forza.
Quando l’orario delle visite volse verso il cambio turno, il corridoio si fece più affollato: medaglie di nomi sulle pettorine, carrelli di lenzuola, familiari con borse di frutta. In quella piccola confusione, Simona uscì dalla stanza 219 per parlare con il medico. Paolo si trovò a passare sullo stesso lato, la distanza di due braccia, il tempo di una stretta di mano formale tra il dottore e lei. Colse frammenti di frasi — «pressione stabile», «mangia con regolarità» — e un bene pronunciato da Simona in modo asciutto, come un punto messo al posto giusto.
Quando il medico si allontanò, rimase un vuoto breve, e in quel vuoto si spostarono entrambi di mezzo passo, quasi sfiorandosi.
«Paolo, vero?» disse lei. La voce era esattamente come il resto: ferma, chiara, senza fronzoli.
«Sì» rispose lui, sorpreso che ricordasse il suo nome.
«Ti vedo spesso il mercoledì» aggiunse, scrollando appena la spalla come a indicare l’ovvio.
«Anch’io» fece lui, e si maledisse subito per la banalità.
Un angolo delle labbra di Simona si piegò. «È una buona abitudine» disse. «Le abitudini ci salvano. O ci catturano.»
Paolo non seppe cosa dire. Il tempo di un respiro, e una volontaria con il carrello dei libri passò tra loro scusandosi. Simona annuì a Paolo come si annuisce a una decisione presa: né troppo, né poco. Rientrò nella stanza. Il sandalo nero, nel mezzo passo di ritorno, tac sul linoleum: una sillaba d’inchiostro sulla pagina bianca del pomeriggio.
Quella sillaba rimase a vibrare. Paolo, che raramente si concedeva divagazioni, si scoprì a raccogliere dettagli come briciole in un sentiero. Il modo in cui Simona teneva la borsa — non sulla spalla, ma al gomito, in un gesto che non cercava di alleggerire nulla. Il modo in cui ascoltava gli altri — con lo sguardo stabile, senza ansimare di empatia. Il modo in cui camminava: un passo in avanti, l’altro che segue, e in quel seguire una promessa di ritmo. Tutto in lei sembrava dire: io conduco.
Quando lo zio si svegliò del tutto, volle andare a fare due passi nel corridoio. Paolo lo accompagnò piano. Passarono davanti alla 219, la porta semiaperta, la madre di Simona che sonnecchiava con le mani raccolte sul grembo. Simona le sistemava il cuscino con delicatezza; il sandalo le scivolò appena, un millimetro, prima di ritrovare l’appoggio. Scelse quell’istante per alzare lo sguardo. Lo sguardo andò dritto a Paolo, come se lo aspettasse da sempre. E fu lì, proprio lì, che capitò una cosa semplice e definitiva: non distolse.
Paolo sostenne il contatto quanto poté. Si sentì nudo e pieno, fragile e presente. Poi fu lo zio, con una frase storta («Dove si va, oggi?»), a sciogliere il filo. Ripartirono, e il passo di Paolo gli parve improvvisamente più leggero, e insieme più pesante. Come quando si esce da un cinema a metà film: il corpo fuori, la testa ancora dentro.
Al termine della visita, Paolo accompagnò lo zio in sala comune e si fermò a firmare il registro all’ingresso. Scrisse Paolo R. con la calligrafia che usava negli atti del suo ufficio, ordinata e inclinata. Mise la penna nel bicchierino. Stava per andarsene quando dal lato vetrata sentì il rumore lieve di una suola. Si voltò. Simona attraversava l’atrio, i sandali che facevano appena toc sul pavimento lucido. Parlava al telefono, due parole al minuto, come chi non ha bisogno di spiegare troppo. Arrivata alla porta automatica, si fermò un istante, come se avesse dimenticato qualcosa. Poi si girò verso di lui.
Non lo salutò con la mano: sarebbe stato troppo. Gli fece un cenno con il capo, quell’impercettibile flessione che è insieme saluto e misura. Paolo restò dove era, il registro sotto la penna, il pomeriggio alle spalle, il mercoledì davanti. Pensò, senza saperlo formulare, che qualcosa era cominciato. Non un incontro, non una conversazione: un ritmo.
Uscì nell’aria più fresca. Il cielo si era schiarito di un tono e il vialetto profumava di resina. Camminò lentamente verso l’auto, le chiavi che gli tintinnavano nel palmo. Si fermò a metà, come chi ha dimenticato il portafoglio. Non aveva dimenticato nulla: cercava solo di trattenere nella memoria come Simona aveva appoggiato il piede, come il sandalo aveva accompagnato, come lei aveva tenuto il suo sguardo. Sapeva che erano inezie, eppure quelle inezie gli stavano configurando dentro un paesaggio.
Sedette in macchina e non accese il motore subito. Appoggiò la fronte al volante, un istante. Si sentì sciocco di nuovo; e ridendo di sé, scoprì che quel ridere non cancellava nulla, anzi, lo fissava meglio. Mise in moto. Il navigatore scrisse Casa con la sua voce metallica. Paolo guidò piano, come se avesse paura di far cadere una goccia d’acqua da un bicchiere colmo.
Quella sera, a casa, preparò una pasta semplice e la lasciò scolare troppo. La televisione rimase accesa senza suono. Gli amici del gruppo scrissero sulla chat del calcetto del venerdì; lui rispose con pollici e faccine, ma l’attenzione era altrove, in una stanza bianca con una porta semiaperta, in un corridoio con il linoleum lucido, in un toc misurato che gli scandiva il respiro.
Andò a letto tardi. Nel buio, la città fece quel suo ronzio lontano, da frigorifero di palazzi. Paolo guardò il soffitto, ripassando mentalmente il mercoledì come si ripassa una melodia al pianoforte, cercando il punto in cui le dita si sono impigliate. Avrebbe voluto darsi una spiegazione sensata: dire che era solo una donna interessante, che la casa di riposo acuisce certi contrasti, che il desiderio è solo la forma estrema dell’attenzione. Tutte frasi giuste, tutte frasi vuote.
Prima di addormentarsi, ammise a sé stesso l’unica cosa che contava: attendeva il mercoledì successivo. Lo attendeva con l’impazienza di chi ha intravisto un varco e non vede l’ora di attraversarlo. Non sapeva ancora dove portasse quel corridoio. Ma aveva la certezza che, qualunque fosse la direzione, il passo non l’avrebbe dettato lui.
E, senza volerlo, sorrise. Per la prima volta dopo mesi, il mercoledì gli parve non più un dovere, ma una chiamata. Una chiamata con la voce morbida del cuoio, con il battito discreto di un sandalo sul pavimento, con lo sguardo di una donna che non domanda: decide.
Fuori, una folata di vento mosse le tende. Dentro, il respiro trovò la sua cadenza. E in quella cadenza, Paolo riconobbe un principio: le abitudini ci salvano. O ci catturano.
Questa, capì, stava cominciando a catturarlo.
Quella nota aveva un nome: Simona.
Paolo l’aveva notata la prima volta senza volerlo, come succede con le figure che non cercano di farsi vedere ma sanno farsi guardare. Capelli corti e grigi, tagliati in modo netto; un viso che portava con grazia la maturità; una postura dritta e calma, di chi non ha più niente da dimostrare. Non era appariscente: era sicura. Ogni gesto misurato, ogni parola soppesata. E un magnetismo discreto, che gli restava addosso anche dopo che se ne andava.
Mercoledì dopo mercoledì, Paolo si era accorto che anche lei arrivava sempre più o meno alla stessa ora. Accompagnava la madre — una signora minuta, con una giacca di lana azzurra anche d’estate — e restava a lungo a parlarle con una dolcezza severa, come se la tenerezza avesse bisogno di spine per essere vera. A volte Simona sorrideva, a volte taceva; in ogni caso, la stanza della madre diventava un piccolo teatro di cura e autorità. Di tanto in tanto, gli occhi di Simona scivolavano fuori, oltre la porta, nel corridoio. In quei momenti, Paolo sentiva — prima ancora di rendersene conto — l’urgenza di esserci, di inserirsi in quell’orbita, come se un filo impercettibile lo tirasse esattamente lì.
Quella mattina il cielo era di un grigio uniforme. Paolo arrivò con dieci minuti di anticipo, giusto il tempo di scambiare due parole con l’infermiera di turno, la quale sollevò appena il mento in un saluto consueto. Lo zio dormiva di traverso, con la coperta a metà. Paolo gli rimboccò il lenzuolo, gli sistemò il cuscino, restò un po’ appoggiato allo stipite della finestra a guardare le formiche che correvano sulla ringhiera del balconcino. Poi, come guidato da un’abitudine non detta, uscì in corridoio a camminare senza meta, il passo rallentato, le mani nelle tasche.
La vide all’estremità opposta, vicino al distributore dell’acqua. Simona parlava con un’infermiera, il tono basso, la mano che disegnava nell’aria un gesto breve, conclusivo. Ma non fu la conversazione a catturarlo. Fu il dettaglio: ai piedi, un paio di Birkenstock nere, il cuoio morbido, i listini lucidi, il profilo semplice e deciso che pareva disegnare un invito alla calma. Simona si spostò di mezzo passo e il piede, con la naturalezza di chi non ci pensa nemmeno, scivolò un istante fuori dal sandalo per poi ritrovarlo al tatto, come se l’incontro tra pelle e tomaia fosse un piccolo ritorno a casa.
Paolo restò fermo. Non era un uomo da colpi di fulmine, né da fissazioni improvvise. Eppure quel gesto minimo — il piede che rotola, l’appoggio, il ritorno — gli rimase negli occhi, come la cadenza di un metronomo interiore. Non c’era nulla di esibito, nulla di studiato; e proprio per questo quell’immagine gli parve più potente. Non saprebbe dire perché, ma la semplicità dei sandali, la sobrietà delle linee, la sicurezza con cui Simona li abitava gli sembrò riassumere qualcosa del suo carattere: essenziale, fermo, irresistibilmente concreto.
Lei lo vide. Non come si vede chiunque: lo contemplò per un secondo pieno, senza fretta, senza grazia di circostanza. Uno sguardo che passava attraverso, setacciando. Poi un cenno; un sorriso minimo, non tanto cortese quanto consapevole. Paolo ricambiò in ritardo, colto da quella lieve vertigine che si prova quando, in un attimo, si capisce di essere stati visti per davvero.
Seguì una scena di quotidianità: Simona rientrò nella stanza con la madre, Paolo tornò dallo zio. Il tempo scorse ordinato, con cadenze di tazze posate, parole semplici, silenzi buoni. Ma qualcosa nella postura di Paolo era cambiato: mentre lo zio gli raccontava per l’ennesima volta della squadra di calcio di quando era ragazzo, lui si scoprì a misurare il tempo non sui minuti dell’orologio, ma sui passi che separavano la stanza 214 dalla stanza 219 — quella della madre di Simona. Una misura di distanza che era, in realtà, una misura di attesa.
A metà pomeriggio, una luce più chiara filtrò dalle nuvole. Paolo, con una scusa qualsiasi allo zio («Vado a prendere un caffè, torno subito»), uscì. Il distributore di bevande faceva un rumore meccanico, l’odore di plastica nuova si mescolava al vapore del caffè. Mentre la tazzina si riempiva, la vide ancora: Simona stava sistemando la borsa sulla sedia, seduta accanto al letto della madre. Il suo piede dondolava, appena fuori dal sandalo, in un equilibrio perfetto tra abbandono e controllo. Non c’era ostentazione, non c’era posa; c’era un ritmo — lento, sicuro — che Paolo riconobbe come si riconosce una musica dopo poche note.
Si sentì sciocco. Si disse che stava proiettando, che quel movimento era solo un gesto casuale. Eppure, ogni volta che provava a distrarsi, lo sguardo vi tornava, come se un magnete lo richiamasse. Quando Simona sollevò la testa, il loro occhio si agganciò a mezz’aria. Lei non ritrasse, non fermò il movimento: lasciò che accadesse. Fu appena un istante, ma bastò a Paolo per avvertire sulle spalle il peso dolce di una decisione non detta: non sei tu a scegliere il mercoledì; è il mercoledì che ti sceglie.
Rientrò dallo zio con il caffè tra le dita, che adesso gli pareva più amaro. Cercò di dare un senso ai pensieri, ma i pensieri non volevano essere ordinati. Tornavano sempre lì: al passo misurato di Simona nei corridoi, al modo con cui si chinava per aggiustare il plaid alla madre, alle dita che sfioravano il cellulare senza concedere mai il privilegio di una distrazione vera. E soprattutto, tornavano a quei sandali. Non capiva perché un oggetto così comune gli stesse scavando dentro; e forse era proprio questa incomprensione a dargli forza.
Quando l’orario delle visite volse verso il cambio turno, il corridoio si fece più affollato: medaglie di nomi sulle pettorine, carrelli di lenzuola, familiari con borse di frutta. In quella piccola confusione, Simona uscì dalla stanza 219 per parlare con il medico. Paolo si trovò a passare sullo stesso lato, la distanza di due braccia, il tempo di una stretta di mano formale tra il dottore e lei. Colse frammenti di frasi — «pressione stabile», «mangia con regolarità» — e un bene pronunciato da Simona in modo asciutto, come un punto messo al posto giusto.
Quando il medico si allontanò, rimase un vuoto breve, e in quel vuoto si spostarono entrambi di mezzo passo, quasi sfiorandosi.
«Paolo, vero?» disse lei. La voce era esattamente come il resto: ferma, chiara, senza fronzoli.
«Sì» rispose lui, sorpreso che ricordasse il suo nome.
«Ti vedo spesso il mercoledì» aggiunse, scrollando appena la spalla come a indicare l’ovvio.
«Anch’io» fece lui, e si maledisse subito per la banalità.
Un angolo delle labbra di Simona si piegò. «È una buona abitudine» disse. «Le abitudini ci salvano. O ci catturano.»
Paolo non seppe cosa dire. Il tempo di un respiro, e una volontaria con il carrello dei libri passò tra loro scusandosi. Simona annuì a Paolo come si annuisce a una decisione presa: né troppo, né poco. Rientrò nella stanza. Il sandalo nero, nel mezzo passo di ritorno, tac sul linoleum: una sillaba d’inchiostro sulla pagina bianca del pomeriggio.
Quella sillaba rimase a vibrare. Paolo, che raramente si concedeva divagazioni, si scoprì a raccogliere dettagli come briciole in un sentiero. Il modo in cui Simona teneva la borsa — non sulla spalla, ma al gomito, in un gesto che non cercava di alleggerire nulla. Il modo in cui ascoltava gli altri — con lo sguardo stabile, senza ansimare di empatia. Il modo in cui camminava: un passo in avanti, l’altro che segue, e in quel seguire una promessa di ritmo. Tutto in lei sembrava dire: io conduco.
Quando lo zio si svegliò del tutto, volle andare a fare due passi nel corridoio. Paolo lo accompagnò piano. Passarono davanti alla 219, la porta semiaperta, la madre di Simona che sonnecchiava con le mani raccolte sul grembo. Simona le sistemava il cuscino con delicatezza; il sandalo le scivolò appena, un millimetro, prima di ritrovare l’appoggio. Scelse quell’istante per alzare lo sguardo. Lo sguardo andò dritto a Paolo, come se lo aspettasse da sempre. E fu lì, proprio lì, che capitò una cosa semplice e definitiva: non distolse.
Paolo sostenne il contatto quanto poté. Si sentì nudo e pieno, fragile e presente. Poi fu lo zio, con una frase storta («Dove si va, oggi?»), a sciogliere il filo. Ripartirono, e il passo di Paolo gli parve improvvisamente più leggero, e insieme più pesante. Come quando si esce da un cinema a metà film: il corpo fuori, la testa ancora dentro.
Al termine della visita, Paolo accompagnò lo zio in sala comune e si fermò a firmare il registro all’ingresso. Scrisse Paolo R. con la calligrafia che usava negli atti del suo ufficio, ordinata e inclinata. Mise la penna nel bicchierino. Stava per andarsene quando dal lato vetrata sentì il rumore lieve di una suola. Si voltò. Simona attraversava l’atrio, i sandali che facevano appena toc sul pavimento lucido. Parlava al telefono, due parole al minuto, come chi non ha bisogno di spiegare troppo. Arrivata alla porta automatica, si fermò un istante, come se avesse dimenticato qualcosa. Poi si girò verso di lui.
Non lo salutò con la mano: sarebbe stato troppo. Gli fece un cenno con il capo, quell’impercettibile flessione che è insieme saluto e misura. Paolo restò dove era, il registro sotto la penna, il pomeriggio alle spalle, il mercoledì davanti. Pensò, senza saperlo formulare, che qualcosa era cominciato. Non un incontro, non una conversazione: un ritmo.
Uscì nell’aria più fresca. Il cielo si era schiarito di un tono e il vialetto profumava di resina. Camminò lentamente verso l’auto, le chiavi che gli tintinnavano nel palmo. Si fermò a metà, come chi ha dimenticato il portafoglio. Non aveva dimenticato nulla: cercava solo di trattenere nella memoria come Simona aveva appoggiato il piede, come il sandalo aveva accompagnato, come lei aveva tenuto il suo sguardo. Sapeva che erano inezie, eppure quelle inezie gli stavano configurando dentro un paesaggio.
Sedette in macchina e non accese il motore subito. Appoggiò la fronte al volante, un istante. Si sentì sciocco di nuovo; e ridendo di sé, scoprì che quel ridere non cancellava nulla, anzi, lo fissava meglio. Mise in moto. Il navigatore scrisse Casa con la sua voce metallica. Paolo guidò piano, come se avesse paura di far cadere una goccia d’acqua da un bicchiere colmo.
Quella sera, a casa, preparò una pasta semplice e la lasciò scolare troppo. La televisione rimase accesa senza suono. Gli amici del gruppo scrissero sulla chat del calcetto del venerdì; lui rispose con pollici e faccine, ma l’attenzione era altrove, in una stanza bianca con una porta semiaperta, in un corridoio con il linoleum lucido, in un toc misurato che gli scandiva il respiro.
Andò a letto tardi. Nel buio, la città fece quel suo ronzio lontano, da frigorifero di palazzi. Paolo guardò il soffitto, ripassando mentalmente il mercoledì come si ripassa una melodia al pianoforte, cercando il punto in cui le dita si sono impigliate. Avrebbe voluto darsi una spiegazione sensata: dire che era solo una donna interessante, che la casa di riposo acuisce certi contrasti, che il desiderio è solo la forma estrema dell’attenzione. Tutte frasi giuste, tutte frasi vuote.
Prima di addormentarsi, ammise a sé stesso l’unica cosa che contava: attendeva il mercoledì successivo. Lo attendeva con l’impazienza di chi ha intravisto un varco e non vede l’ora di attraversarlo. Non sapeva ancora dove portasse quel corridoio. Ma aveva la certezza che, qualunque fosse la direzione, il passo non l’avrebbe dettato lui.
E, senza volerlo, sorrise. Per la prima volta dopo mesi, il mercoledì gli parve non più un dovere, ma una chiamata. Una chiamata con la voce morbida del cuoio, con il battito discreto di un sandalo sul pavimento, con lo sguardo di una donna che non domanda: decide.
Fuori, una folata di vento mosse le tende. Dentro, il respiro trovò la sua cadenza. E in quella cadenza, Paolo riconobbe un principio: le abitudini ci salvano. O ci catturano.
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