Rosa tra gli alberi - 4
di
JM
genere
feticismo
Il parco sembrava essersi svuotato. Forse erano solo le voci che si erano fatte più lontane, o forse erano loro che, in quel piccolo angolo nascosto, si erano disconnessi dal resto del mondo.
Nessuno avrebbe saputo dire con certezza dove cominciava il silenzio e dove finiva l’attesa.
Il telo steso sull’erba era ancora tiepido del sole di settembre, e sopra quel rettangolo di tessuto, due corpi si fronteggiavano senza toccarsi ancora. Ma il contatto era già in atto.
Negli sguardi.
Nel ritmo del respiro.
Nell’odore della pelle.
Elena si tolse gli occhiali da sole e li posò con calma accanto al bordo del telo. Poi si inginocchiò.
Il vestito fucsia seguì il movimento con un leggero fruscio, lasciando scoperte le ginocchia e la linea interna delle cosce. Il tessuto ondeggiava, ma il suo sguardo era fermo.
Concentrato.
Sul volto di Paolo.
Sulle sue mani ferme, sulle gambe divaricate appena.
Sulla tensione visibile nel ventre.
«Stai tremando?»
La voce era bassa, impastata di voglia. Ma anche di controllo.
Paolo deglutì. Non rispose. Ma il suo corpo parlava per lui.
Elena sorrise appena.
Poi si sedette su di lui a cavalcioni.
Non ancora per affondare. Solo per sentire.
Per posarsi.
Per dominare con la sola presenza.
Lo guardava da sopra, studiando le reazioni.
I suoi piedi nudi si erano posati sui lati delle sue gambe, come radici leggere che lo tenevano fermo a terra.
Ogni gesto era calcolato. Ma niente era forzato.
«Ricordi quella sera?»
«Ogni dettaglio,» sussurrò Paolo.
Lei si chinò.
La bocca a pochi centimetri dalla sua.
«Bene.
Perché stavolta... voglio che tu mi ricordi per il sapore.»
Le mani di Elena scesero lente lungo il torace di lui, poi si insinuarono sotto la cintura, senza fretta. Sciolse il bottone con una sola mano. L’altra gli accarezzava l’interno coscia con una delicatezza chirurgica.
Paolo era immobile, come sotto incantesimo.
Non c’era paura. Solo resa.
Quando lei lo liberò dai pantaloni, fu come sciogliere un nodo troppo teso da troppo tempo.
L’aria fresca del parco colpì la pelle nuda, facendolo sussultare.
Elena abbassò lo sguardo.
Lentamente.
Come se stesse osservando qualcosa che conosceva, ma che non vedeva da tempo.
Poi lo sfiorò. Con le dita prima. Poi con la lingua.
E infine con le labbra.
Paolo chiuse gli occhi.
Non era solo piacere.
Era qualcosa di più primitivo, più viscerale.
Era come se lei stesse leggendo la sua carne.
Il movimento era lento, costante.
Non c’era fretta.
Elena voleva assaporare ogni reazione, ogni sospiro, ogni piccola contrazione.
La lingua si muoveva con grazia.
La bocca avvolgeva, accoglieva, guidava.
Le mani premevano appena sulle anche di lui, fermandolo, ancorandolo.
Ogni risalita era una domanda.
Ogni discesa, una risposta.
Il suono era bagnato, profondo.
La saliva si mescolava all’aria, al respiro caldo, all’odore del corpo che saliva come vapore.
Un odore che Paolo conosceva bene. Che aveva sognato. Che non aveva mai davvero dimenticato.
Elena non guardava in su.
Sapeva già cosa stava facendo.
Lo sentiva.
E lo voleva tutto.
Quando lui tremò davvero, quando il corpo cominciò a cedere, lei strinse le labbra appena di più.
Accelerò. Ma non troppo.
Guidava.
Dirigeva.
Paolo gemette piano.
«Elena... sto...»
Ma non serviva dirlo.
Lei già lo sapeva.
E non si fermò.
Non si ritrasse.
Non esitò.
Lo accolse.
Tutto.
Con naturalezza, con rispetto, con fame.
Con la voglia di chi vuole nutrirsi di un uomo, davvero.
La sua gola si mosse una volta. Poi un’altra.
Poi si fermò.
Restò lì. Immobile.
Poi si sollevò piano, si passò la lingua sulle labbra, e lo guardò per la prima volta negli occhi da sotto in su.
Uno sguardo calmo. Intenso.
Appagato.
«Molto più buono di un gelato,» disse.
E si leccò ancora le labbra.
Non per provocazione.
Per gusto.
Paolo respirava ancora a fatica.
Il petto si alzava e si abbassava.
Il cuore battente nelle orecchie.
Elena si stese accanto a lui, sollevando il vestito per far respirare le gambe nude, il piede destro poggiato sulla sua coscia.
Il corpo di lei emanava calore.
Ma anche pace.
Silenzio.
Solo il vento.
E un nuovo desiderio che cominciava a nascere, appena sotto la pelle.
*Continua*
Nessuno avrebbe saputo dire con certezza dove cominciava il silenzio e dove finiva l’attesa.
Il telo steso sull’erba era ancora tiepido del sole di settembre, e sopra quel rettangolo di tessuto, due corpi si fronteggiavano senza toccarsi ancora. Ma il contatto era già in atto.
Negli sguardi.
Nel ritmo del respiro.
Nell’odore della pelle.
Elena si tolse gli occhiali da sole e li posò con calma accanto al bordo del telo. Poi si inginocchiò.
Il vestito fucsia seguì il movimento con un leggero fruscio, lasciando scoperte le ginocchia e la linea interna delle cosce. Il tessuto ondeggiava, ma il suo sguardo era fermo.
Concentrato.
Sul volto di Paolo.
Sulle sue mani ferme, sulle gambe divaricate appena.
Sulla tensione visibile nel ventre.
«Stai tremando?»
La voce era bassa, impastata di voglia. Ma anche di controllo.
Paolo deglutì. Non rispose. Ma il suo corpo parlava per lui.
Elena sorrise appena.
Poi si sedette su di lui a cavalcioni.
Non ancora per affondare. Solo per sentire.
Per posarsi.
Per dominare con la sola presenza.
Lo guardava da sopra, studiando le reazioni.
I suoi piedi nudi si erano posati sui lati delle sue gambe, come radici leggere che lo tenevano fermo a terra.
Ogni gesto era calcolato. Ma niente era forzato.
«Ricordi quella sera?»
«Ogni dettaglio,» sussurrò Paolo.
Lei si chinò.
La bocca a pochi centimetri dalla sua.
«Bene.
Perché stavolta... voglio che tu mi ricordi per il sapore.»
Le mani di Elena scesero lente lungo il torace di lui, poi si insinuarono sotto la cintura, senza fretta. Sciolse il bottone con una sola mano. L’altra gli accarezzava l’interno coscia con una delicatezza chirurgica.
Paolo era immobile, come sotto incantesimo.
Non c’era paura. Solo resa.
Quando lei lo liberò dai pantaloni, fu come sciogliere un nodo troppo teso da troppo tempo.
L’aria fresca del parco colpì la pelle nuda, facendolo sussultare.
Elena abbassò lo sguardo.
Lentamente.
Come se stesse osservando qualcosa che conosceva, ma che non vedeva da tempo.
Poi lo sfiorò. Con le dita prima. Poi con la lingua.
E infine con le labbra.
Paolo chiuse gli occhi.
Non era solo piacere.
Era qualcosa di più primitivo, più viscerale.
Era come se lei stesse leggendo la sua carne.
Il movimento era lento, costante.
Non c’era fretta.
Elena voleva assaporare ogni reazione, ogni sospiro, ogni piccola contrazione.
La lingua si muoveva con grazia.
La bocca avvolgeva, accoglieva, guidava.
Le mani premevano appena sulle anche di lui, fermandolo, ancorandolo.
Ogni risalita era una domanda.
Ogni discesa, una risposta.
Il suono era bagnato, profondo.
La saliva si mescolava all’aria, al respiro caldo, all’odore del corpo che saliva come vapore.
Un odore che Paolo conosceva bene. Che aveva sognato. Che non aveva mai davvero dimenticato.
Elena non guardava in su.
Sapeva già cosa stava facendo.
Lo sentiva.
E lo voleva tutto.
Quando lui tremò davvero, quando il corpo cominciò a cedere, lei strinse le labbra appena di più.
Accelerò. Ma non troppo.
Guidava.
Dirigeva.
Paolo gemette piano.
«Elena... sto...»
Ma non serviva dirlo.
Lei già lo sapeva.
E non si fermò.
Non si ritrasse.
Non esitò.
Lo accolse.
Tutto.
Con naturalezza, con rispetto, con fame.
Con la voglia di chi vuole nutrirsi di un uomo, davvero.
La sua gola si mosse una volta. Poi un’altra.
Poi si fermò.
Restò lì. Immobile.
Poi si sollevò piano, si passò la lingua sulle labbra, e lo guardò per la prima volta negli occhi da sotto in su.
Uno sguardo calmo. Intenso.
Appagato.
«Molto più buono di un gelato,» disse.
E si leccò ancora le labbra.
Non per provocazione.
Per gusto.
Paolo respirava ancora a fatica.
Il petto si alzava e si abbassava.
Il cuore battente nelle orecchie.
Elena si stese accanto a lui, sollevando il vestito per far respirare le gambe nude, il piede destro poggiato sulla sua coscia.
Il corpo di lei emanava calore.
Ma anche pace.
Silenzio.
Solo il vento.
E un nuovo desiderio che cominciava a nascere, appena sotto la pelle.
*Continua*
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