Je confesse (parte 4, fine)
di
Ripe (with decay)
genere
sentimentali
Intravidi un barlume di perplessità farsi strada a quelle parole, ma poi non ne seguì la logica riflessione. In condizioni normali l’avrebbe portata a desistere, ma avevo operato con cognizione di causa per portarla appena appena un poco più oltre la sua capacità di sopportazione dell'alcol. Giocavo poker con carte trasparenti. E lei era bendata.
La casa puzzava del vecchio inquilino. Lei si aggirò all’apparenza tranquilla. Vide una mia foto di quando ero pivello. Mi chiese della mia vita anteriore, della famiglia, se avevo realizzato ciò che sognavo in quel tempo passato. Seduta sul divano con un piede infilato sotto l’altra gamba ascoltava silenziosa. Tornai all’assalto con il bere. Whisky. Lei provò ad opporsi ma alla fine desistette ed accettò. C’erano quaranta gradi in più di febbre nell’aria. Sedetti al suo fianco, e quando abbandonò il capo sulla mia spalla le sollevai il volto e la baciai. Seppellii il naso nei suoi capelli sconvolti, annusai il profumo che risaliva fluttuando a lente ondate dal suo corpo. Sapeva di innocenza, di meraviglia e della bellezza dei suoi anni.
Mi guardò ammaliante. Non pensavo ad una reazione così favorevole. “Hai mai fatto l’amore?” domandai all’improvviso. Avvampò fino alla radice dei capelli.
Il mio sedano piccante, la mia rosellina rossa di pudore: bruciare, ad ogni morso di te!
La vidi rabbuiarsi, oppressa dal dilemma di una contraddizione da cui forse non avrebbe mai pensato di doversi salvare.
Agli inizi della nostra relazione, di fronte a domande troppo esplicite si ritraeva nel guscio per formulare risposte che fossero misurate e non compromettenti. Era un canone che apparteneva al suo codice comportamentale. Ma aveva avuto bisogno di essere rodato per funzionare correttamente ed ora non era abbastanza preparata per cimentarsi nelle questioni amorose. Rimase interdetta, il bel volto dilaniato da emozioni contrastanti.
Allora la baciai. Gettai le mie labbra sulle sue. Le accolse. Le lingue si intrecciarono, si mescolò la saliva. Percepii le reali intenzioni che provava dal brivido che la scosse. Premette la mano sul mio petto per respingermi, poi le dita risalirono a stringere la spalla, ad attirarmi a sé.
In quel momento, per fermarmi avrebbero dovuto sparare. Sempre baciandola le mani corsero a spogliarla. Con gli occhi seguii il suo corpo disvelarsi poco a poco. Sbottonai i jeans, glieli tirai via ammirando tutto quel ben di Dio. La sua pelle era liscia, di seta. Senza cellulite, smagliature, capillari rotti.
L’unico argine alla mia furia erano gli slip e il reggiseno. La lasciai libera di decidere. I nostri sguardi subivano le catene del desiderio. Lei sospirò e annuendo mi incitò a finire quello che avevo iniziato. Ormai eravamo compromessi. Tolsi l’ultimo velo della voluttà.
Quando vidi il seno gonfio di perfezione, la fica già arresa, tornai a baciarla. La timidezza congenita la costrinse involontariamente a serrare le gambe. Tentò ancora di respingermi. Una forza interiore sorta tutt’a un tratto la rese sferzante. “No, aspetta” mormorò confusa, evitando di guardarmi negli occhi, “ho cambiato idea… non voglio, non voglio più”. Ma quelle parole per quanto decise non fecero che rendermi più agguerrito. Non erano un colpo di pistola.
Mi ci volle poco per vincere le ultime resistenze. Infilai la testa tra le cosce e leccai. Era come il preludio di un lunga lezione che avrebbe imparato a memoria per gli anni a venire. La mia potenza sessuale era al culmine. L’erezione era dolorosa. La penetrai.
La vexata quaestio sulla verginità confermata dall’integrità dell’imene è ancora dibattuta. Non so. So solo che quella prima penetrazione – quella che mi rendeva il primo uomo della sua storia amorosa – fu ostacolata da una tensione che non si sarebbe più ripetuta, e da un tributo di sangue che si poteva spiegare solo con la realizzazione del mio sogno.
La scopai con amore e dedizione. Com’era magra! Un grissino. La vidi perdersi nel piacere, diventare paonazza. Non aveva idea di quello che stava succedendo. Mi puntellai sulle mani, feci leva sulle gambe e accelerai il ritmo fino a darle il tormento. Represse i gemiti, i sospiri – rantoli d’agonia. Quando venne mi abbrancò infilando le unghie nella schiena. Ancora adesso le capita di ripetere quel gesto.
L’avevo iniziata a un completo e consapevole godimento dell’orgasmo. Mi guardò estasiata, vergognosa e interrogativa. Aveva l’affanno. Restai dentro di lei. Quei salti temporali sembravano avere l’effetto di ripulire il codice genetico dall'invecchiamento. In una manciata di minuti mi sentii diventare di pietra. Anche lei se ne accorse. Si accigliò. Poverina! Credeva fosse finita.
Mi girai di schiena e l’accompagnai sopra di me. Sarebbe diventata la sua posizione preferita. La aiutai a muoversi intorno al mio cazzo. Dopo qualche incertezza capì il meccanismo e vi si consacrò con tutta l’anima. Cavalcò come un’amazzone. Non riuscii a resistere e mi attaccai ai capezzoli. Questo la portava da zero a cento. Secondo orgasmo: assaporai la palpitante contrazione della fica. Le tremavano le braccia. “Vieni giù, accoccolati su di me”. Quante volte lo avrei ripetuto in futuro! Dopo la cavallerizza, il meritato riposo. Le sussurrai parole dolci, che provenivano da un altro capo del filo del tempo. Le ascoltò stupita e meravigliata. Dall'occhiata dolce e perduta capii con dispiacere che si sarebbe per sempre aspettata un trattamento del genere dai prossimi amanti. Avrebbe dovuto attendere di incontrare me per riscoprire quelle sensazioni.
La terza scopata fu un furto. Non esiste brevetto nell’arte del sesso ma fu mia moglie a sorprendermi quel giorno di nascosto agli occhi dei ragazzi che gironzolavano per casa in cui scavallò la gamba sulla mia anca, sotto le coperte distesi uno di fronte all’altra, e messo dentro l’arnese mi regalò uno dei rapporti più intensi della nostra vita insieme.
Voi non sapete o non ricordate l’espressione piena di dubbi e aperta alla novità di una ragazza ignara di tutto che scopre una posizione insolita e interpreta la parte con ardore. La comprimevo con una mano sul culo affinché ogni suo affondo fosse radicale. Mi presentavo a lei con l’esperienza maturata al suo fianco e il mistero dell’uomo sconosciuto che batte alla porta della tua vita e del tuo cuore.
Dopo il terzo orgasmo condiviso pensavo non sarei riuscito a convincerla all’ultimo sforzo. Non se lo aspettava neppure. Essere prese da dietro non è una prerogativa così piacevole se si è donna. La perdita del contatto visivo con chi si ama fa male alle nostre compagne.
La rivoltai con una certa decisione. Dallo sguardo che mi rivolse e dalla faccia contrita temette forse di buscarle. Ero un vulcano in eruzione. Alla terza eiaculazione mi sentivo prosciugato – avevo le prugnette secche, come le piaceva sfottere. Ma la voglia non era ancora spenta. Iniziai a spingere come un pistone. La guardavo prona, distesa, in mio potere. Era succube e sottomessa. Che delizia!
Sfondandola mi perdevo in contemplazione del suo corpo acerbo. Riconoscevo i piedi, i glutei, la perfetta linea della schiena. Eppure non era lei. Ciò creava un senso di estraniamento e di sdoppiamento che non avrei mai più provato.
Non so voi, ma scopare come animali per me è fatale: vengo subito. Durai invece un tempo infinito. Abbastanza per farle raggiungere il quarto orgasmo. Mai, neppure agli inizi della nostra relazione, avevamo raggiunto quel numero perfetto. La udii implorare “basta, basta”. Stringeva tra le mani il lenzuolo come se dovesse trattenere il dolore di una tortura.
Quando i nostri visi tornarono a sfiorarsi scoprii i segni della prostrazione sul dolce viso. Gli occhi erano incendiati di riconoscenza e amore assoluto. Avevo commesso un errore imperdonabile: l’avevo fatta innamorare di qualcuno che il giorno dopo non avrebbe mai più rivisto, non in quella forma. Ricevetti come ultimo dono un casto bacio. Ci separammo. Le diedi appuntamento per l’indomani. Non mi avrebbe più rivisto.
Al mio ritorno avvertii una strana elettricità nell’aria. Ne traducevo la persistenza come un’immensa bolla di energia pronta ad esplodere. Non c’era mai stata prima.
In “Sound of thunder” di Ray Bradbury il cacciatore terrorizzato dal T-rex sbanda fuori dalla pista di contenimento e calpesta una piccola, innocua farfalla. La catena delle trasformazioni generate nella spirale dei milioni di anni cambia il mondo contemporaneo dei protagonisti.
Salii dal box al piano terra. Il ronzio delle apparecchiature alle mie spalle si spense quando chiusi la porta. Cucina, open space, ingresso: tutto a posto.
Al primo piano si susseguivano le camere da letto, lo studio e i tre bagni. Lo studio era il mio luogo segreto, adibito a sala ascolto ed esecuzione estemporanea di strumenti musicali, ufficio elaborazione progetto teletrasporto, altre varie ed eventuali. Ma c’era qualcosa che non tornava.
L’anta era spalancata e restava nell’ombra. Sul pannello intravidi una decorazione di benvenuto tinta di rosa e con le lettere infiorettate. Non c’era mai stata prima. Mi allungai dal vano a sbirciare.
Sparito tutto. Computer, chitarre, scrivania. Tutto. Sul letto era seduta una ragazza che non avevo mai visto prima. Deglutii. Era giovane. Avrà avuto, che so – 23 anni. E senza neppure guardarmi disse, facendomi raggelare il sangue: “Ciao papà”. Non avevo figlie. Avvertii uno spostamento d’aria, poi un’ombra sopraggiungere dal corridoio. “Mamma?”. Attonita, quasi spaventata. Lei.
Lo schiaffo che mi rifilò liberò tutta la forza accumulata in quei 24 anni. Mia figlia (mia figlia!) urlò per la sorpresa. Lei. Capii che razza di spauracchio fosse per le avversarie durante le partite. Barcollai. Fu così potente che l’occhio sinistro scavalcò il naso e andò a tenere compagnia all’altro.
“Tu! Tu!” ringhiò, livida di rabbia. “Non so come hai fatto, ma sei un gran bastardo”.
Secondo voi, me lo ha dato il bacino della buonanotte?
La casa puzzava del vecchio inquilino. Lei si aggirò all’apparenza tranquilla. Vide una mia foto di quando ero pivello. Mi chiese della mia vita anteriore, della famiglia, se avevo realizzato ciò che sognavo in quel tempo passato. Seduta sul divano con un piede infilato sotto l’altra gamba ascoltava silenziosa. Tornai all’assalto con il bere. Whisky. Lei provò ad opporsi ma alla fine desistette ed accettò. C’erano quaranta gradi in più di febbre nell’aria. Sedetti al suo fianco, e quando abbandonò il capo sulla mia spalla le sollevai il volto e la baciai. Seppellii il naso nei suoi capelli sconvolti, annusai il profumo che risaliva fluttuando a lente ondate dal suo corpo. Sapeva di innocenza, di meraviglia e della bellezza dei suoi anni.
Mi guardò ammaliante. Non pensavo ad una reazione così favorevole. “Hai mai fatto l’amore?” domandai all’improvviso. Avvampò fino alla radice dei capelli.
Il mio sedano piccante, la mia rosellina rossa di pudore: bruciare, ad ogni morso di te!
La vidi rabbuiarsi, oppressa dal dilemma di una contraddizione da cui forse non avrebbe mai pensato di doversi salvare.
Agli inizi della nostra relazione, di fronte a domande troppo esplicite si ritraeva nel guscio per formulare risposte che fossero misurate e non compromettenti. Era un canone che apparteneva al suo codice comportamentale. Ma aveva avuto bisogno di essere rodato per funzionare correttamente ed ora non era abbastanza preparata per cimentarsi nelle questioni amorose. Rimase interdetta, il bel volto dilaniato da emozioni contrastanti.
Allora la baciai. Gettai le mie labbra sulle sue. Le accolse. Le lingue si intrecciarono, si mescolò la saliva. Percepii le reali intenzioni che provava dal brivido che la scosse. Premette la mano sul mio petto per respingermi, poi le dita risalirono a stringere la spalla, ad attirarmi a sé.
In quel momento, per fermarmi avrebbero dovuto sparare. Sempre baciandola le mani corsero a spogliarla. Con gli occhi seguii il suo corpo disvelarsi poco a poco. Sbottonai i jeans, glieli tirai via ammirando tutto quel ben di Dio. La sua pelle era liscia, di seta. Senza cellulite, smagliature, capillari rotti.
L’unico argine alla mia furia erano gli slip e il reggiseno. La lasciai libera di decidere. I nostri sguardi subivano le catene del desiderio. Lei sospirò e annuendo mi incitò a finire quello che avevo iniziato. Ormai eravamo compromessi. Tolsi l’ultimo velo della voluttà.
Quando vidi il seno gonfio di perfezione, la fica già arresa, tornai a baciarla. La timidezza congenita la costrinse involontariamente a serrare le gambe. Tentò ancora di respingermi. Una forza interiore sorta tutt’a un tratto la rese sferzante. “No, aspetta” mormorò confusa, evitando di guardarmi negli occhi, “ho cambiato idea… non voglio, non voglio più”. Ma quelle parole per quanto decise non fecero che rendermi più agguerrito. Non erano un colpo di pistola.
Mi ci volle poco per vincere le ultime resistenze. Infilai la testa tra le cosce e leccai. Era come il preludio di un lunga lezione che avrebbe imparato a memoria per gli anni a venire. La mia potenza sessuale era al culmine. L’erezione era dolorosa. La penetrai.
La vexata quaestio sulla verginità confermata dall’integrità dell’imene è ancora dibattuta. Non so. So solo che quella prima penetrazione – quella che mi rendeva il primo uomo della sua storia amorosa – fu ostacolata da una tensione che non si sarebbe più ripetuta, e da un tributo di sangue che si poteva spiegare solo con la realizzazione del mio sogno.
La scopai con amore e dedizione. Com’era magra! Un grissino. La vidi perdersi nel piacere, diventare paonazza. Non aveva idea di quello che stava succedendo. Mi puntellai sulle mani, feci leva sulle gambe e accelerai il ritmo fino a darle il tormento. Represse i gemiti, i sospiri – rantoli d’agonia. Quando venne mi abbrancò infilando le unghie nella schiena. Ancora adesso le capita di ripetere quel gesto.
L’avevo iniziata a un completo e consapevole godimento dell’orgasmo. Mi guardò estasiata, vergognosa e interrogativa. Aveva l’affanno. Restai dentro di lei. Quei salti temporali sembravano avere l’effetto di ripulire il codice genetico dall'invecchiamento. In una manciata di minuti mi sentii diventare di pietra. Anche lei se ne accorse. Si accigliò. Poverina! Credeva fosse finita.
Mi girai di schiena e l’accompagnai sopra di me. Sarebbe diventata la sua posizione preferita. La aiutai a muoversi intorno al mio cazzo. Dopo qualche incertezza capì il meccanismo e vi si consacrò con tutta l’anima. Cavalcò come un’amazzone. Non riuscii a resistere e mi attaccai ai capezzoli. Questo la portava da zero a cento. Secondo orgasmo: assaporai la palpitante contrazione della fica. Le tremavano le braccia. “Vieni giù, accoccolati su di me”. Quante volte lo avrei ripetuto in futuro! Dopo la cavallerizza, il meritato riposo. Le sussurrai parole dolci, che provenivano da un altro capo del filo del tempo. Le ascoltò stupita e meravigliata. Dall'occhiata dolce e perduta capii con dispiacere che si sarebbe per sempre aspettata un trattamento del genere dai prossimi amanti. Avrebbe dovuto attendere di incontrare me per riscoprire quelle sensazioni.
La terza scopata fu un furto. Non esiste brevetto nell’arte del sesso ma fu mia moglie a sorprendermi quel giorno di nascosto agli occhi dei ragazzi che gironzolavano per casa in cui scavallò la gamba sulla mia anca, sotto le coperte distesi uno di fronte all’altra, e messo dentro l’arnese mi regalò uno dei rapporti più intensi della nostra vita insieme.
Voi non sapete o non ricordate l’espressione piena di dubbi e aperta alla novità di una ragazza ignara di tutto che scopre una posizione insolita e interpreta la parte con ardore. La comprimevo con una mano sul culo affinché ogni suo affondo fosse radicale. Mi presentavo a lei con l’esperienza maturata al suo fianco e il mistero dell’uomo sconosciuto che batte alla porta della tua vita e del tuo cuore.
Dopo il terzo orgasmo condiviso pensavo non sarei riuscito a convincerla all’ultimo sforzo. Non se lo aspettava neppure. Essere prese da dietro non è una prerogativa così piacevole se si è donna. La perdita del contatto visivo con chi si ama fa male alle nostre compagne.
La rivoltai con una certa decisione. Dallo sguardo che mi rivolse e dalla faccia contrita temette forse di buscarle. Ero un vulcano in eruzione. Alla terza eiaculazione mi sentivo prosciugato – avevo le prugnette secche, come le piaceva sfottere. Ma la voglia non era ancora spenta. Iniziai a spingere come un pistone. La guardavo prona, distesa, in mio potere. Era succube e sottomessa. Che delizia!
Sfondandola mi perdevo in contemplazione del suo corpo acerbo. Riconoscevo i piedi, i glutei, la perfetta linea della schiena. Eppure non era lei. Ciò creava un senso di estraniamento e di sdoppiamento che non avrei mai più provato.
Non so voi, ma scopare come animali per me è fatale: vengo subito. Durai invece un tempo infinito. Abbastanza per farle raggiungere il quarto orgasmo. Mai, neppure agli inizi della nostra relazione, avevamo raggiunto quel numero perfetto. La udii implorare “basta, basta”. Stringeva tra le mani il lenzuolo come se dovesse trattenere il dolore di una tortura.
Quando i nostri visi tornarono a sfiorarsi scoprii i segni della prostrazione sul dolce viso. Gli occhi erano incendiati di riconoscenza e amore assoluto. Avevo commesso un errore imperdonabile: l’avevo fatta innamorare di qualcuno che il giorno dopo non avrebbe mai più rivisto, non in quella forma. Ricevetti come ultimo dono un casto bacio. Ci separammo. Le diedi appuntamento per l’indomani. Non mi avrebbe più rivisto.
Al mio ritorno avvertii una strana elettricità nell’aria. Ne traducevo la persistenza come un’immensa bolla di energia pronta ad esplodere. Non c’era mai stata prima.
In “Sound of thunder” di Ray Bradbury il cacciatore terrorizzato dal T-rex sbanda fuori dalla pista di contenimento e calpesta una piccola, innocua farfalla. La catena delle trasformazioni generate nella spirale dei milioni di anni cambia il mondo contemporaneo dei protagonisti.
Salii dal box al piano terra. Il ronzio delle apparecchiature alle mie spalle si spense quando chiusi la porta. Cucina, open space, ingresso: tutto a posto.
Al primo piano si susseguivano le camere da letto, lo studio e i tre bagni. Lo studio era il mio luogo segreto, adibito a sala ascolto ed esecuzione estemporanea di strumenti musicali, ufficio elaborazione progetto teletrasporto, altre varie ed eventuali. Ma c’era qualcosa che non tornava.
L’anta era spalancata e restava nell’ombra. Sul pannello intravidi una decorazione di benvenuto tinta di rosa e con le lettere infiorettate. Non c’era mai stata prima. Mi allungai dal vano a sbirciare.
Sparito tutto. Computer, chitarre, scrivania. Tutto. Sul letto era seduta una ragazza che non avevo mai visto prima. Deglutii. Era giovane. Avrà avuto, che so – 23 anni. E senza neppure guardarmi disse, facendomi raggelare il sangue: “Ciao papà”. Non avevo figlie. Avvertii uno spostamento d’aria, poi un’ombra sopraggiungere dal corridoio. “Mamma?”. Attonita, quasi spaventata. Lei.
Lo schiaffo che mi rifilò liberò tutta la forza accumulata in quei 24 anni. Mia figlia (mia figlia!) urlò per la sorpresa. Lei. Capii che razza di spauracchio fosse per le avversarie durante le partite. Barcollai. Fu così potente che l’occhio sinistro scavalcò il naso e andò a tenere compagnia all’altro.
“Tu! Tu!” ringhiò, livida di rabbia. “Non so come hai fatto, ma sei un gran bastardo”.
Secondo voi, me lo ha dato il bacino della buonanotte?
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