Je confesse (parte 3)

di
genere
sentimentali

Adoperai tutte le armi a mia disposizione per sedurla con il fascino che lei aveva riconosciuto in me durante l’inizio della nostra relazione. Potevano essere doti impercettibili per una ragazza ancora immersa nella breve favola della fine dell’adolescenza. Ma se come credevo la sua personalità era già scolpita, avrebbe reagito con la stessa esuberante energia, imprimendo alla propria orbita la deviazione giusta per collidere trionfalmente con la mia.
La facevo ridere. Le piaceva la mia ironia sopra le righe, anche un po' maligna. Nonostante i miei anni e l’aspetto di uomo maturo, mi comportai come un mezzo cretinetto, adducendo a giustificazione la fatica, l’alcool, e perché no, la buona compagnia. “Sei una gran pallavolista” le confessai. “Ma sei anche una bella persona, una cara ragazza. Fortunato chi ti avrà”. E dopo un'esternazione così grave la invitai ad un brindisi tra boccali semivuoti, aspettandomi il peggio: uno schiaffo, lei che si alza e se ne va.
Invece accettò l’invito, bevve, si pulì le labbra con gesto sensuale. Mi studiava con occhi strani. Di nuovo le sue aspettative erano state disattese. Non deluse: diattese. Il suo cervello la informava che quello che stava provando per me non era accettabile né decoroso; il cuore però diceva tutt’altro, si ribellava.
La lasciai con discrezione, come un vero galantuomo. A casa il fantasma di quella ragazza imbronciata per una situazione incontrollabile mi perseguitò nelle fattezze di lei donna matura. “Perché tutto questo improvviso interesse per il mio passato di ragazza?” domandò a bruciapelo.
Suonò un campanello d’allarme. Dovevo fornire una spiegazione più neutra possibile. Non fu neppure difficile. “Non me ne hai mai parlato”. Mi diede le spalle. Sapevo che stava rimuginando. Si voltò di nuovo verso di me. Non disse nulla. Si limitò a scrutarmi come se vedesse qualcosa di diverso, e non del tutto consono con le sue stramaledette aspettative.
L’esultanza del tradimento scatenò una tempesta nel mio sangue. Lei era davanti a me. Potevo vederla, sentirla, toccarla. Traboccavo d’amore per lei. E nel contempo trescavo con la ragazza che era stata, che volevo trasformare nella mia amante, sentendomi trascinato dal desiderio e dalla passione, sognando di possederla con la foga animalesca che ululava silenziosa nella carne. E ciò mi rendeva onnipotente.
Voi non potete comprendere in che vortice di sensazioni ero precipitato. Mi bastava vedere una e pensare all’altra, e viceversa, per subire un’attrazione incontenibile, che scatenava erezioni senza fine, sogni erotici che neppure la masturbazione poteva lenire, oppure il ratto della donna adulta perché sulla ragazza non ero ancora riuscito a mettere le mani. Ero amante di due mogli, di una sola donna sdoppiata, di una sacra femmina immortale che riviveva una seconda giovinezza.
Mia moglie si piegò sotto il lavabo per buttare qualcosa nella spazzatura. Il bel culo a malapena nascosto dai leggings fu un richiamo irresistibile. I ragazzi non c’erano, e contro la sua volontà la presi da dietro lì in cucina. Resistette e protestò, ma alla fine non poté fare altro che cedere e lasciarsi scopare.
Dormendo accanto a lei conclusi che dovevo affrettarmi. Nonostante il teletrasporto temporale, non avevo più tempo a disposizione. E questo era davvero un gran brutto paradosso.

Occorre annoiarvi con un excursus aneddotico.
Ho già detto che quando si viaggia nel tempo non ci si può cimentare impreparati.
Immaginate che una pattuglia del passato vi fermi per un controllo: cosa gli presentate, documenti datati un paio di decenni nel futuro? Bisogna giocare d’anticipo, falsificare con cognizione di causa. Per rispettare l’eventualità tutt’altro che remota di usare dei soldi – con cui, per esempio, offrire una birra – bisogna procacciarsi moneta corrente del periodo. Molta moneta corrente. Non penso ci sia davvero bisogno di ripeterlo: le vostre carte non funzionerebbero. Eseguii tutto con oculatezza e dedizione. Ma ci volle un mucchio di tempo.
Se nel passato l’intervallo non era più di qualche giorno, nel presente passavano settimane. E io non potevo permettermelo, non volevo permettermelo. Friggevo di impazienza e di desiderio. Sentivo che mi mancava qualcosa senza di lei, anche se lei era lì accanto a me, moglie e compagna di tutti giorni, madre di tutti i giorni, amante di tutte le notti. Fu un periodo di amore appassionato. Sentivo come verità indubitabile che anche a settant'anni non avremmo smesso di fare l’amore, che avrei infilato la testa in mezzo alle sue cosce per mangiargliela, che avrei succhiato le sue tette anche se fossero state vizze e pendule come frutti vuoti. Forse per resistere fino in fondo avrei dovuto cercare rimedio nella chimica, e forse entrambi per sopportare di vederci nella nostra vecchiezza avremmo chiesto consiglio al buio. Ma non avremmo smesso di amarci e di dimostrarlo facendo l’amore fino all’ultimo respiro.
Tutti quegli sforzi erano tesi a conseguire un unico risultato: una verosimiglianza così totale da indurla a credermi ciecamente, a fidarsi completamente di me.
Cercai un appartamento arredato in affitto. Stipulai il contratto versando sei mesi anticipati. Il contraente strabuzzò gli occhi, ma non ebbe nulla da eccepire. Ero un freelance, non avevo radici. Resi l'ambiente meno spoglio con qualcosa che suggerisse storie di me.
Avevo scoperto, in ultimo, un gran brutto affare: non si poteva tornare indietro nel tempo nel medesimo quando per più di una volta. Provando a ripetere il primo viaggio il monitor non rappresentò attraverso simboli alfanumerici la combinazione che mi ero aspettato. Mi era saltato in mente di zompare di nuovo nel momento in cui tendevo la mano verso di lei, uscendo allo scoperto. Per aggirare il problema (non avevo la mente abbastanza lucida per affrontarlo in modo appropriato) giocai d’astuzia, antecedendo il salto di un paio di minuti. Ma quando trascorsero e aspettavo la mia comparsa nel box con la copia identica del teletrasporto, all’istante fui risucchiato nel presente e il paradosso non si compì.
Per un mezzo ateo come me la cosa provocò un certo stupore. Non che questo fornisse la prova dell’esistenza di alcunché di superiore e cosciente, se non la presenza di un meccanismo di salvaguardia contro l’annientamento universale causato da un imbecille.
Forse un wormhole, una distorsione temporale, non possono incrociarne un’altra?

“Accetteresti un invito a pranzo?” buttai lì per lì. Mi sentivo svenire e dovetti reprimere l’emozione, ma lo stesso quello che sentii uscire dalla mia bocca fu un pigolio imbarazzante. “Devo intervistare la futura campionessa della nazionale italiana di pallavolo” la blandii sornione. Osservai gongolante come il complimento suscitasse in lei le classiche emozioni che colpiscono a valanga un’anima fragile e bisognosa di attenzioni, stuzzicando l'orgoglio sepolto sotto strati di reticenze e omissioni. Due anemoni fluttuarono sulle sue guance. Gli occhi brillavano come se qualcuno avesse schiacciato il pulsante della luce.
“Chiamo casa” le uscì di bocca mentre si alzava per appartarsi. Il cellulare che prese dalla borsa mi fece uno strano effetto da quanto era antidiluviano. Mi venne da sorridere un sorriso ebbro: la sua risposta implicita era affermativa. Una sniffata non avrebbe potuto provocare reazioni così piacevoli.
La accompagnai con la macchina presa a noleggio. La lasciai interdetta per il ristorante prescelto – le sue sopracciglia disegnarono due lunette di stupore mentre confrontava i prezzi – e per la compiacenza che mostrai nei confronti del suo più intimo io. Conoscevo molti segreti di quello scrigno e possedevo le chiavi per aprirlo, ma vederlo fiorire davanti a me fu uno spettacolo inebriante.
Ero andato. Avevo preso una cotta per la ragazza che sarebbe diventata mia moglie. E come avrebbe potuto essere altrimenti? Le posi domande che sapevo avrebbe gradito e non lesinai di mettere l'accento sulla questione femminile a cui teneva molto, allora come adesso. Mi parlò di tutto, e ascoltandola il desiderio cresceva, cresceva. Con discrezione, nonostante un iniziale rifiuto, le rabboccai il bicchiere così di frequente da non farle capire quando quell’unico che si era ripromessa di bere sarebbe finito. A fine pranzo notai che barcollava un poco, ed una piccola fitta di rimorso mi fece dubitare dell’integrità delle mie azioni. Ma quando si appoggiò al braccio per farsi accompagnare ogni riserva svanì.
“Dove andiamo?”.
“Ti faccio vedere casa mia”.
scritto il
2025-09-14
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