Silvio & Elena 2

di
genere
tradimenti

Buongiorno lettori. A differenza dei precedenti racconti quanto andate a leggere è ispirato ad una storia vera come mi è stata raccontata dalla coppia. Ovviamente per motivi meramente letterari è stata romanzata, ma senza stravolgerne il senso generale dell’accaduto.
Buona lettura.

Settembre era cominciato con un’aria più fresca al mattino, il sole che non scaldava più come ad agosto, e il ritorno a casa che sembrava quasi un rientro in scena. Elena aveva ripreso il lavoro, gli orari, i capelli raccolti con la matita quando cucinava, la lavatrice da fare partire la sera. Ma dentro, ogni gesto era un teatro. Una maschera sottile. Silvio non se ne accorgeva, e forse non voleva accorgersene. Era tornato a dormire accanto a lei come sempre, a baciarla sulla fronte con la stessa tenerezza meccanica. Ma qualcosa, evidentemente, gli sfuggiva. O forse lo sentiva. E proprio per questo aveva cominciato a insistere.

La prima volta lo aveva detto con una battuta, mentre guardavano una serie sul divano. Una scena con un tradimento, una donna che si lasciava portare via da uno sconosciuto, e lui aveva riso: "Chissà se un giorno anche tu mi farai una sorpresa del genere." Lei non aveva riso. Aveva solo cambiato posizione e si era concentrata sulla televisione, anche se non stava guardando più nulla.

Ma le battute erano diventate allusioni. E le allusioni mezze richieste. Come quella sera, la seconda settimana di settembre, con la finestra aperta e la brezza che faceva sbattere piano le tende. Elena indossava solo una camicia lunga e le gambe nude le si incrociavano sul divano con grazia istintiva. Silvio sedeva accanto a lei, più vicino del solito, con quella strana voglia negli occhi. Le passava una mano sulla coscia, lenta, sfiorandola con il pollice. Poi aveva sussurrato piano: "Mi eccita pensare che qualcuno possa desiderarti come ti desidero io. Che magari un giorno tu possa lasciarti guardare... toccare... davanti a me."

Lei si era irrigidita appena, ma solo dentro. Il viso restò composto, la voce più calma del previsto. "Ma che dici…? Sei serio?"

Silvio annuì con un mezzo sorriso, cercando complicità. "Non ti piacerebbe? Un gioco, nulla di più. Vederti desiderata mi manderebbe fuori di testa."

Elena aveva abbassato lo sguardo. Si portò una ciocca dietro l’orecchio, facendo passare qualche secondo di silenzio. Poi rispose, senza tremare: "Mi sembra una cosa assurda. Io non riuscirei mai."

Le parole erano perfette. Ma nella mente le immagini si accavallavano: i gemiti soffocati, il getto caldo tra le gambe, la pelle che sbatteva, i respiri affannati sotto le docce del campeggio. E la consapevolezza che il suo rifiuto era solo una difesa. Non per Silvio, ma per sé.

Era una notte ancora calda, malgrado settembre avesse già svuotato l’aria di agosto. Elena aveva le gambe nude sotto il lenzuolo, una canotta di cotone leggerissimo che le si era già arrotolata sopra il seno. Silvio le si era avvicinato quasi con impazienza, senza troppe parole, e lei si era lasciata fare. La mano di lui le aveva cercato il fianco, poi era scivolata tra le cosce, decisa, mentre le sue labbra si chiudevano sulla spalla umida. Nessuno dei due aveva acceso la luce. Nessuno aveva bisogno di vedere.

Il sesso tra loro era diventato più frequente, più fisico, più urgente dopo le vacanze. Lei non faceva domande. Lui non faceva commenti. Ma c’era qualcosa di nuovo in quel corpo che la prendeva, un desiderio più oscuro, quasi imbarazzato. Lo sentiva nella presa, nei colpi più profondi, nella voce che si rompeva all’orecchio mentre la spingeva verso il cuscino.

Quella notte, nel pieno del ritmo, fu lui a romperlo. Rimase dentro di lei con il bacino fermo, la fronte appoggiata alla sua schiena. Respirava forte. Poi parlò.

“Sai che ci sono uomini che portano le mogli con altri? Che le guardano… mentre vengono usate? E le amano ancora di più dopo…?”

Il silenzio esplose tra loro come un battito mancato. Elena non rispose. Restò immobile sotto di lui, gli occhi aperti nel buio, il cuore che non accelerava, ma rallentava. Come se si stesse allineando.

Lui riprese a muoversi piano, più piano di prima. “Ne parlano in chat… ci sono coppie vere… succede davvero. A me non dispiacerebbe. Pensare a te così. Desiderata. Usata. Ma mia.”

Lei si morse la lingua. La voce non doveva uscire. Solo il respiro. Solo il piacere.
Poi si voltò lentamente, prese il viso di lui tra le mani e lo baciò come non faceva da mesi. Profondo, sporco, dominato da un impulso feroce. Gli montò sopra, lo fece sdraiare, e cominciò a cavalcarlo con un ritmo deciso, come se quel pensiero gli appartenesse… ma fosse il suo.

Silvio la guardava con gli occhi pieni di stupore, come se stesse vedendo in lei qualcosa che non aveva mai visto. E forse era vero.

Ma non sapeva che stava solo vedendo il riflesso.
L’originale era rimasto tra le piastrelle di una doccia, con la pelle premuta contro un’altra pelle.
E il sapore sulla lingua.

Lo teneva dentro, profondo, mentre le mani gli afferravano i fianchi e lo sguardo si perdeva tra il piacere e la sorpresa. Elena si muoveva con un ritmo lento, ipnotico, come se volesse farlo restare lì, incollato a lei, intrappolato nel calore e nel mistero di quel corpo che improvvisamente gli sembrava nuovo. La pelle lucida, le labbra socchiuse, i capelli che le cadevano sugli zigomi — sembrava che qualcosa in lei fosse scattato, ma non riusciva a capirne il senso.

Lei si chinò in avanti. Il seno gli sfiorò il petto. La bocca gli lambì l’orecchio.

“È davvero questo che vuoi, Silvio?” sussurrò, con un filo di voce carico di intenzione. “Vuoi vedermi… in quel modo? Guardarmi mentre un altro mi prende?”

La domanda non era una provocazione. Non rideva, non scherzava. Lo chiedeva come si chiede qualcosa che ha il peso di un giuramento. Lui non rispose subito. La presa sui suoi fianchi si fece più forte. Lei non smise di muoversi.

“Perché se è quello che vuoi…” continuò, con una calma pericolosa, “io posso provare. Solo per amor tuo. Posso accompagnarti. Ma solo provarci. A modo mio. Nei miei tempi.”

Le parole si incastonavano tra i colpi, come pietre lisce che affondavano nel letto. Elena lo guardava negli occhi mentre lo diceva, con una fermezza che non lasciava spazio a dubbi. Lui annuì piano, con la bocca socchiusa, incapace di distinguere se stava sognando o vivendo qualcosa di più profondo.

Ma lei sì. Lei sapeva perfettamente cosa stava facendo. Stava regalando a Silvio l’illusione del comando, offrendogli in cambio il solo brivido che lui potesse sopportare: la possibilità di entrare in un mondo dove lei era già regina. E dove nessuno, nemmeno lui, avrebbe mai avuto davvero il controllo.

Il respiro di Silvio era diventato spezzato, quasi incerto, mentre Elena continuava a cavalcarlo con movimenti rotondi, pieni, decisi. Le mani di lui ormai tremavano sui suoi fianchi, i polpastrelli scivolavano sulla pelle sudata e cercavano un appiglio, qualcosa che potesse ancora tenerlo ancorato alla realtà. Ma lei non glielo permetteva. Lo teneva lì, sospeso, in balia del suo piacere e delle parole che lentamente gli bruciavano la gola.

Quando sentì che stava per cedere, la voce gli uscì strozzata, roca, quasi un’implorazione.
“Potremmo… cominciare… con delle chat… anonime… così, solo per gioco…”

Non ci fu risposta. Solo un istante di immobilità assoluta da parte di Elena, come se stesse valutando ogni sillaba. Poi ricominciò a muoversi. Più forte. Più a fondo. Più veloce. I suoi occhi non lasciavano quelli di lui, e il seno gli scivolava sul petto con ogni colpo. Le labbra si dischiusero appena.

“Sì…” Un sussurro. Poi un altro. “…sì…” Più lungo, più carico. “…sì…”

Diventò un gemito, poi un’onda, poi un’eco che si perse nel buio della stanza. E quando Silvio gemette, contraendosi sotto di lei con tutto il corpo, quando il suo piacere esplose dentro di lei senza più resistenza, Elena lo guardava ancora. Non aveva distolto lo sguardo nemmeno per un secondo.

Il suo orgasmo arrivò un attimo dopo, più silenzioso, ma non meno profondo. Un fremito lungo, incontrollabile, che le percorse la schiena come una scarica di tensione tenuta a freno per troppo tempo. Il suo corpo si strinse attorno a lui, lo accolse, lo svuotò, lo marchiò.

Poi restò immobile, ancora sopra, con il respiro affannoso e la pelle che bruciava.

Nessuna parola.
Ma in quel sì… c’era già tutto.

Le prime sere furono quasi divertenti. Silvio tornava dal lavoro, cenavano insieme, poi accendevano il portatile nel silenzio della casa. La luce dello schermo illuminava i volti appena, mentre le tende chiudevano fuori il mondo. Lui si registrava con nomi banali, pseudonimi che cambiava ogni volta, e accedeva a quelle chat anonime dove l’unica cosa certa era la fretta.

I primi contatti arrivavano subito. Uomini soli, spesso volgari già al primo messaggio, impazienti, sgrammaticati, incapaci di aspettare più di due risposte prima di chiedere una foto. Silvio cercava di rispondere, provava a guidare la conversazione, a stuzzicare, a creare un’atmosfera. Ma dall’altra parte c’era solo bisogno. Fame. E zero immaginazione.

Elena restava seduta accanto a lui, in silenzio. Ogni tanto suggeriva una frase, un dettaglio, un modo diverso di rispondere. Ma nessuno dei maschi sembrava degno nemmeno di una risposta intera. Alcuni volevano solo parlare di sé, altri volevano comandare senza conoscere, senza capire. Qualcuno si eccitava solo scrivendo parole umilianti, altrettanto prevedibili quanto noiose. E in pochi minuti… sparivano.

Le notti passavano così, sempre uguali. Silvio sembrava ancora coinvolto, forse più per curiosità che per vero desiderio. Elena invece si allontanava. Non dal gioco, ma da quel mondo piccolo, banale, fatto solo di pixel e approssimazioni.

Smise di parlare. Poi smise di guardare. Rimaneva seduta accanto a lui, con un libro aperto sulle gambe che non leggeva mai davvero. Non interveniva più, lasciava fare. Ogni tanto chiudeva gli occhi e si chiedeva cosa stesse davvero cercando. E soprattutto: con chi.

Ma restava lì. Zitta. Lucida. In attesa.

Era passata più di un’ora da quando Silvio era tornato a casa, ma Elena non si era ancora mossa dallo studio. Aveva lasciato la porta accostata, come a dire non disturbarmi, ma se devi, fallo piano. La luce calda della lampada le illuminava il viso mentre leggeva, un piede nudo che oscillava lento sotto la sedia, la radio in sottofondo con voce bassa e senza pubblicità. Silvio bussò con due dita sul legno. Non aspettò una risposta. Entrò.

Lei alzò lo sguardo solo per un secondo, poi tornò sul libro.

“Posso disturbarti un attimo?” chiese lui.

Lei non rispose. Chiuse il segnalibro tra le pagine con calma e lo posò in grembo. Non era irritata. Solo distante. Era da settimane che non condividevano più le serate davanti al portatile. All’inizio era stata stanchezza, poi fastidio. Infine, indifferenza. Ogni tanto Silvio provava ancora ad accennarle qualcosa — un messaggio ricevuto, un nickname curioso — ma lei non dava mai corda.

Quella sera, però, lui sembrava diverso. Aveva un’espressione più viva, quasi emozionata. Si sedette sul bordo della scrivania.

“Forse l’ho trovato.”

Lei lo guardò di nuovo, stavolta lasciando passare qualche secondo prima di parlare. “Trovato chi?”

Silvio sorrise, come uno che ha paura di sbagliare, ma che non vuole più trattenersi.

“Un uomo. Uno vero. Non quei disperati delle chat. Uno con la testa a posto, con classe. Fa il carabiniere, è di stanza qui a Milano, ma viene da giù… dalle Marche o dall’Abruzzo, non ho capito bene. È diretto, ma mai volgare. Ci scriviamo da giorni. È curioso. Spiritoso. Ha detto che non ha problemi con le coppie. Che gli piace quando c’è rispetto e intesa. Che si diverte. E che se ci va, ci va sul serio.”

Elena non fece una piega. Non sorrise, non si irrigidì. Solo abbassò di poco il mento e lo guardò con più attenzione.
“Gli hai detto di me?”

“No. Solo che siamo una coppia. Che cerchiamo qualcosa di vero, non una segata in chat. Gli ho detto che se le cose andassero avanti… potrei parlarne con te.”

Lei riprese il libro, ma non lo aprì. Solo accarezzava il dorso con l’indice.
“E a te... piace?”

Silvio annuì, con la luce negli occhi.
“Mi intriga. Non so spiegarti. È come se... non fosse solo sesso. Come se sapesse aspettare. Leggere. Entrare piano. E poi…” fece una pausa. “È uno che sa cosa vuol dire rispetto.”

Lei si alzò in piedi, senza aggiungere altro. Il libro rimase sulla sedia. Si avvicinò a lui, molto lentamente, fino a sentirne il respiro sul collo. Poi gli baciò la guancia. Un bacio lungo, caldo, fermo.

“Vedremo,” disse solo, e uscì dalla stanza.

Le gambe nude sfioravano il pavimento mentre camminava. La porta si richiuse piano dietro di lei.
E per la prima volta dopo tanto tempo, nei suoi occhi non c’era distanza.
C’era una scintilla.

Silvio aveva acceso il portatile ancora prima che Elena uscisse dal bagno. La casa era silenziosa, solo il ticchettio delle dita sulla tastiera riempiva il soggiorno. Lei lo osservava in piedi, nuda sotto la vestaglia chiara che si era appena annodata in vita. Non chiese nulla. Non si sedette. Versò un bicchiere d’acqua e rimase appoggiata al mobile della cucina, aspettando.

“È online,” disse lui senza voltarsi. “Quello di cui ti parlavo ieri.”

Elena lo guardò in silenzio. Lui sapeva che non avrebbe insistito, ma sapeva anche che lei non sarebbe andata via. Il suo corpo era lì, la sua attenzione pure. Bastava lasciarla avvicinare. Bastava offrirle la possibilità di scegliere.

Passarono alcuni minuti. Poi Silvio, con voce più bassa, aggiunse:
“Mi ha chiesto se ci sei anche tu. Se hai voglia di scrivere qualcosa. Dice che capisce molto dalle prime risposte. Che non ha bisogno di foto o di descrizioni. Che una donna si vede da come parla.”

Lei si avvicinò lentamente, fermandosi accanto alla sedia. Lesse lo schermo.
“Lei è con te?”
“Vorrei poter parlare con lei direttamente, se le va.”

Non disse nulla. Allungò solo una mano, e Silvio si scostò con naturalezza. Si sedette al suo posto. Le dita sfiorarono la tastiera per un attimo, leggere, come per testarne la temperatura. Poi cominciò a scrivere.
“Eccomi.”

La risposta non arrivò subito. Non fu un’esplosione di entusiasmo, né un messaggio scontato. Arrivò con il tempo giusto. Quel silenzio calcolato che sa farsi desiderare.
Poi comparve sullo schermo.

“Non ti chiederò niente. Ma se deciderai di restare, ti ascolterò come se fossi l’unico suono nella stanza.”

Elena rimase immobile. Le mani ferme sulla tastiera. Gli occhi sul monitor. Avvertì qualcosa dentro — un riflesso sottile di calore basso, una piega impercettibile tra le cosce. Non era eccitazione fisica, non ancora. Era attenzione.

Fece scorrere lentamente la lingua sul labbro inferiore, poi si sporse un poco in avanti.
Silvio la osservava in silenzio. Aveva capito che in quella frase c’era stato un clic. Uno di quelli che non fanno rumore, ma aprono porte.

Lei scrisse:
“Allora resta.”

Le serate cominciarono a cambiare tono senza che nessuno lo dichiarasse. All’inizio c’erano tutti e due, Elena e Silvio, seduti fianco a fianco sul divano, lo schermo illuminato, le dita che si alternavano sulla tastiera. Lei interveniva poco, lasciava a lui il compito di introdurre, di aprire la conversazione. Ma ogni volta che il carabiniere compariva online, la postura di Elena mutava. Si sporgeva in avanti, il tono diventava più preciso, più deciso, la lingua affilata. Silvio, seduto accanto, cominciò a scrivere sempre meno. Prima per lasciare spazio. Poi per scelta. Poi perché nessuno gli rispondeva.

Non c’era disprezzo in quell’esclusione, né malizia. Era naturale. Quello che passava tra Elena e quell’uomo, ogni sera, si muoveva su un piano che Silvio non poteva raggiungere. Le parole scivolavano su toni leggeri, mai volgari, eppure sempre più intrisi di un’attenzione rara, di un desiderio che non bruciava, ma scaldava da dentro. Lui le chiedeva della giornata, dei pensieri, dei libri che leggeva. A volte scherzava, la prendeva in giro. A volte spariva per mezz’ora, poi tornava con un messaggio breve: “Sono rientrato. Ero in pattuglia. Ti ho pensata.”

Lo scambio del numero non fu nemmeno discusso con Silvio. Accadde. Una sera Elena prese in mano il telefono, e quando lui le chiese con chi stesse scrivendo, rispose solo: “Quello di sempre.” Lui annuì, come se fosse inevitabile. Come se ormai la conversazione non lo riguardasse più.

I messaggi cominciarono a viaggiare nel giorno, non solo di sera. Brevi. Precisi. Sempre perfettamente calibrati. Una battuta sul tempo. Una nota sulla camicia che indossava in ufficio. Un buongiorno alle sette. Un “buonanotte” alle undici e un quarto. La voce arrivò dopo. Videochiamate brevi, all’inizio solo per ridere, per giocare con l’idea del volto. Poi più lunghe. Lei rispondeva quando era sola. Con i capelli sciolti, senza trucco, spesso con una canotta sottile e le gambe nude accavallate sul letto. Lui parlava piano. Guardava molto. Non chiedeva mai.

Eppure, il modo in cui la guardava bastava a farle sentire il corpo reagire. Come se ogni parola non fosse detta, ma posata sulla pelle.

Silvio vedeva tutto. Ma restava fuori.

Le videochiamate non avvenivano più davanti al portatile di casa. Da tempo Silvio non le vedeva, non le sentiva. Elena si alzava prima dell’alba, diceva che doveva prepararsi per il lavoro, e lo lasciava dormire. Ma quando il telefono vibrava piano sul comodino, le dita lo afferravano in silenzio, e un sorriso sottile le piegava le labbra prima ancora che lo schermo si illuminasse. C’era sempre lui. Il carabiniere. Mai inopportuno, mai invadente. Ma presente. Sempre.

Cominciò con una foto. In piedi davanti allo specchio, con indosso solo la camicia bianca, i bottoni slacciati fino all’ombelico, la pelle nuda sotto. Nessun filtro. Nessuna posa. Solo verità. Gliela mandò senza commenti. E lui rispose con una parola sola. "Tua."
Non aggiunse nulla. Ma da quel momento, tutto cambiò.

Le foto divennero un linguaggio. Un tanga appena abbassato. Una mano che sfiorava l’interno coscia. Un capezzolo che emergeva dal reggiseno mentre lo tirava con due dita. A volte le mandava in silenzio. A volte con frasi brevi.
“Non ho resistito.”
“Pensa che sono ancora in riunione.”
“Ho bisogno di sentirmi viva.”

Lui capiva tutto. Non chiedeva mai più di quanto riceveva. Ma rispondeva. Sempre. Con voce roca nei messaggi audio. Con parole che non erano volgari, ma affondavano dritte tra le gambe.
“Fammi vedere le dita dopo.”
“Sei umida adesso?”
“Masturbati. Ma fallo solo se vuoi pensarmi davvero.”

Cominciarono a sincronizzarsi. Lei in auto, con lo schienale reclinato in un parcheggio semi vuoto, il respiro che si accelerava mentre infilava le dita sotto la gonna e lo guardava in video con le cuffiette. Lui da una stazione di servizio lungo l’autostrada, chiuso in macchina, i pantaloni aperti, lo sguardo fisso sullo schermo.

Oppure nei bagni del lavoro, le piastrelle fredde sotto le cosce, il palmo a coprire la bocca mentre veniva in silenzio, con il telefono appoggiato sulla lavatrice, la voce di lui che sussurrava: “Fallo per me. Non trattenerti.”

Ogni giorno diventava un’occasione. Ogni ora rubata, una seduta. Ogni vibrazione del telefono, una promessa.

La sera era silenziosa, come tutte le sere in cui qualcosa deve essere detto. Elena uscì dalla doccia con i capelli ancora umidi, avvolta solo da un asciugamano sottile che lasciava scoperta una spalla. Silvio era seduto sul letto, a torso nudo, il cellulare in mano, ma non stava guardando nulla. Solo aspettava.

Lei si fermò davanti allo specchio, prese il flacone dell’olio per il corpo e iniziò a stenderlo con movimenti lenti. Non guardava lui, ma sapeva che lui la osservava. Aspettò di aver finito. Poi si voltò. I capelli le cadevano morbidi sulla clavicola, gli occhi erano calmi, la voce ancora più.

“Lo voglio incontrare.”

Silvio alzò lo sguardo senza fretta. Rimase muto per alcuni secondi. Non sembrava sorpreso. Solo vuoto.

Elena fece un passo verso di lui. “È giusto che tu lo sappia. Non te lo sto chiedendo. Te lo sto dicendo.”

Lui deglutì. Appena. “Vuoi che venga con te?”

“No.”
La risposta arrivò netta, senza esitazioni. Non era cattiva. Non era un rifiuto. Era una scelta.
“Voglio andarci da sola.”

Silvio abbassò di nuovo lo sguardo. Non aveva la forza per rispondere, né il diritto di farlo.

Elena si avvicinò al comò, prese un elastico e si raccolse i capelli in uno chignon disordinato. Poi uscì dalla stanza. Silvio rimase immobile, nudo fino alla vita, con il cuore che batteva in una cassa toracica troppo stretta.

In bagno, Elena accese la luce calda, si guardò nuda davanti allo specchio e prese il rasoio. Non lo usava da settimane. Lo fece scivolare sulla pelle lentamente, con cura chirurgica, ascoltando in sottofondo il messaggio vocale appena arrivato sul telefono. Era la sua voce. Bassa. Ferma.

“Domani. Ore venti e trenta. Non vedo l’ora di vederti.”

Lei sorrise.

Elena rientrò a casa poco dopo le diciotto. Aprì la porta con un gesto lento, senza fretta. Non era agitata. Lo era stata altre volte nella vita — ma non oggi. Oggi era altro. Qualcosa di più profondo, più grave. Come un’attrice che conosce perfettamente il suo copione, ma sa che tra poco, in scena, lo abbandonerà per diventare solo verità.

Richiuse dietro di sé con un tonfo secco. Posò la borsa sul mobile all’ingresso, poi si chinò per sfilarsi le scarpe. I piedi nudi sul parquet le fecero sentire il fresco del pavimento: reale, tangibile, come a ricordarle che il resto sarebbe stato sogno. Si specchiò di sfuggita nel corridoio. Tailleur scuro, camicetta chiara ancora perfetta sotto la giacca. Era stata impeccabile tutto il giorno, e nessuno al lavoro avrebbe potuto intuire quello che covava sotto.

Andò in bagno. Non accese la luce del soffitto, solo quella sullo specchio. Poi si fermò davanti alla sua immagine. Rimase lì, vestita da giorno, e si guardò con occhi diversi. Non per giudicarsi, ma per riconoscersi. Stava per spogliarsi. Per diventare un’altra. O forse per togliere ogni maschera.

Si sbottonò la giacca, la fece scivolare sulla sedia. Poi, con lentezza, aprì la camicetta: uno, due, tre bottoni, fino a lasciare il reggiseno nero a vista, quello che aveva indossato già al mattino. Quello che nessuno aveva visto, se non lui, tramite una foto inviata alle 9:48, dal bagno dell’ufficio. “Sto contando le ore.” le aveva scritto. E lei aveva sorriso.

Tolse tutto. Rimanendo in intimo davanti allo specchio. Il reggiseno stringeva il seno pieno in una morsa perfetta. Il tanga sottile segnava i fianchi abbondanti con grazia brutale. Aprì il cassetto della lingerie con la stessa cura con cui si apre una bottiglia di profumo raro. Ne estrasse il completo prescelto.
Lo tenne tra le mani per un attimo, poi si avvicinò alla doccia.
Aveva tutto il tempo del mondo.
E avrebbe fatto di sé un’opera.
Per lui.
Per sé.
E per ciò che stava per accadere.

La doccia le aveva lasciato la pelle calda, distesa. Elena si tamponò con l’asciugamano senza fretta, lasciando che l’aria tiepida della stanza completasse l’asciugatura. Non c’era musica, né parole. Solo i rumori della casa — il ticchettio del metallo nel lavello, il ronzio del frigorifero — e il battito calmo del proprio cuore, che sembrava saperlo: stava per essere rivestito da un’altra.

Davanti allo specchio, nuda, si applicò una crema illuminante sulle gambe, lenta, con gesti ampi. I fianchi pieni, le cosce morbide, il ventre rotondo — ogni curva diventava una superficie da esaltare, non da nascondere. Quando la pelle cominciò a brillare, passò al viso.

Il trucco fu deciso. Nessun timore di esagerare. Fondotinta sottile ma coprente, un contour che le definiva il volto con eleganza, poi gli occhi: scuri, profondi, con uno smokey sfumato nei toni rame e cioccolato, perfetto per i suoi occhi castani. L’eyeliner netto, preciso, le allungava lo sguardo. Sulle labbra, un rossetto color vino: opaco, sensuale, potente. Nessun gloss, nessuna lucentezza da ragazzina. Era una bocca che si baciava con rispetto o con violenza, senza mezze misure.

Poi la lingerie.

Indossò prima il reggicalze in raso nero, con finiture in tulle rigido e stecche interne. Lo chiuse lentamente, con cura maniacale, poi fece scivolare le calze: 15 denari color carne, riga nera posteriore e bordo alto ricamato. Le agganciò agli elastici uno a uno, in silenzio. Il tanga era minimale, dello stesso raso, ma alto sui fianchi: lasciava libera la rotondità del sedere e disegnava una V perfetta sul ventre. Il reggiseno era lo stesso del mattino, ma ora lo sistemò con più attenzione: le coppe a balconcino incorniciavano il seno pieno, spingendolo in alto fino a formare un solco morbido, profondo, accogliente.

Sopra, scelse un abito nero. Aderente, senza maniche, scollo a cuore, tessuto elasticizzato con lieve lucentezza. Le arrivava a metà coscia, seguiva la linea dei fianchi come una seconda pelle. Camminando, avrebbe fatto oscillare il seno e le natiche con una naturalezza devastante.
Ai piedi, le décolleté con tacco a spillo in metallo, vernice nera e punta sfilata. Ogni passo un colpo di frusta.

Si mise in piedi davanti allo specchio a figura intera. Si voltò di lato. Si guardò da dietro. Poi si fermò e fissò il proprio riflesso.
Non sorrise. Non era una sera per sorridere.

Era una sera per entrare in una stanza e farsi spogliare senza che nessuno osasse parlare.

Le luci dei Navigli tremavano sull’acqua, riflessi lunghi come pensieri lasciati sospesi. L’aria aveva l’odore di umido e di vino, e il suono dei bicchieri che si toccavano nei locali si mischiava al brusio delle voci basse, complici. Elena camminava sui tacchi come se li avesse da sempre. Nessuna esitazione. L’abito nero fasciava le sue curve con precisione chirurgica, la riga delle calze segnava il ritmo dei passi come una firma lasciata dietro di sé.

Aveva camminato per qualche minuto, lasciando l’auto poco distante, e ora lo vedeva.
Era lì. Seduto al tavolino esterno di un bar discreto, spalle larghe sotto una giacca scura, la testa leggermente inclinata, gli occhi che scrutavano la strada con la calma di chi sa esattamente cosa — o chi — sta aspettando.

Elena non si fermò. Prese il telefono, lo sbloccò. Nessuna esitazione, nessun respiro profondo. Scrisse.

Eccolo. Mi sta aspettando. Io vado.

Premette invio.
Non guardò se Silvio stesse scrivendo, né se il messaggio fosse stato letto. Rimise il telefono in borsa. Poi si avviò verso di lui.

Lui si alzò non appena la vide arrivare. Non fece gesti teatrali, non allargò le braccia, non disse nulla. Si limitò a guardarla. E in quel guardarla, Elena avvertì una cosa precisa: era stata riconosciuta. Come se fosse esattamente ciò che lui si era aspettato. Nessuna sorpresa. Solo conferma.

La raggiunse con due passi lenti e, senza chiederlo, le baciò la guancia. Non fu un bacio affamato, né timido. Fu un contatto caldo, secco, deciso, che lasciò sulla pelle una scia di rispetto e possesso. Lei gli rivolse uno sguardo rapido, quasi divertito, poi si lasciò condurre al tavolo. Si sedettero.

Il bar era semivuoto. Qualche coppia stanca, due amici al bancone, un cameriere che lucidava bicchieri. La musica era jazz morbido, senza voce. Elena incrociò le gambe con naturalezza, lasciando che l’orlo del vestito salisse appena sulle cosce. Appoggiò i gomiti sul tavolo, il seno le si sollevò, pieno, vivo, contenuto a fatica dalle coppe tirate del reggiseno. La scollatura era perfetta: né esibita, né celata.
Semplicemente impossibile da ignorare.

Lui parlava poco. Diceva cose semplici, domande banali — come se non volesse bruciare nulla. Ma lo sguardo… quello non la lasciava mai. Correva piano su tutto il corpo, con la disciplina di un uomo che sa trattenersi ma che, dentro, è già oltre. Le osservava la bocca mentre parlava, poi risaliva agli occhi, poi scendeva sulla linea del collo. E infine si fermava lì: sul seno.
Non lo fissava. Lo studiava. Come se ogni curva gli raccontasse qualcosa. Come se fosse già passata mille volte nella sua mente.

Elena lo lasciava fare. Parlava poco anche lei. Ma quando beveva, lo faceva lentamente, inclinando appena il bicchiere, lasciando che il liquido le sfiorasse le labbra come un amante troppo cauto. Ogni tanto abbassava lo sguardo, come per dar tregua. Ma poi lo rialzava, pronta a riaccendere il fuoco.

La tensione era ovunque. Non nei gesti. Nei respiri.
In quel modo di parlarsi con gli occhi, sapendo che il vero dialogo… sarebbe cominciato solo dopo.
Quando il bar avrebbe chiuso.
E la sera avrebbe mostrato la sua vera forma.

Il bicchiere di Elena era ormai vuoto da minuti, ma non lo aveva spostato. Le dita lo accarezzavano piano, come se fosse un oggetto vivo. Lui la guardava, e poi senza dire nulla si alzò. Fece il giro del tavolino e si sedette accanto, sul divanetto, lasciando tra loro appena lo spazio di un respiro.

Non la toccò subito. Restò a pochi centimetri, girato verso di lei. Quando parlò, la sua voce arrivò all’orecchio in un soffio caldo.
“Mi hai fatto aspettare. Ma ne è valsa la pena.”

Elena non rispose. Le labbra si piegarono in un sorriso minimo, appena accennato. Non si voltò. Lasciò che le parole le scivolassero sulla pelle come dita invisibili.

Poi lui posò il braccio dietro di lei. Non sulle spalle, ma lungo lo schienale, quasi a tracciarle un confine protetto. Il corpo di lui irradiava calore, presenza, sicurezza. Parlava ancora, ma le parole avevano ormai perso importanza. Era la voce, il tono, il fiato sul collo, a dire tutto.

La mano si avvicinò, sfiorò appena la spalla nuda. Un tocco leggerissimo, come un invito sussurrato.

E fu allora che Elena si voltò.
Non lentamente, non con esitazione.
Lo guardò negli occhi per un istante, e poi lo baciò.

La bocca si posò sulla sua con decisione. Niente tatto, niente delicatezza. Le labbra si aprirono subito, come se avessero atteso ore. E le sue dita salirono a cercargli la nuca, le tempie, tenendolo a sé. Lui rispose con un gemito basso, profondo, che le vibrò direttamente tra le cosce.

Fu un bacio lungo. Umido. Sincero.
Il primo gesto reale, tangibile, che diceva: Sono qui. E adesso è tardi per tornare indietro.

Il respiro di Elena era più caldo ora, più lento. Il bacio si era spento da pochi secondi, ma la sua traccia restava ovunque: sulle labbra, sul collo, dentro le cosce. La mano di lui era ancora tra le sue gambe, ma non si muoveva più. Solo la sfiorava, come se stesse leggendo il battito con le dita.

Lei lo guardò. Gli occhi pieni, la bocca ancora socchiusa, la pelle tesa. Poi abbassò lo sguardo sulla sua mano e la prese.
Senza parole, gliela guidò alla propria bocca e passò lentamente la lingua lungo le dita che l’avevano toccata. Ogni gesto era misurato, silenzioso, profondamente consapevole. Poi sussurrò, con voce roca e appena incrinata dall’eccitazione:

“Non qui.”

Lo fissò negli occhi. Uno sguardo che non lasciava dubbi. Lui deglutì piano, poi si chinò verso di lei, sfiorandole l’orecchio con le labbra.

“Conosco un posto tranquillo.”

Lei non rispose. Solo annuì una volta. Un gesto piccolo, lento, elegante. Poi si ricompose. Tirò giù con due dita l’orlo della gonna. Incrociò le gambe. Si passò le mani tra i capelli. E si alzò.

Lui si alzò insieme a lei. Pagò il conto con un cenno al cameriere, senza voltarsi. Uscirono uno dopo l’altra, senza toccarsi. Ma ogni passo tra loro era già un amplesso trattenuto.

Quando arrivarono all’auto, lui le aprì la portiera. Elena entrò con grazia, le gambe nude che scorrevano sul sedile come seta viva. Si sedette composta, ma con il desiderio che le ardeva già sotto la pelle.

Poi lui si mise al volante.
E senza dire nulla, la portò via.

La città si allontanava dietro i vetri, dissolta in una scia di luci tremolanti. I Navigli erano ormai lontani, e con loro le voci, i bicchieri, il mondo. Nell’abitacolo della macchina calava un silenzio che non era vuoto, ma denso. Carico.
Lui guidava con calma, senza parlare, le mani ferme sul volante, gli occhi avanti. Ogni tanto uno sguardo di lato. Un respiro più forte. Ma nessuna parola.

Elena sedeva composta. Il busto dritto, le gambe accavallate. Non si era voltata verso di lui, né lo aveva toccato. Non subito. Ma dopo alcuni minuti, mentre la macchina scivolava su una strada più stretta, tra campi aperti e alberi scuri, appoggiò la mano sinistra sulla sua coscia destra.

Non fu un gesto affettuoso. Né una carezza erotica.
Fu un segnale.

La sua mano era calda, le dita ferme. Restò lì, in quella posizione precisa, con il pollice che tracciava cerchi impercettibili sul tessuto dei pantaloni. Saliva di pochi millimetri ogni volta. Poi si fermava. Poi ricominciava. Un gioco lento, micidiale.
Lui trattenne il respiro. Poi lo lasciò andare piano. Le dita della mano sinistra strinsero il volante. Con l’altra, cercò la sua… ma lei gliela negò. Non con un gesto brusco, solo con fermezza. Rimise la propria dove l’aveva messa, e continuò. A decidere.

Lui capì. E non disse nulla.

Le gomme svoltavano ora su un tratto sterrato. La macchina ballava appena. Davanti, un piccolo spiazzo nascosto da una fila di alberi bassi. Una vecchia struttura rurale, con muri scrostati e nessuna luce accesa. Solo il silenzio. Solo la notte.

Quando spense il motore, il mondo parve fermarsi.
Lui si voltò verso di lei. Il respiro più forte. L’erezione evidente sotto i jeans.
Ma Elena non lo guardava ancora.

Stava sfilandosi le scarpe.
E solo dopo, si girò.
E lo guardò.
Come se fosse arrivato il momento di cominciare davvero.

Lo schermo del telefono si illuminò nella borsa aperta. Elena lo prese con un gesto calmo, ancora seduta sul sedile del passeggero, le gambe accavallate, la mano ancora calda sulla coscia di lui. Lo sbloccò con un dito, senza fretta. L’orario apparve nitido: 22:30.
Aprì la chat, scrisse.

Sono ancora qua, con lui. Stiamo chiacchierando.
Tra un po’ vengo a casa.

Premette invio.
Poi rimise il telefono nella borsa, lentamente, chiudendola con un gesto preciso.
E senza voltarsi, gli si lanciò addosso.

Il movimento fu improvviso ma fluido, come se l’avesse programmato da minuti. Si voltò, gli si sedette a cavalcioni, le mani che cercavano il volto, la bocca, il collo. Lui reagì all’istante: fece scorrere indietro il sedile con uno scatto secco, per farle spazio, per sentirla più vicina, per accoglierla.
Il suo corpo ora era tutto sotto di lei. Le mani le afferrarono i fianchi, poi salirono sulla schiena, dentro l’abito, sulle spalle nude.

Elena lo baciava come se fosse passato troppo tempo. Con la lingua profonda, affamata, le labbra aperte, il respiro pesante. I fianchi si muovevano già, impercettibili, cercando contatto, pressione, quel gonfiore duro che sentiva sotto di lei e che ormai premeva contro la seta del tanga.
Ogni freno era saltato. Ogni esitazione sciolta in quel primo bacio in auto, in quella prima stretta che non era più un invito — ma una presa di possesso reciproca.

L’abitacolo si era trasformato in un campo di battaglia silenzioso, intriso di respiro, pelle e carne in tensione. Elena cavalcava il suo corpo con movimenti lenti all’inizio, solo per sentirlo sotto di sé, ma in pochi secondi la fame divenne incontrollabile. Le mani gli slacciavano la cintura con ferocia controllata, le dita decise, tremanti solo per l’urgenza.

Lui l’aiutò, tirò giù la zip, abbassò i pantaloni quanto bastava. Il membro era già gonfio, duro, pulsante, e sfuggì fuori come se fosse stato trattenuto per troppo tempo. Lei lo prese in mano senza esitazioni, lo guidò tra le cosce, lo fece scorrere contro il tanga inzuppato.

Non c’erano parole. Solo ansimi, gemiti, denti che cercavano pelle.

Con un colpo secco, Elena spostò il perizoma di lato, si sollevò quel tanto che bastava e si lasciò cadere su di lui, tutta. Il suono che uscì dalle loro bocche fu un unico grido soffocato.
Era dentro. Profondo. Vivo.

Cominciò a muoversi come una furia. Le mani sulle sue spalle, le unghie a incidere la pelle, i fianchi che sbattevano contro le sue cosce con un ritmo animale. Il seno le sobbalzava sopra il reggiseno, le spalline cadute, le labbra aperte, il collo offerto.

Lui la stringeva come se dovesse impedirle di dissolversi, una mano sulle sue natiche che la guidava, l’altra che le afferrava i capelli.
Ogni colpo era più violento, più profondo, più disperato.
Il suono della pelle contro la pelle riempiva la macchina.

Elena gemeva, lo mordeva, lo graffiava.
Non chiedeva piacere: lo prendeva.
E lui glielo dava tutto. Fino all’ultimo centimetro.

L’abitacolo era saturo di desiderio, caldo come una stanza chiusa da ore. Elena sopra di lui non si muoveva più per sedurlo, ma per finirlo. Sentiva ogni spinta salire dal bacino, colpirla dal basso e risalirle lungo la colonna vertebrale come una scossa, ma non bastava. Lo guardò negli occhi, poi sollevò le braccia sopra la testa e, con un gesto unico e deciso, si sfilò l’abito, liberando il corpo come un’arma pronta a essere usata. Rimase con il reggicalze che le stringeva le cosce come un morso, il tanga che non nascondeva più nulla, e il reggiseno che premeva il seno alto e pieno contro il petto di lui. Non lo lasciò parlare, non gli concesse una pausa. Riprese a muoversi con rabbia trattenuta, il bacino che scendeva a prenderlo tutto, mentre lui la sollevava con le mani dietro alle cosce per spingerla più in basso, ancora più in basso, fino al punto dove sentiva il glande colpirla dentro, dove il piacere si deformava in qualcosa di più cupo, più profondo, e lei lo prendeva, tutta, senza un lamento, solo con il fiato che si rompeva in gola. Le dita le scavavano la pelle, gli occhi fissi nei suoi come se volesse costringerlo a restare lucido mentre la possedeva, e ogni affondo era un passo più a fondo, un colpo più duro, un impatto più crudo. Nessuno dei due voleva fermarsi. Nessuno dei due avrebbe potuto. La macchina tremava sotto di loro. E in quel momento, non esisteva altro che quel corpo sopra il suo, che si offriva e prendeva insieme, che non chiedeva perdono, e che non avrebbe mai chiesto il permesso.

I corpi erano ormai uniti in un unico ritmo, scomposto e furioso, lui che spingeva da sotto con tutta la forza rimasta, lei che affondava con fianchi sciolti e gemiti rotti, la fronte umida, la bocca aperta, gli occhi socchiusi. Ogni colpo risaliva dal ventre, la faceva tremare, la portava un passo più in là, e lui lo sentiva, lo percepiva sotto le dita che scavavano i suoi glutei, nella stretta che diventava più calda, più bagnata, più viva. Quando la sentì contrarsi di scatto, gli occhi sbattere e il respiro spezzarsi in gola, capì che stava arrivando. La prese con entrambe le mani, la guidò nell’ultimo affondo, e lasciò andare tutto. Il piacere gli esplose dentro come un’onda calda, pulsante, profonda, la inondò in una serie di scosse che lo attraversarono fino alla gola, mentre Elena gemeva e si lasciava invadere, sentendo il proprio corpo vibrare sopra di lui come un arco che si spezza nel punto di massima tensione.

Poi restarono fermi.

Lei si lasciò cadere sul suo petto, ancora dentro, il viso tra il suo collo e la spalla, i capelli che le cadevano ovunque, il cuore che martellava contro il suo.
Lui le accarezzava lentamente la schiena, le scapole, il fianco nudo che ancora tremava.
Le baciava il collo, con delicatezza.
Le labbra calde, umide, dolci.

E fu allora, quando il suo respiro cominciava appena a tornare regolare, che sentì la voce di lui all’orecchio.
Bassa. Piena. Implacabile. “Non credere che la serata sia finita qui.”

E sotto di lei, lentamente, stava già tornando duro.
scritto il
2025-08-28
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