Alessia 4

di
genere
sentimentali

La Mini scivolava sull’asfalto dell’autostrada, il cielo terso sopra di loro e il sole che cominciava a scaldare i vetri. L’aria condizionata era accesa, la radio su una playlist rilassata — voce femminile, jazz morbido, parole sussurrate. Marco guidava con lo sguardo avanti, ma il pensiero inchiodato accanto a sé.
Lei.
Alessia sedeva composta, lo sguardo fuori dal finestrino, ma quel mezzo sorriso non l’aveva perso. Il vestito traforato ondeggiava appena con il movimento dell’aria, scoprendo e coprendo a ritmo alternato le curve delle cosce e la linea netta dei fianchi. Sapeva che lui la stava guardando. Anche quando faceva finta di no.
Dopo un po’, si girò verso di lui, con la voce bassa, quasi distratta.
— Posso togliere i sandali? Ho caldo.
Marco deglutì.
— Certo, fai come vuoi.
Lei si slacciò con calma i cinturini, uno per volta. Poi alzò le ginocchia sul sedile, portando i piedi nudi vicino a sé, le cosce che si piegarono sotto il vestito, sollevandolo appena. Non si vedeva nulla, eppure era come se tutto fosse lì, nudo sotto i suoi occhi. Proprio perché non c’era nulla.
— Sei sicura di volerci arrivare vivi? — chiese lui, cercando di scherzare, ma la voce era più roca del previsto.
Alessia si girò appena.
— Io sì. Tu non so. — rispose, e alzò leggermente il ginocchio sinistro, posandolo sul cruscotto con nonchalance. Il gesto era naturale, eppure aveva la precisione di un colpo studiato. Il vestito si tese, lasciando appena intuire la curva liscia dell’inguine. Ma nient’altro. Nessun contorno. Nessun bordo.
Solo il vuoto perfetto.
Marco strinse il volante.
Lei sorrise, senza guardarlo. Poi abbassò la mano destra sulla propria coscia, sfiorandola appena con le dita, come se stesse semplicemente rilassandosi. Ma la direzione era chiara. Lentamente si passava il palmo sulla pelle nuda, sfiorando appena la parte interna, accarezzandosi come se fosse sola. O meglio: come se lui non potesse farci nulla.
— Ale… ti prego.
— Che c’è? Sto solo passando il tempo.
Continuò piano, con la punta delle dita, salendo e scendendo lungo il fianco, poi tornando sull’interno coscia. Mai troppo in alto. Mai abbastanza da scatenare. Ma ogni gesto sembrava una provocazione lanciata con calma millimetrica.
— Non so quanto ancora riesco a guidare, se continui così.
— Vuoi che guidi io?
— No.
— Allora guida. Io… mi rilasso.
E tornò a guardare fuori dal finestrino, le gambe ancora piegate, i piedi nudi, le dita che giocavano con il bordo invisibile di qualcosa che non c’era più.
Marco, nel frattempo, si accorse che stava accelerando.
La strada era lunga, il traffico scorreva senza intoppi e l’aria nell’abitacolo era densa, elettrica. Non per il caldo, non per la distanza. Per lei.
Alessia era rimasta in quella posizione apparentemente innocente: seduta di traverso, un piede nudo appoggiato sul cruscotto, l’altro piegato vicino al sedile. Il vestito traforato ondeggiava leggero a ogni curva, senza mai rivelare nulla, eppure rivelando tutto.
Ogni tanto si sistemava i capelli con un gesto lento, lasciando che il braccio le scivolasse lungo il petto, sfiorandosi con apparente distrazione. Ma Marco, che cercava di tenere gli occhi fissi sulla strada, sapeva benissimo che nulla in lei, in quel momento, era casuale.
Dopo un lungo silenzio, spezzato solo dalla musica e dal rombo regolare della Mini, lei lo guardò di lato.
— Sai una cosa? Sto pensando che potrei salire con la mano un po’ più su… così. — disse con voce bassa, mentre lasciava che le dita accarezzassero la coscia e poi si insinuassero sotto il vestito, piano.
Marco serrò la mascella.
— Alessia…
— Sto solo esplorando. Tanto non c’è niente da spostare, ricordi? — sussurrò, chinandosi appena verso di lui, senza toccarlo, ma lasciandogli addosso il profumo caldo della pelle.
Poi si sporse all’indietro, facendo scivolare il sedile leggermente indietro con un clic silenzioso. Si allungò come per stirarsi, ma il gesto portò il vestito a salire un po’ di più. Restò così, le gambe piegate e le ginocchia leggermente divaricate.
Poi si voltò verso di lui, seria.
— Ti ricordi com’era sentirsi vivi? Io, sì. Adesso. In questo esatto momento.
E senza abbassare lo sguardo, portò una mano tra le cosce. Solo appoggiata. Nessun gesto evidente. Solo presenza. Solo pelle. Solo calore.
Marco non parlò più. Non poteva. Guidava con gli occhi accesi, i polpastrelli serrati sul volante, le vene sulle mani in rilievo.
Poi lei lo provocò ancora.
— Secondo te... se arriviamo all’albergo e io ho già le dita umide… ti offenderesti?
Lui deglutì. La voce gli uscì ruvida.
— Se continui, Ale, mi fermo alla prima piazzola e lì... non rispondo più di me.
Alessia ridacchiò piano, civettuola. Ma non disse altro. Rimase lì, con la mano immobile tra le gambe, il vestito a coprire il mistero, e gli occhi puntati sulla strada.
Ogni tanto si leccava appena le labbra. Ma non c’era bisogno di parole.
La Mini divorava chilometri.
La Mini divorava chilometri mentre la tensione cresceva silenziosa, densa, come una corda tirata all’estremo. Alessia, spavalda e viva come non lo era stata da anni, sembrava godersi ogni singolo istante, ogni curva, ogni sguardo sfuggente che lui cercava di trattenere.
Marco alla fine sospirò, con quel tono che mescola desiderio e preoccupazione, come se fosse appena oltre il limite della lucidità.
— Ale, forse sarebbe più… conveniente se arrivassi all’albergo con qualcosa sotto quel vestito. Dico davvero. Magari... potresti indossare qualcosa.
Lei lo guardò di lato, un po’ di traverso, le labbra socchiuse in un’espressione difficile da decifrare. La luce del sole le accarezzava la guancia, e sembrava accenderle anche l’iride.
— Ah sì? — rispose, quasi senza tono. Poi, più netta:
— Oggi voglio giocare, Marco. Oggi esplodo. Non voglio che nulla sia lasciato al caso. Se vuoi, però, se ti dà fastidio… posso prendere qualcosa dal trolley. Basta che ti fermi. Se proprio non ti piaccio così.
Lui la guardò, stringendo il volante un po’ più forte.
— Ma certo che mi piaci. Sei stupenda. Ma... un tantino vistosa, non trovi?
Lei allora si girò di scatto verso il finestrino, le braccia conserte, la bocca imbronciata. Sembrava una bambina contrariata. Ma dietro quella finta offesa, lo sguardo le brillava.
Poi mormorò, come se stesse pensando ad alta voce:
— Non si accede al bagagliaio da qui?
Marco, intento a sorpassare un furgone, rispose distrattamente:
— Basta abbassare il sedile posteriore. Puoi fare tutto quello che vuoi.
Non appena finì la frase, si accorse del sorriso che si stava formando sul volto di lei. Uno di quei sorrisi che ti mettono in allarme.
Alessia abbassò un po’ lo schienale, si girò sul fianco e, con un movimento rapido e deciso, si allungò di ventre verso il retro della macchina, infilando le spalle e poi il busto oltre il sedile. Il vestito, inevitabilmente, si sollevò. Marco vide apparire le sue cosce, poi i glutei completamente scoperti, nudi, la pelle tesa e calda che brillava alla luce riflessa dal finestrino. Nulla sotto. Niente era stato detto per gioco.
Rimase paonazzo, il respiro incagliato tra la gola e lo sterno. Istintivamente lanciò uno sguardo agli specchietti, controllando che nessuno potesse vederli da fuori. Ma l’assetto ribassato della Mini li proteggeva. Era tutto tra loro due. E il cruscotto che sembrava vibrare.
Lei armeggiò qualche istante, poi si ritirò con grazia, come una gatta che ha trovato la sua preda. Si rimise seduta e sistemò lo schienale. Nelle mani teneva il costume blu notte, quello che avevano scelto insieme. Il tessuto lucido, scollatura profonda, sgambatura accentuata. Un tanga disegnato per sparire tra i fianchi.
— Lo sai che sei terribile oggi? — disse Marco, con una voce che non sapeva se fosse di rimprovero o di resa.
Alessia gli sorrise come se gliene fosse grata.
Poi, con la calma di chi non ha nulla da nascondere e molto da mostrare, sollevò le braccia e sfilò il vestito da sopra la testa. Marco dovette stringere la traiettoria, la Mini sbandò lievemente, ma lui riprese il controllo con un colpo di sterzo.
E per poco non perse il fiato.
Alessia era nuda. Seduta accanto a lui, con il viso rilassato e fiero, il corpo illuminato dal sole, la pelle liscia e sicura di sé. Eppure non c’era ostentazione, solo bellezza consapevole.
Prese il costume e cominciò a indossarlo con movimenti lenti, meticolosi. Prima lo infilò fino alle cosce, poi lo tirò con cura lungo i fianchi. Il tessuto blu notte aderì come una seconda pelle, accompagnando ogni curva, salendo lungo il ventre e stringendole il seno con la scollatura che affondava tra i due monti pieni. Ogni centimetro coperto sembrava paradossalmente più eccitante di prima.
Quando rimise il vestito traforato, Marco dovette ammetterlo: ora l’effetto era devastante. La lucentezza del blu sotto la maglia nera, i giochi di luce, la tensione dei tessuti... tutto sembrava moltiplicare l’immaginazione. Non era più una provocazione. Era stile. Potenza. Femminilità allo stato puro.
E mentre lei si sistemava i capelli con gesto tranquillo, Marco si voltò verso di lei, ancora con il fiato corto.
— Ho creato un mostro. — sussurrò.
Alessia si voltò verso di lui, sollevò un sopracciglio e sorrise appena.
— No, Marco. Io c’ero già. Sei tu che hai saputo trovarmi.
Avevano viaggiato per quasi un’ora da quando Alessia si era rivestita. Marco non aveva detto molto, se non qualche battuta strozzata, piccoli sorrisi, sospiri trattenuti. Ma adesso, con la luce che cominciava ad ammorbidirsi e la strada che correva liscia davanti a loro, parlò, quasi senza preavviso.
— Ale… ma così, come sei ora… ti ci sei mai sentita, prima?
Lei lo guardò, sorpresa. Non dalla domanda, ma dal tono con cui l’aveva posta. Non era una curiosità banale. Era come se volesse sapere qualcosa di più di lei, davvero.
Rimase in silenzio un momento, poi appoggiò il capo al finestrino e rispose con voce calma, ma piena.
— No. Non così.
Fece una pausa.
— Forse ci sono andata vicina, una volta. Quando ero molto più giovane. Avevo la sensazione di poter essere... viva, bella, desiderabile. Ma poi ho smesso di provarci.
Marco la guardava di sfuggita, senza volerla interrompere.
— Le cose si sono spente piano. Prima il corpo. Poi il resto. E non me ne sono nemmeno accorta. Mi sono convinta che non ne valesse la pena. Che fosse normale.
— E cosa te lo impediva? — chiese lui, con delicatezza.
Lei sorrise, ma un sorriso triste.
— La paura di essere ridicola. Di sembrare inadeguata.
Si voltò verso di lui.
— E la convinzione che piacere non bastasse.
Marco serrò la mandibola. Non di rabbia. Di rispetto. Di tenerezza. Ma anche di quel senso di ingiustizia che si prova di fronte a una bellezza che è stata costretta a nascondersi.
— Hai sbagliato. E lo sai.
— Lo so adesso. Ma prima non avevo nessuno che mi aiutasse a ricordarlo.
Rimasero in silenzio per qualche minuto. Poi fu lei a parlare. La voce era più bassa, come se stesse toccando qualcosa di scivoloso.
— Senti, Marco… io lo so che adesso sto brillando. Lo vedo nei tuoi occhi. Lo sento dentro. Ma se poi… spengo di nuovo?
— Allora ci penseremo insieme — disse lui, senza esitare.
— E se non bastasse?
— Ale, io non ho paura di perdermi dietro una donna in pezzi.
Le prese una mano, con dolcezza.
— Ho paura solo se quella donna ha smesso di volersi ricostruire. Ma tu ce l’hai eccome, quella voglia.
Lei rimase con lo sguardo fisso in avanti, la mano stretta nella sua. Poi disse piano:
— Forse sì. Forse stavolta voglio ricostruirmi davvero.
La Mini si infilò nel vialetto dell’hotel con una curva morbida, costeggiando le palme che facevano ombra al parcheggio. L’albergo era elegante ma sobrio, una grande terrazza affacciata sul mare e un’ampia vetrata d’ingresso che rifletteva il tramonto. Non c’era folla. Solo quiete, profumo di salsedine e il suono regolare delle cicale.
Marco parcheggiò con calma. Alessia scese per prima, il vestito traforato che ondeggiava sulle cosce abbronzate e i sandali che ticchettavano delicati sulla pietra. Si girò verso di lui, sollevando gli occhiali da sole sulla testa.
— Allora, vediamo com’è questa tana da weekend.
Marco la seguì all’interno. L’aria fresca della reception li accolse con un lieve profumo di agrumi. Il receptionist li salutò con professionalità e un sorriso discreto. Marco poggiò un documento sul banco, prenotazione già fatta.
— Una matrimoniale vista mare, due notti. Se possibile, piano alto.
Il ragazzo digitò rapido sulla tastiera.
— Assolutamente, abbiamo una camera libera al quarto piano, terrazza privata.
Poi guardò oltre le loro spalle.
— Avete un solo bagaglio?
Marco annuì.
— È nel bagagliaio, può mandarlo su?
— Certamente, provvediamo subito.
Mentre il receptionist parlava via radio con un addetto, Alessia si voltò verso Marco, gli occhi vivaci e quel tono scivolato tra l’ironia e l’attesa:
— Ma quindi... non saliamo neanche un attimo a rinfrescarci?
Marco la guardò, avvicinandosi. Le posò una mano leggera sul fianco e con l’altra le prese il viso tra le dita. Un gesto lento, pieno. Si avvicinò al suo volto e la baciò piano, sulla bocca, appena appena. Ma bastò.
Poi sussurrò:
— Se saliamo in camera adesso… usciamo domenica sera.
Un altro mezzo bacio, appena sfiorato.
— Meglio due passi, non credi?
Lei socchiuse gli occhi, sospirando appena.
— Uff. Sei pericoloso tu.
— E tu sei una minaccia vivente. — rispose lui, guardandola scendere le scale verso il mare.
Si stavano avviando verso l’uscita, quando Alessia si fermò all’improvviso.
— Aspetta un attimo.
Camminò verso lo specchio grande della hall, incorniciato da due vasi con piante tropicali. Era sola, riflessa in quell’immagine che ora cominciava ad appartenerle di nuovo. Aprì la borsa con un gesto deciso, tirò fuori un piccolo astuccio dorato e ne estrasse un rossetto.
Marco si avvicinò, curioso.
Lei svitò il tappo. Il colore era un rosso fuoco, brillante, lucido. Quasi eccessivo. Ma su di lei, adesso, perfetto.
Con movimenti lenti e precisi, si passò il rossetto sulle labbra, tracciando il contorno con estrema cura, poi riempiendo con più passaggi fino a renderlo pieno, carnale. Un tocco con le labbra, poi un sorrisetto appena accennato.
Si voltò verso Marco, le labbra che brillavano come una promessa.
— L’ho comprato anni fa. Ma non ho mai avuto il coraggio di metterlo.
Fece un passo verso di lui.
— Ti piace?
Marco la guardava come si guarda un’opera d’arte appena svelata.
Non rispose. Sorrise soltanto.
Alessia lo prese sotto braccio, con naturalezza. Si avvicinò al suo orecchio, e con voce bassa, quasi complice, sussurrò:
— Vediamo se quando torniamo ne ho sulle labbra più io… o più tu.
Poi, senza aspettare risposta, lo tirò verso l’uscita. La porta dell’hotel si aprì silenziosa, e la brezza del mare li investì con un profumo salato e caldo.
La brezza marina accarezzava la pelle con un tepore gentile, portando con sé odore di salsedine, sabbia ancora calda, e il profumo delle cucine che cominciavano a prendere vita lungo la passeggiata.
Alessia e Marco camminavano piano, senza fretta. Lui procedeva tranquillo, la postura rilassata, i passi ampi e sicuri. Lei gli era accanto, ma il corpo sembrava cercare rifugio nel suo: camminava con il capo appoggiato al suo braccio, mentre il resto di lei si adeguava all’andatura più lunga di lui. Marco la superava di tutta la testa, eppure sembravano perfetti così, come due incastri che non hanno bisogno di simmetria per essere completi.
Ogni tanto lei sollevava appena lo sguardo per vedere chi li stava osservando. Perché sì, qualcuno li guardava. Uomini e donne, colpiti da quella figura minuta e sicura, vestita di nero, con il viso luminoso e le labbra di fuoco. Nessuno poteva sapere cosa indossasse sotto, ma ogni sguardo lo intuiva. Ogni passo lo suggeriva.
Marco si accorse di quei piccoli sguardi laterali, dei colpi di gomito tra tavolini e panchine. Non disse nulla, ma sorrise tra sé. Sapeva che lei se ne stava accorgendo. E soprattutto, sapeva che le stava piacendo.
— Lo senti anche tu, vero? — disse lei, con voce morbida, il mento ancora appoggiato al suo braccio.
— Cosa?
— Che per la prima volta da… troppo tempo… sono guardata.
Fece una pausa.
— Ma non come prima. Non perché sono scoperta. Perché sono viva.
Marco si voltò verso di lei, ma non rispose. Le prese solo la mano, intrecciando le dita alle sue.
Camminarono ancora un po’, superando locali con luci basse, gruppi di ragazzi, una coppia di anziani con un gelato ciascuno. Alessia respirava a pieni polmoni. Il suo corpo sembrava più leggero, quasi sollevato da terra.
A un certo punto, si fermò.
— Aspetta. Guarda là.
Indicò un piccolo chiosco bianco con tende in lino e lanterne appese. Tavolini in legno grezzo, luci calde, e una scritta dipinta a mano: “Aperitivo sul mare. Solo cose buone.”
— Andiamo lì. Voglio brindare. A me.
Marco la guardò.
— Anche a noi?
Lei fece finta di pensarci. Poi sollevò le labbra, ancora perfette, ancora rosse.
— Anche a noi. Ma prima… a me. E al coraggio che ho avuto nel metterle. — disse, indicandosi le labbra.
— Allora vanno celebrati. Quei dieci centimetri di rosso. — rispose lui.
Il cameriere portò due calici di vino bianco freddo e un piccolo tagliere di formaggi e olive nere in un vassoio di legno chiaro. La luce del tramonto cominciava a tingere tutto di oro rosato, le lanterne del chiosco iniziavano a oscillare piano nella brezza. Marco sollevò il bicchiere.
— A te, Ale. Alla donna che sei, che stai diventando… e a quelle labbra che fanno girare la testa a ogni cameriere che passa.
Lei sorrise, sfiorò il suo bicchiere con un clink appena percettibile e bevve un sorso, lasciando che il vino le sfiorasse le labbra con lentezza.
Poi si leccò piano l’angolo della bocca e si appoggiò allo schienale, guardando il mare. Per un attimo tacque, come se stesse cercando le parole. Poi, senza guardarlo, disse:
— Sai che stanotte ho sognato che facevamo l’amore su un balcone?
Marco smise di masticare. La guardò.
— Un balcone?
— Sì. Era una stanza d’albergo in riva al mare. Le tende volavano col vento. C’era il suono delle onde sotto, le cicale. E io… ero in piedi, di spalle. Il sole ci tagliava in due, e tu mi prendevi da dietro, lento, senza mai staccare gli occhi da me.
Lo disse con una voce calma, quasi ipnotica. Poi si girò e gli sorrise.
— Non è vero. Non ho sognato niente.
Si avvicinò al suo viso, baciandolo appena sulla guancia, proprio accanto all’orecchio.
— Ma voglio ricordarlo come se fosse già successo.
Marco restò fermo, con il bicchiere in mano, mentre cercava di respirare a fondo. Era completamente in suo potere. E lei lo sapeva.
Poi si alzò. Con naturalezza, appoggiò una mano sul suo braccio e, senza dire nulla, si sfilò lentamente i sandali. Uno. Poi l’altro. I piedi nudi sfiorarono il legno caldo del pavimento. Si avvicinò alla staccionata che separava il chiosco dalla spiaggia e scese di un gradino, appoggiando finalmente la pianta dei piedi sulla sabbia.
Si chiuse gli occhi, respirò a fondo, le braccia lungo i fianchi. Il vestito traforato ondeggiava leggero. Sotto, il blu del costume brillava appena nei punti in cui il tramonto lo colpiva.
— Sai che ti dico? — disse, voltandosi verso di lui. — Perché aspettare domani?
Marco si alzò piano, affascinato.
— Stai parlando della sabbia… o del balcone?
Lei lo fissò. Gli occhi accesi. Le labbra rosso fuoco.
— Di tutte e due. Ma la sabbia… viene prima.
Gli porse la mano.
— Vieni?
Appena i suoi piedi nudi toccarono la sabbia, Alessia sorrise. La sentì fresca, ancora tiepida di sole. Iniziò a camminare piano, lasciando che le dita affondassero un poco, il corpo morbido, i capelli che si muovevano appena con il vento. Marco la osservava, staccandosi di poco, godendosi la scena.
Camminarono per alcuni metri. Non dicevano molto, ma le mani restavano intrecciate, e ogni tanto lei si avvicinava al suo braccio, sfiorandolo con la spalla. A un certo punto si fermò, si girò verso di lui e affondò i piedi nella sabbia più bagnata, vicino all’acqua.
— È strano. Cammino scalza, ho un vestito che grida “guardatemi”, eppure mi sento… libera. Non esposta. Solo… libera.
Marco le passò una mano tra i capelli, le dita che si impigliavano leggere.
— Ti vedo. E non sei mai stata più bella.
Lei non rispose. Gli baciò piano il palmo della mano, poi guardò il mare, ancora un istante.
Poi si voltò, risalendo decisa verso la passeggiata.
Marco la seguì. E mentre Alessia saliva sul marciapiede, infilando le dita tra quelle di lui, si voltò appena.
— Allora? — chiese, con un tono che era tutto fuorché innocente.
— Allora cosa?
Lei si voltò completamente, ferma, la luce calda dei lampioni che iniziavano ad accendersi le tagliava il profilo.
— Questo rossetto. Non sei curioso?
Marco la guardò, un sorriso lento che gli piegò il viso.
— Dici quello che hai comprato anni fa e non hai mai messo?
— Proprio lui.
Fece un passo più vicino, il mento sollevato.
— Ti piace?
Marco si fermò. La guardava da sotto, perché senza i tacchi lei sembrava ancora più piccolina, e la differenza di altezza si faceva evidente. Ma non aspettava altro. Scese dal marciapiede con un passo calcolato, lento, come se ogni gesto fosse carico d’intenzione. Poi le si avvicinò e le prese il viso tra le mani.
— Mi piace da morire.
E senza darle tempo di rispondere, la baciò.
Fu un bacio lento, profondo, senza fretta. Le sue labbra si appoggiarono alle sue con decisione ma senza forzarla, scivolando appena, poi tornando a cercarle. Sentì la morbidezza del rossetto, il sapore leggermente dolce, la resistenza sottile che poi si spezzò. Alessia si lasciò andare, si alzò appena sulle punte dei piedi, le mani che gli salirono lungo il torace, si aggrappò alla sua maglietta.
Quando si staccarono, un respiro più tardi, lei rimase un attimo immobile. Poi si passò un dito sulle labbra.
— Vediamo chi ne ha di più adesso…
Marco, sorridendo, si chinò a specchiarsi nel vetro del negozio alle loro spalle. Poi si voltò verso di lei.
— Pari. Ma siamo solo all'inizio.
Lei rise, lo prese sottobraccio e lo trascinò avanti.
— Allora andiamo a rimediare.
Camminarono in silenzio per gli ultimi metri che li separavano dall’albergo, con le dita intrecciate e il passo lento. Non c’era più bisogno di parlare: tutto era già sospeso tra gli sguardi, i sorrisi, le mani che ogni tanto si stringevano un po’ di più. Appena varcarono l’ingresso della hall, immersa in una luce calda e ovattata, Alessia si fermò vicino all’ascensore. Si voltò verso di lui con uno sguardo malizioso, inclinando appena la testa, il tono dolce ma affilato come una lama sottile.
— Dobbiamo… uscire a cena?
Marco non rispose subito. La guardò un istante, poi si voltò con naturalezza e tornò al banco della reception. L’addetto lo riconobbe, e si fece subito attento.
— Buonasera signore, tutto bene?
— Perfetto, grazie.
Marco si appoggiò con una mano al banco.
— Vorremmo cenare in camera. È possibile ordinare una cena di pesce per due? Qualcosa di leggero, fresco. Magari crudo e cotto misto. E del vino bianco, molto freddo. Se possibile… un’etichetta locale.
Il receptionist annuì subito.
— Nessun problema, signore. La faccio preparare e ve la mandiamo in camera entro mezz’ora.
Marco ringraziò con un cenno, poi tornò da lei, che lo stava aspettando con le braccia conserte e quel sorriso che diceva tutto.
— Risolto. — disse semplicemente. — Niente cena fuori. Ma in camera… tutto.
Alessia annuì lentamente, poi lo seguì verso l’ascensore. Quando le porte si chiusero dietro di loro, la luce si abbassò di un tono. Nessuno parlò. Ma tra i loro corpi, già vicini, l’aria era diventata più densa. L’odore del mare, il vino promesso, la sabbia ancora tra le dita dei piedi: tutto li conduceva verso quella stanza, verso ciò che sarebbe successo una volta chiusa la porta.
Marco era ancora seduto sulla poltrona quando sentì la porta del bagno aprirsi piano. Il vapore caldo uscì come un respiro lento, seguito da Alessia che si affacciò con l’accappatoio avvolto attorno al corpo e i capelli ancora umidi, tirati indietro. Le guance leggermente arrossate, le spalle rilassate, gli occhi limpidi. Non c’era trucco, ma era ancora più bella. Più vera.
— Marco… mi prendi il trolley? È rimasto lì vicino all’armadio.
Lui si alzò subito, senza dire nulla, e glielo portò. Lo appoggiò accanto a lei, sfiorandole appena il braccio con le dita. Sentì la pelle calda e profumata. Lei sorrise appena e si richiuse dentro, lasciandolo fuori con l’attesa.
Pochi minuti dopo riapparve. L’accappatoio era chiuso in vita da un nodo alto, e sotto — anche se nulla era visibile — si intuiva qualcosa di diverso nel modo in cui camminava, nel modo in cui si portava le mani tra le pieghe del tessuto. Qualcosa che non c’era prima.
Si avvicinò a lui, si chinò piano, e con una voce bassa ma limpida gli sussurrò:
— Dai, puzzola. Fatti una doccia anche tu.
Gli diede un buffetto affettuoso sul petto.
— Poi ceniamo, che ieri sera ho mangiato solo te… e adesso ho fame. Di cibo, stavolta.
Marco rise piano, scosse la testa e la baciò sulla fronte.
— Torno subito. Ma non toccare niente.
— Promesso. Solo con gli occhi.
Entrò in bagno. Appena la porta si chiuse alle sue spalle, Alessia si avvicinò alla terrazza, spinse la tenda e aprì una delle ante. L’aria fresca della sera le sfiorò le gambe nude. Il mare era scuro adesso, increspato dalla brezza, e le luci delle barche lontane sembravano stelle rovesciate.
Non fece in tempo a tornare dentro che bussarono piano alla porta. Un cameriere, educatissimo e silenzioso, entrò con il carrello. Lei gli indicò con un gesto gentile la terrazza. Lui apparecchiò con cura sul tavolino: due piatti, una grande alzata di pesce crudo e grigliato, fette di pane caldo, una bottiglia di vino bianco immersa in un secchiello con ghiaccio, due calici già pronti.
— Tutto perfetto, grazie — sussurrò lei, tenendo stretto l’accappatoio con una mano.
Il cameriere annuì, senza sguardi indiscreti, e lasciò la stanza.
Ora tutto era pronto. Il mare davanti, la cena sul terrazzo, il vino che attendeva. E lei, sotto quell’accappatoio, con il corpo vestito del completino scelto solo per lui: reggiseno nero lucido con inserti in tulle, tanga sgambato con doppia stringa e anello decorativo, reggicalze sottile che abbracciava le sue gambe con precisione, e calze trasparenti 10 denari dal bordo ricamato.
Si guardò un attimo nello specchio accanto alla porta finestra. Sorrise, si sistemò i capelli con una mano e lasciò che il vapore del bagno sfumasse piano.
Marco uscì dal bagno asciugandosi i capelli con un asciugamano, i pantaloncini sportivi infilati di fretta e la maglietta ancora in mano. Quando alzò gli occhi, la vide.
Alessia era in piedi sulla terrazza, avvolta nell’accappatoio, con il viso rivolto verso il mare. La luce della lanterna sopra il tavolo le disegnava un alone morbido attorno ai capelli ancora umidi. Si voltò al suono della porta, e gli sorrise.
— È arrivata la cena. Ti ho aspettato.
Marco fece un cenno di approvazione e si avvicinò. Il tavolo era apparecchiato con cura: il vino nel ghiaccio, due piatti pieni di colori — carpaccio di tonno, gamberi grigliati, calamari scottati, una ciotola di cous cous con verdure profumate. La brezza era fresca ma piacevole, e il mare davanti a loro era nero e vivo, punteggiato di luci lontane.
Si sedettero uno di fronte all’altra. Per un attimo rimasero in silenzio. Poi Marco sollevò il calice.
— Alla donna che ho davanti. E a questa sera, che sembra fatta apposta per noi.
— E a te — rispose lei. — Per aver ordinato esattamente quello che avrei scelto io. Forse dovrei lasciarti ordinare anche il vino nei ristoranti da adesso in poi.
— Non ci sperare troppo — sorrise lui. — Questa è solo fortuna… o forse istinto.
— Io voto per l’istinto. — disse lei, bevendo un sorso.
Cominciarono a mangiare, lentamente, scambiandosi forchettate da un piatto all’altro. Le mani che si incrociavano, le dita che a volte si sfioravano per caso. Si raccontarono cose leggere: il peggior ristorante in cui erano stati, le vacanze finite male, gli appuntamenti disastrosi. Alessia scoppiò a ridere quando Marco le raccontò di una cena in cui, per errore, aveva chiesto un piatto “con pochissimo aglio”… in un ristorante greco.
— Ti hanno servito aglio anche nel dessert, vero?
— Ne ho ancora tracce genetiche — disse lui, con aria seria.
Lei rise forte, buttando indietro la testa, e a Marco mancò un attimo il fiato. Non tanto per il suono — bellissimo — quanto per ciò che esprimeva: libertà vera. Senza controllo. Senza paura.
A un certo punto Alessia si alzò, andò a prendere la bottiglia nel secchiello e versò il vino nei calici, poi tornò a sedersi.
— Sai che è da tempo che non mi sentivo così?
— Così come?
— Presente. Leggera. Normale. Ma… anche speciale.
— Tu sei speciale. Ma non in modo straordinario. In modo vero. — rispose lui, con tono semplice, onesto.
Lei lo fissò un istante. Poi si portò il calice alle labbra, con un sorriso appena accennato.
— Sai che forse è questo il momento più bello della giornata? Non quando ci siamo spogliati. Non quando mi hai baciata sotto la luce. Ma… questo. Con il vino. Il mare. E te che mi ascolti.
Marco annuì, stringendole piano la mano sopra il tavolo.
— Allora restiamoci. In questo momento. Il resto… può aspettare.
La cena era finita da pochi minuti, i piatti ancora sul tavolo, il vino quasi esaurito. L’aria era diventata più fresca, con quel respiro notturno del mare che sapeva di sale e di silenzi profondi. Marco si alzò piano, sfiorando la mano di Alessia con un bacio sulle nocche.
— Vado a ordinare un’altra bottiglia — disse, con un tono basso e morbido. — Questa serata non può finire con un fondo di bicchiere.
Alessia annuì appena, gli occhi socchiusi e un sorriso enigmatico sulle labbra.
Marco rientrò nella stanza lasciando la porta-finestra semiaperta. Fece la richiesta al telefono con la voce ancora intrisa di quella calma luminosa che solo lei riusciva a tirargli fuori. Poi tornò sulla terrazza.
E si fermò di colpo.
Lei era lì, in piedi accanto alla ringhiera, illuminata solo dalla luce calda del tavolino. L’accappatoio era sparito. Al suo posto, il completino nero lucido che avevano scelto insieme: il reggiseno a coppe rigide che sollevava il seno con grazia, lasciando intravedere gli inserti in tulle sulla curva morbida dei seni. Il tanga sgambato disegnava una “V” sottile sui fianchi, slanciando le gambe. I reggicalze trattenevano con precisione le calze trasparenti, il bordo ricamato che si tendeva sulla coscia con eleganza geometrica.
E sotto, un paio di scarpe chiuse in vernice nera, tacco 10, lucide come gocce di notte. Il contrasto tra la nudità della pelle e la perfezione strutturata di quelle scarpe era ipnotico.
Alessia era appoggiata alla ringhiera, una mano che stringeva piano il ferro battuto, l’altra appoggiata al fianco. La schiena leggermente arcuata, il bacino in avanti, le gambe incrociate con disinvoltura. La stessa posa della sera precedente, quando si era voltata verso di lui in quel corridoio, lasciandogli il fiato sospeso. Ma ora era tutto diverso. Ora era cosciente, presente, voluta.
Il rossetto era stato appena rinfrescato: rosso pieno, lucido, carnale, preciso sul contorno, ancora umido al centro. Le labbra sembravano una promessa rinnovata.
Lei lo guardò da sopra la spalla, senza muoversi.
— Lo sapevo che non mi avresti perdonato le calze senza le scarpe chiuse.
Un sorriso lento, quasi colpevole, ma pieno di quella luce che ormai aveva imparato a usare.
Marco rimase lì, un istante, semplicemente a guardarla. Con la luce del tavolo che le disegnava i riflessi sulla pelle, i capelli sciolti sulle spalle e quel modo unico che aveva di stare ferma, eppure di colpirlo come se si stesse muovendo.
Poi fece un passo verso di lei.
E un altro.
Marco si avvicinò piano, incantato. Ogni passo era un crescendo, un assorbire centimetro dopo centimetro la bellezza di lei, lì davanti, appoggiata alla ringhiera, illuminata solo da quella lanterna calda che ne baciava la pelle con rispetto e desiderio. Il mare alle spalle, il corpo avvolto solo da seta, tulle, pelle e quell'equilibrio perfetto tra il mostrato e il trattenuto.
Si fermò a un passo da lei. Poi fece qualcosa che lei non si aspettava.
Con gesto gentile, quasi timoroso, le tese l’accappatoio.
Un silenzio improvviso si fece spazio tra loro. Alessia lo guardò. Prima con sorpresa. Poi con qualcosa di più scuro. Il volto si rabbuiò. Le labbra si richiusero in una linea dura. Non disse nulla. Non doveva. L’espressione bastava.
Marco si rese subito conto dell’errore. La tensione, la magia, l’apertura… tutto sembrava essersi spezzato come una corda tesa che si rompe.
— Ale, scusa… io… non volevo. — balbettò, cercando le parole come un naufrago cerca terra.
— È che… stanno arrivando con il vino, a sparecchiare, non volevo metterti in imbarazzo…
Fece un passo indietro. — Ma se vuoi restare così… cioè… puoi. Assolutamente. Davvero. Non volevo spegnere niente. Solo… proteggerti, forse. O forse proteggermi. Non lo so.
Era nel panico. Lo sentiva sulla pelle, nelle mani. Aveva paura di aver distrutto un momento irripetibile. Di aver frainteso, di averla offesa. E si odiava per questo.
Lei, ancora ferma, lo guardò. Il volto chiuso, il silenzio come una barriera. Poi, senza una parola, prese l’accappatoio e lo indossò. Lo strinse in vita con decisione, voltandosi appena quando bussarono alla porta.
Due camerieri giovani e discreti entrarono con gesti rapidi e garbati, portando via i piatti, sparecchiando con efficienza. Uno dei due stappò la nuova bottiglia di vino e lasciò i calici pieni sul tavolo, chinando appena la testa prima di andarsene.
Durante tutto il tempo, Alessia rimase immobile, apparentemente composta. Ma quando i camerieri si voltarono per rientrare in camera e prendere il carrello, lei si girò verso Marco.
Con un lampo negli occhi. Il volto ancora imbronciato. Eppure... giocava.
Aprì lentamente l’accappatoio, lo spalancò appena, lasciando intravedere sotto di nuovo tutto: il reggicalze, le calze, le scarpe, la pelle nuda, le curve precise. Il corpo offerto in silenzio. Poi lo richiuse di scatto.
Mimò con la bocca, senza emettere un suono:
"Appena se ne vanno… lo tolgo. E ti mando in bianco."
Marco impallidì. Le mani tremavano leggermente mentre toccava il bordo del tavolo. Gli occhi sgranati, il respiro bloccato. Non capiva più se stava pagando un prezzo simbolico o se stava per perdere davvero qualcosa. E quella incertezza… lo devastava.
Alessia si voltò con calma verso il mare. Come se nulla fosse accaduto. Ma la piega delle sue labbra… nascondeva un sorriso. Piccolo. Ostinato. Vincente.
I camerieri si congedarono con discrezione, chiudendo piano la porta della camera dietro di sé. Il silenzio tornò ad avvolgere la terrazza, rotto solo dal lontano suono delle onde e dal battito sommesso di due cuori in disequilibrio.
Marco rimase immobile. Ancora turbato, ancora incerto. Ma non parlò. Aveva imparato — o stava imparando — che certe volte il silenzio dice più di mille spiegazioni.
Alessia, invece, si mosse. Con lentezza. Si servì un altro dito di vino, lo portò alle labbra, e poi lo posò. Si sedette sulla sedia di lato, una gamba accavallata con studiata eleganza, l’accappatoio ben chiuso. Gli occhi però scintillavano.
Non c’era rabbia, non più. Solo gioco. Solo intenzione.
Ogni tanto lo guardava. E quando lui provava ad avvicinarsi, faceva un cenno distratto con la mano o fingeva di non accorgersene. Ogni gesto era una piccola messa in scena, una punizione teatrale fatta con gusto. Una seduzione lenta, raffinata, pungente.
— Ale… — provò a dirle, sorridendo appena.
Lei sollevò lo sguardo, un sopracciglio appena alzato. — Ti ho già perdonato. Ma non te lo faccio capire subito.
Marco rise piano, sollevato e stordito da tanta grazia mista a spietatezza.
— Posso… prendo un attimo la mia sigaretta elettronica. È lì sul mobile, torno subito — disse, indicando con la testa la camera da letto.
— Non scappare eh — rispose lei, trattenendo un sorriso e sporgendosi appena verso il bicchiere.
Lui si voltò e rientrò.
Ci mise pochi secondi. Quando tornò, la terrazza sembrava la stessa… ma non lo era.
Lei non c’era più sulla sedia.
Era seduta sul bordo del tavolo, una gamba piegata, l’altra che accarezzava il vuoto con la punta della scarpa lucida. L’accappatoio… sparito. Il corpo era di nuovo rivestito soltanto da quel completino scelto insieme, indossato per lui. Le calze tese, i reggicalze ben tesi, la schiena dritta, le spalle nude, la bocca rossa e fresca. Come la prima sera. Ma con una sicurezza diversa. Con padronanza.
Quando lo vide, si sistemò una spallina immaginaria e poi disse, con voce calma, quasi solenne:
— Vediamo se riesci a farti perdonare.
Lo fissava. Fermo. Silenziosa. Ma in ogni fibra, viva come non era mai stata.
Marco si bloccò sulla soglia. La sigaretta elettronica tra le dita, dimenticata. Il cuore che cercava di tenere il passo con ciò che vedeva.
Era davvero pronto?
Oppure doveva imparare ancora qualcosa su quella donna?
Marco non parlò. Rimase fermo sulla soglia della terrazza, con il respiro in gola e la luce calda del tavolo che accarezzava il corpo di Alessia, seduta sul bordo come una visione.
Appoggiò con calma la sigaretta elettronica sul tavolino accanto. Poi si avvicinò, senza fretta. Nessun movimento era istintivo, nulla era affrettato. Ogni passo portava con sé rispetto, ammirazione… e qualcosa di più: la consapevolezza.
Arrivato a un passo da lei, si inginocchiò.
Le prese lentamente una mano, senza tirarla a sé. La guardò dritta negli occhi, in silenzio.
— Non c’è nulla da perdonare, Ale — disse piano. — Ma se anche ci fosse… allora fammi restare qui, così. A guardarti. A riconoscere tutto ciò che sei diventata. Per me è già un privilegio.
Le baciò il dorso della mano, con lentezza. Poi la sfiorò appena con le labbra sotto il polso, più in basso, dove il battito si fa più forte. La tenne lì qualche istante, come a voler sentire davvero il ritmo del suo cuore.
Poi alzò lo sguardo.
— Ma se vuoi un gesto… non sarò io a toccarti per primo.
Rimase lì. In ginocchio. In attesa.
La testa appena inclinata, gli occhi che la contemplavano come se fosse un’opera d’arte viva. Le mani abbandonate sulle sue ginocchia, il corpo teso ma fermo. Nessuna richiesta. Solo disponibilità piena.
Era un’offerta. Un invito. E un riscatto insieme.
Lei non si mosse subito. Lo guardava dall’alto, le gambe accavallate con una naturale eleganza, le calze tese sulla pelle e le scarpe nere lucide, chiuse, con quel tacco alto che le ridisegnava la postura, il portamento, persino il silenzio.
Poi, senza fretta, scese dal bordo del tavolo. I suoi tacchi toccarono il pavimento con un suono preciso, secco, inconfondibile. Un colpo leggero, ma che vibrò nel petto di Marco più di qualunque parola.
Lui rimase inginocchiato. Non osava alzare lo sguardo. Non ancora.
Alessia iniziò a girargli intorno, lentamente. Ogni passo accompagnato dal rumore dei tacchi sul pavimento della terrazza. Era uno stillicidio sensoriale: la sua presenza lo circondava, lo stringeva, lo metteva alla prova.
Lo studiava.
Lo scrutava.
Ma non con durezza, bensì con quella malizia gentile che sapeva di gioco e di sfida.
Si fermò alle sue spalle, sfiorandogli le spalle con la punta delle dita. Una carezza quasi distratta. Poi si chinò appena, e con le labbra vicinissime al suo orecchio sussurrò:
— Vieni Ma… certe cose in terrazza non sono da fare.
Il suono del nome abbreviato, detto così, basso, complice, lo fece fremere.
Poi si voltò, e con un ultimo colpo secco dei tacchi sul pavimento, rientrò nella camera.
Marco rimase ancora un istante inginocchiato, solo con l’eco del suo profumo e del rumore di quei passi.
Poi si alzò.
Lei lo stava aspettando.
Quando entrò in camera lei era in piedi in mezzo alla stanza. Immobile lo guardava.
— Marco… siediti.
Non c’era durezza nel tono. C’era piuttosto quella carezza d’acciaio che solo le donne consapevoli riescono a usare.
Lui rimase immobile un istante, sorpreso dal cambio di rotta, poi fece un mezzo sorriso e si sedette sul bordo del letto.
— Chiudi gli occhi.
La voce di Alessia fu come un filo di seta teso tra desiderio e comando. Marco la guardò per un istante, sorpreso, ma nei suoi occhi non c’era sfida. Solo fiducia.
Obbedì.
Lei non si mosse subito. Restò in silenzio a contemplarlo: seduto, ignaro di ciò che sarebbe venuto. Poi gli si avvicinò in punta di piedi, senza che i tacchi tradissero un suono. Lo sfiorò appena con le labbra, dietro il lobo dell’orecchio, e lo sentì sobbalzare.
— Sei mio adesso… — sussurrò, con il tono basso e graffiato di chi sa esattamente che effetto fa. — E io posso fare quello che voglio.
Le dita scorsero lente sul petto nudo, tracciando una linea invisibile verso l’inguine. Si fermarono un attimo, poi risalirono, indugiando sull’addome, come se lo stessero disegnando a memoria. Alessia si abbassò un poco, fino ad avere la bocca esattamente all’altezza del suo orecchio.
— Immagina la mia lingua che scivola qui… — sussurrò, lasciando che il fiato caldo accarezzasse la pelle. — E poi giù. Sempre più giù.
Fino a farmi pregare che tu resista.
La mano destra lo accarezzò piano dall’interno coscia verso l’alto, ma si fermò un istante prima di toccarlo.
— Ma se apri gli occhi… — lo punzecchiò piano — …sparisco.
Poi la punta della lingua sfiorò il bordo dell’orecchio. Un soffio, nulla più. Ma bastò a farlo trattenere il respiro.
Gli sfiorò la tempia con le labbra, sentendolo fremere. La voce uscì bassa, impastata di eccitazione, quasi un filo di veleno dolce nell’orecchio:
— Se aprissi gli occhi adesso… vedresti la mia bocca bagnata… pronta a inghiottirti piano, come ieri…
Ma non li aprire. Non ancora.
La mano gli strinse l’interno coscia, lenta.
— Ho voglia di sentirmi scivolare sopra di te… lentamente… fino a che non ci sarà più niente tra noi.
Solo la mia pelle sulla tua.
Le mie unghie sulla tua schiena.
E il tuo corpo che si arrende dentro il mio.
Si abbassò ancora un po’, la lingua a lambirgli il collo:
— Immaginami sopra di te. Le mie mani che mi aprono.
E poi giù. Fino in fondo. Tutta.
Senza fermarmi.
Senza lasciarti uscire.
Neanche un secondo.
Il respiro gli si fece irregolare.
— Voglio sentirti tremare mentre ti tengo dentro.
Voglio guidarti io.
Farti venire dove voglio io.
Quando voglio io.
Come voglio io.
Ancora inginocchiata tra le sue gambe, Alessia lo guardò. Non c’era bisogno che parlasse più. Lui era lì per lei, e il corpo lo diceva più di qualsiasi risposta. Lentamente, con movimenti lenti e precisi, gli slacciò il bottone dei pantaloncini, poi la zip, e li fece scivolare verso il basso con una delicatezza quasi sacrale, come se ogni gesto fosse parte di un rituale antico.
Lo toccò. Finalmente.
Lo sentì già vivo, caldo, pulsante sotto le sue dita, che si muovevano lente ma decise, con una sicurezza che nasceva solo dalla consapevolezza di sé. Si avvicinò con il viso, così lentamente che il suo alito fu il primo a toccarlo davvero.
Marco si tese. Lei lo sentì.
Si concesse un sorrisetto, poi — senza dire nulla — lasciò che la lingua scivolasse lungo il suo desiderio, esplorandolo come se fosse la prima volta, come se stesse assaporando un sapore atteso da anni.
Le mani gli si posarono sulle cosce, premendole appena per tenere il controllo.
Niente fretta.
Ogni movimento aveva il tempo che serviva.
Ogni gesto era per lui, ma era lei a dettare il ritmo.
Lo accolse. Piano. Prima la punta, poi un po’ di più. Lo sentiva palpitare tra le labbra, sotto la lingua. Lo risucchiava con lentezza, poi lasciava andare, poi tornava. Lo sentiva trattenere il respiro ogni volta che il calore della sua bocca lo circondava.
E mentre saliva e scendeva, gli sussurrava ancora.
Parole spezzate tra una carezza e l’altra.
Promesse che non lasciavano scampo.
— Voglio sentirti perdere il controllo per me.
Marco aprì gli occhi. C’erano fiamme, lì dentro, e la dolcezza aveva lasciato spazio a qualcosa di più profondo. Le afferrò le spalle, senza violenza, ma con forza, quella forza che nasce dalla certezza di ciò che si vuole. La sollevò di netto e la fece ricadere sul letto con un movimento fluido, quasi teatrale. Lei spalancò gli occhi, sorpresa, ma il sorriso non le lasciò le labbra.
Si chinò su di lei e la baciò. Non solo le labbra, ma la bocca intera, come se volesse rubarle ogni pensiero. La lingua scese a cercare i seni, ancora coperti dal pizzo. Le labbra di Marco li cercarono, li baciarono, li adorarono con lentezza, attraverso il tessuto, e poi sotto, quando le dita si fecero strada. Ogni capezzolo fu preso tra le labbra, succhiato piano, con quella precisione che Alessia non ricordava più da anni.
Poi scese. Lentamente. La bocca, la lingua, il naso, le mani… tutto di lui scivolava lungo di lei come una carezza viva, umida, affamata. Le baciò il ventre, poi le cosce, poi risalì… Le aprì delicatamente, mentre le dita le cercavano il centro bagnato, caldo, vibrante di desiderio. Le dita lo trovarono e si insinuarono, senza esitazione. Alessia inarcò la schiena, il fiato spezzato in gola, un gemito che le sfuggì senza controllo.
— Ho già perso il controllo per te… — sussurrò lui, abbassandosi ancora.
E la sua bocca fu lì. A berla, a cercarla, a perdercisi. Le dita non smisero mai, una accarezzava quel punto nascosto e prezioso dentro di lei, l’altra esplorava l’altra sua porta, quella che nessuno aveva osato sfiorare così a fondo, eppure lui lo fece con la delicatezza e la precisione di chi vuole donare, non invadere.
La sua lingua danzava, decisa e dolce insieme, senza tregua, senza pause. Ogni volta che Alessia tremava, pensava di non farcela, e invece lui continuava. La portava su, la teneva lì e poi la lasciava andare in un’ondata calda che le strappava gemiti sempre più profondi.
Uno. Poi un altro. E poi ancora.
E Marco era lì, sempre. Le dita, la lingua, il suo fiato caldo, il suo controllo assoluto, la sua dedizione totale al suo piacere.
Quando lei crollò finalmente esausta, le gambe che ancora tremavano e la voce ridotta a un sussurro senza parole, lui si sollevò solo per guardarla. E negli occhi di entrambi c’era lo stesso lampo: una gratitudine muta e feroce.
Un'intesa costruita non con promesse, ma con piacere.
Il respiro ancora affannoso, il corpo madido, le gambe abbandonate sul letto come se non le appartenessero più. Alessia restò a occhi chiusi, le labbra appena dischiuse, il petto che si sollevava piano. Marco la osservava in silenzio, soddisfatto, ma vigile, ancora in tensione. Il suo corpo non aveva avuto requie: non aveva cercato sollievo, l’aveva solo donato.
Lei se ne accorse. Lo sentì, ancora duro, ancora caldo, ancora in attesa. E sorrise.
Si voltò lentamente sul fianco, con una grazia che contrastava con lo scompiglio appena vissuto, e allungò una mano a toccarlo. Lo sfiorò con le dita, poi con il palmo intero, poi lo afferrò. Sentì pulsare il desiderio ancora tutto lì, ancora vivo, ancora famelico. Si sollevò a sedere, lo guardò negli occhi con un lampo malizioso.
— Non sei ancora venuto… — mormorò, mentre si chinava a baciarlo sul petto, dove ancora il cuore batteva forte.
Alessia, ancora con le ginocchia piegate e il fiato che le tremava in gola, si sollevò lentamente, come spinta da una forza interiore che non si era ancora placata. Lo guardò, il corpo ancora teso, la virilità fiera e viva, e capì che non era finita.
Senza dire una parola si girò, si mise a gattoni sul letto e si voltò verso di lui, con lo sguardo carico di desiderio e sfida. Con le mani si scostò i capelli da un lato e fece un gesto lento, eloquente: piegò la schiena, offrendo il bacino, il tanga nero sottile che seguiva la curva dei glutei, lasciando appena intravedere quello che lui cercava.
Marco non disse nulla. Si avvicinò, le posò una mano sui fianchi e con due dita le spostò il tessuto da un lato. Entrò dentro di lei con un solo, lungo, preciso movimento. Il gemito che le uscì fu quasi un sospiro spezzato. La prese lentamente, poi con ritmo sempre più deciso, ma prima che lei si perdesse in quell’abbandono, la tirò dolcemente su, facendole alzare il busto contro il suo.
Le mani le presero i seni da sotto, forti ma rispettose, le labbra le cercarono il collo, poi la bocca. Si baciarono mentre lui continuava a muoversi dentro di lei, a ritmo lento ma profondo, con il corpo contro il suo, i respiri mischiati, le mani intrecciate.
Ma non bastava. Non bastava a nessuno dei due.
Allora Alessia si girò, si sdraiò supina, aprì le gambe al massimo e lo guardò con occhi carichi di dolcezza e determinazione.
— Vieni — sussurrò —. Vieni dentro di me… fino in fondo.
Marco la prese tra le mani, si piegò su di lei e la penetrò di nuovo, con la posizione più intima, più piena, più vera. Ogni affondo era un respiro trattenuto, ogni sguardo un filo che li teneva uniti. Le mani di lei si aggrappavano alle sue braccia, alle spalle, al collo. Non serviva altro.
Quando vennero, fu insieme. Un crescendo lento, trattenuto, poi impossibile da fermare. Il corpo di lei si tese sotto il suo, si aprì ancora di più, accolse tutto. Lui si lasciò andare con un ultimo colpo profondo, tremante, liberatorio. Un gemito appena soffocato nel suo collo, mentre lei si irrigidiva e si lasciava andare nel piacere che la attraversava tutta.
Rimasero così, uniti, immobili, sudati, i cuori che battevano forte sotto la pelle. Nessuno parlò per lunghi secondi. Non ce n’era bisogno.
Poi Alessia, ancora con gli occhi socchiusi, sussurrò:
— Adesso sì.
Adesso puoi addormentarti. Ma sappi che domani... il gioco ricomincia.

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scritto il
2025-07-24
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