Princy e Lorena 1
di
Ironwriter2025
genere
dominazione
Il suono del campanello fu improvviso, secco, quasi fuori contesto. Princy si voltò d’istinto verso il citofono, ancora con una goccia di sudore che le scivolava dal collo lungo la schiena. Aveva appena finito la sua corsa mattutina, il fiato ancora non del tutto regolare, la pelle accaldata e viva.
Premette il pulsante.
“Chi è? “
Un attimo di silenzio. Poi, una voce femminile, profonda e calma, quasi troppo perfetta per essere vera.
“Lorena. “
Princy aggrottò la fronte.
“Scusi, la conosco? “
“No. Ma dovresti. “
Il tono non era minaccioso, né supplichevole. Solo fermo. Come se l’incontro fosse inevitabile, già scritto.
Princy esitò un secondo, poi premette il tasto di apertura.
“Un attimo, scendo. “
Attraversò il corridoio e si infilò un paio di ciabatte da casa, incurante del fatto che fossero consumate e spaiate. Il sudore sotto la canotta bianca le si stava già asciugando, lasciando chiazze opache sul tessuto leggero. I ciclisti neri, lucidi e aderenti, erano ancora incollati alla pelle, accentuando ogni movimento, ogni piega del corpo.
Spalancò la porta e uscì sul vialetto. Il sole colpiva le pietre chiare dell’ingresso, e il verde brillante dell’erba tagliata di fresco contrastava con l’asfalto scuro del parcheggio esterno.
Girò l’angolo, superò la siepe. E si fermò.
Appena fuori dal cancello, con una mano mollemente poggiata sul montante della Mini Cooper rossa — tettuccio bianco, bonnet stripes nere — c’era lei.
Una donna che non aveva mai visto, ma che sembrava uscita da un sogno lucidissimo. O da una pagina scritta.
I leggings neri lucidi, infilati con precisione chirurgica nel solco dei glutei, catturavano ogni curva come fossero stati dipinti addosso. Le gambe, slanciate, poggiavano su tacchi a spillo in acciaio, lucidi e altissimi, che rendevano ogni suo gesto una dichiarazione d’intenti.
Il busto era avvolto in un corpetto in pelle nera, sagomato in modo da esaltare ogni centimetro del seno abbondante, florido, sollevato con orgoglio. Sopra, una giacca corta alla vita, di cotone pettinato con rifiniture in raso lucido, lasciava scoperta una porzione perfetta di addome teso e femminile.
I capelli biondi erano raccolti in una coda alta, tiratissimi, come se nessun capello avesse il diritto di deviare dal disegno. Il trucco era scuro, quasi gotico: eyeliner marcato, ombre profonde sulle palpebre, rossetto nero lucido che metteva in risalto la bocca piena, scolpita, inquietante.
Una collana d’acciaio semirigida le abbracciava il collo e poi scivolava, con dolcezza brutale, nel solco profondo tra i seni.
Princy si fermò a tre metri da lei, col fiato bloccato e il battito accelerato. Guardò la Mini, poi tornò su quella figura irreale. Deglutì.
“Ci conosciamo? “
Lorena sorrise appena. Ma era un sorriso che non aveva nulla di gentile.
“Tu no. Ma io sì. “
Princy fece un passo indietro, ma la curiosità aveva già vinto.
“Scusa, non ti seguo. “
Lorena allora la guardò dritta negli occhi, senza spostare nemmeno un muscolo del viso.
“Hai letto tutti i miei racconti.
Hai contribuito a crearli.
Noi due dobbiamo parlare. “
Princy non seppe cosa rispondere. Rimase immobile, le mani lungo i fianchi, lo sguardo fisso su quella donna che sembrava aver preso forma dai suoi pensieri più oscuri, più nascosti. Il silenzio che seguì non era imbarazzato: era denso, carico, come se ogni secondo aggiungesse un dettaglio invisibile a quell’apparizione.
Poi fece un passo verso il cancello e, quasi senza rendersene conto, allungò la mano sul chiavistello del pedonale, facendolo scattare.
Lorena la guardò ancora. Lo stesso sguardo tagliente di prima, ma questa volta con un accenno di sorriso — non di cortesia, ma di consapevolezza.
Fece un mezzo passo in avanti, poi si fermò, accennando con il mento e con un gesto lento e preciso verso la Mini rossa alle sue spalle.
“Dove vado io viene Red. “
Il tono era piatto, come se si trattasse di un’evidenza assoluta. “Red” pronunciato con un’intimità disarmante, come se quell’auto fosse una parte viva del suo corpo.
Princy sgranò leggermente gli occhi. Un fremito le percorse la schiena, e le sue labbra si mossero prima ancora di aver deciso cosa dire.
“Va va bene. “
La voce le uscì sottile, incerta.
Girò sui talloni, fece due passi e aprì anche il cancello carraio, facendolo scorrere con un rumore metallico che sembrò troppo forte, quasi irriverente in quella scena così irreale.
Lorena non disse nulla. Salì sulla Mini con una grazia che non aveva nulla di umano: nessun movimento superfluo, nessuna esitazione. Il rombo del motore riempì subito l’aria. Grave, profondo, preciso.
Avanzò lentamente, con la testa alta e lo sguardo puntato su Princy, che si era scostata sul bordo del vialetto. Le ruote scorsero sull’acciottolato con un suono ovattato e sicuro, la carrozzeria rossa brillava al sole come se non avesse mai conosciuto la polvere.
La Mini si fermò a pochi metri dalla porta d’ingresso. Il motore si spense. La portiera si aprì con un clic secco, come se fosse parte di un rituale già scritto. Lorena scese, e il rumore dei suoi tacchi sull’acciottolato fu come una firma.
Red si chiuse alle sue spalle con un colpo deciso.
Lorena si voltò a guardare Princy.
Non disse nulla.
Non ne aveva bisogno.
Le due donne restarono a guardarsi in silenzio, a pochi metri di distanza, immobili, come se l’aria attorno si fosse fatta densa, rallentando il tempo.
Lorena, perfetta nella sua presenza imponente, con i leggings lucidi infilati nel solco dei glutei e il corpetto in pelle che sollevava con orgoglio il seno florido, non mostrava fretta. I tacchi in acciaio affondavano lievemente nei giunti tra le pietre del vialetto, ma il suo equilibrio era totale. Il volto truccato di scuro, scolpito e immobile, sembrava studiato per dominare quello di chiunque osasse fissarla troppo a lungo.
Princy, ancora in canotta sudata e ciclisti da corsa, con le ciabatte spaiate ai piedi, si sentiva minuscola. Cercò di sostenere quello sguardo, ma era troppo. Lo reggeva un secondo appena, poi lo sfuggiva come un animale selvatico, esitante. Alla fine, abbassò lo sguardo. La voce le uscì più bassa del solito.
“Vuoi entrare? “
Nessuna risposta.
Lorena si voltò senza dire nulla, fece scattare il bagagliaio della Mini. Il portellone si sollevò lentamente. Con calma studiata, tirò fuori un borsone nero rigido, pesante, con inserti in pelle e cerniere d’acciaio. Lo afferrò con una sola mano, senza sforzo apparente. Poi richiuse il bagagliaio con un colpo secco e tornò a guardarla.
Il sorriso le era scomparso dalle labbra. Rimaneva solo quel tono di comando innato, silenzioso, che aleggiava intorno a lei come profumo.
“Andiamo? “
Lo disse senza affanno, ma non ammetteva replica.
Princy annuì piano. Voltandosi verso la porta, non riuscì a trattenere un brivido che le percorse la schiena, anche se faceva caldo.
I tacchi di Lorena ricominciarono a battere sull’acciottolato, lenti e sicuri. Il rumore metallico sembrava scandire l’inizio di qualcosa che Princy non avrebbe saputo nominare.
La porta si richiuse alle loro spalle con un tonfo sordo. Dentro, l’aria era più fresca, ma la tensione restava intatta, sospesa come una corrente sottile che attraversava ogni stanza.
Princy si fece da parte con un gesto quasi goffo, indicando con la mano la sala, senza trovare davvero le parole. Lorena avanzò senza bisogno di guida. Posò il borsone accanto al divano in velluto chiaro, poi si voltò verso di lei, osservando l’ambiente con uno sguardo lento, che sembrava penetrare le pareti. Ma non disse nulla.
Princy deglutì. Cercò di recuperare un minimo di padronanza.
“Posso offrirti qualcosa? Da bere o qualcosa da mangiare, se “
Lorena la interruppe senza alzare la voce.
“Non sono qui per bere. Né per mangiare. Non al momento. “
Poi la guardò dritta negli occhi, con un’espressione neutra ma inesorabile, e aggiunse:
“Mi auguro solo che tu stia per andare a farti una doccia. Sei impresentabile. “
La frase cadde come un giudizio scolpito nella pietra. Non c’era rabbia, né sarcasmo. Solo un’oggettività nuda, spietata, come se stesse constatando il tempo o l’ora.
Princy rimase pietrificata per un istante. Sentì il sangue salirle alle guance, ma non per l’umiliazione. Era qualcos’altro. Qualcosa di più profondo.
Abbassò appena lo sguardo, poi lo rialzò, incerta. Avrebbe potuto rispondere. Avrebbe potuto ribattere. Ma non lo fece.
Disse solo:
“Faccio in un lampo. “
Poi si voltò e sparì lungo il corridoio, a passo svelto. Ogni suo movimento le sembrava goffo, scomposto. Sentiva gli occhi di Lorena su di sé anche da lontano, anche con le pareti in mezzo. Come se potesse seguirla ovunque.
Nel bagno, mentre apriva l’acqua, si rese conto di stare trattenendo il respiro.
Il getto caldo della doccia scrosciava sul suo corpo, rimbalzando sulla pelle accaldata e portando via il sudore della corsa. Princy chiuse gli occhi, lasciando che l’acqua le colasse lungo le tempie, sulle spalle, tra le scapole. Ma per quanto lavasse via il sale, non riusciva a scrollarsi di dosso la presenza di Lorena.
Era rimasta impressa nella stanza. Nella casa. In lei.
Il trucco scuro, lo sguardo tagliente, i tacchi che risuonavano nel vialetto ma soprattutto, quella frase: “Sei impresentabile.”
Si passò una mano tra i capelli bagnati e tirò un respiro profondo. All’inizio, si era sentita piccola, dominata, quasi soggiogata da quella presenza tanto scenica quanto reale. C’era qualcosa in Lorena che toglieva fiato, che la faceva sentire nuda anche vestita.
Ma ora qualcosa stava cambiando.
Aprì gli occhi. Nello specchio appannato intravide la propria figura. Le spalle tese. Il mento sollevato. Gli occhi azzurri fissi nei suoi.
Ma questa chi si crede di essere?
Uscì dalla doccia e si asciugò in fretta, con gesti rapidi, nervosi. Il corpo era ancora umido quando si infilò il suo solito perizoma nero minimale, sottile, invisibile sotto gli abiti, ma perfetto per farla sentire ancora padrona di sé.
Scelse un abitino estivo semplice ma deciso: tessuto leggero color sabbia, corto, senza maniche, con la schiena scoperta e un’allacciatura sottile dietro al collo. La stoffa le cadeva morbida sulle anche, lasciando intravedere le curve con naturalezza, senza ostentazioni.
Non si truccò. Non ne aveva bisogno. Si passò solo un dito sulle labbra, per levare ogni residuo d’acqua. Poi si guardò allo specchio un’ultima volta.
E lì esplose dentro di sé la domanda.
Con che coraggio? Con che diritto entra a casa mia e mi dice cosa devo fare?
Il battito del cuore accelerò. Lo sentiva pulsare nel collo, tra le tempie.
Afferrò al volo una molletta e si fermò sulla soglia della scala.
Un respiro.
Poi scese. Decisa. Ogni gradino era una dichiarazione.
Lorena era ancora lì, seduta con una gamba accavallata e il busto eretto come se stesse presiedendo un’udienza.
Appena la vide, Princy non aspettò. Le parole uscirono in un fiotto asciutto, teso.
“Senti, scusami, eh ma tu con che coraggio vieni qui, in casa mia, a comandare, a dirmi cosa devo fare, come devo vestirmi, se sono presentabile o no? “
La voce non tremava. Le mani erano ferme. E i suoi occhi, per la prima volta, reggevano lo sguardo.
Un silenzio carico seguì la domanda.
Lorena non si scompose. Rimase immobile per un istante, come se stesse decidendo se valesse la pena rispondere.
Poi, lentamente, si alzò.
Il corpo si distese con eleganza calcolata, i tacchi ticchettarono piano sul parquet. Non serviva alzare la voce: la sua sola presenza riempiva la stanza.
Allungò la mano verso la sua pochette, estrasse il telefono. Fece scorrere lo schermo con un solo dito, senza guardarlo davvero, come se sapesse già dove andare. Poi, senza alzare gli occhi, lesse.
“Cito. Testuali parole: “Ma inculata duramente almeno quello dai.” “
Il silenzio che seguì fu assordante.
Lorena sollevò lo sguardo. Gli occhi erano pietra fusa, lucidi, fiammeggianti.
“Io stavo donando la mia ultima verginità. L’ultima, capisci?
E tu tu hai scritto al mio Cantastorie di farmi inculare duramente?
Ti rendi conto della gravità della cosa? Della violazione? “
La voce non tremava. Era ferma. Lucida. Inesorabile.
Princy rimase senza parole. Il cuore le martellava nel petto. Sentiva il fiato farsi corto, le spalle abbassarsi, lo sguardo cedere da solo, quasi come un riflesso condizionato.
Sì. Lo aveva scritto.
Quella mattina stessa. In quel messaggio buttato lì, tra il caffè e la doccia, come se nulla fosse. Un gioco, una battuta. O almeno così le era sembrato allora.
Ma com’era possibile? Lei non era reale. Non poteva averlo letto. Non poteva esserne stata colpita.
Non poteva essere qui.
Eppure
Un nodo le serrò la gola. E mentre cercava di raccapezzarsi tra vergogna, rabbia e incredulità, le sfuggì una frase. Bassa. Tagliente. Mezzo sussurro, mezzo veleno.
“Non mi pare ti sia dispiaciuto quando ti ha messo faccia a terra e ti ha inculato a sangue. “
Subito dopo averla pronunciata, si rese conto di ciò che aveva detto. Troppo tardi.
Quando alzò lo sguardo, Lorena era immobile. Il busto appena proteso in avanti. Gli occhi non erano più solo fiammeggianti: erano fuoco puro.
Uno sguardo che poteva bruciare. Ma non solo per rabbia.
Qualcosa stava per succedere.
Qualcosa che Princy non aveva previsto.
Lorena non distolse lo sguardo neanche per un istante.
Sollevò di nuovo il telefono, lo tenne tra le dita come un documento d’accusa, e con voce ancora più ferma, scandita, glaciale, disse:
“Ora sto parafrasando le tue intenzioni, ma con precisione millimetrica. “
Fece una pausa, poi iniziò.
“Fare a pezzi la dirigente tutta d’un pezzo.
Sottometterla.
Farla precipitare in un abisso di prostrazione fisica e morale.
In una spiaggia caraibica, a danzare seminuda in libertà per i giovani indigeni e i loro cazzi. “
Si fermò di nuovo, solo per fissarla con uno sguardo che avrebbe fatto inginocchiare un uomo.
“Senza contare il tentativo andato a vuoto di corrompere anche la mia amica Ale. Se vuoi, la chiamiamo.
Ti dice anche lei cosa ne pensa? “
Fece un passo avanti. Non alzava la voce, ma la stanza si stava restringendo attorno a Princy.
“Ora, mia cara signorina
Visto che sei così volenterosa di infliggere pene agli altrui corpi
Dimmi: cosa dovrei fare con te? “
Silenzio.
Princy, in piedi, con l’abitino estivo addosso e il cuore impazzito, abbassò lo sguardo per un istante. Sentiva la gola secca, le mani tese, le gambe dure.
Ma poi qualcosa dentro di lei si spezzò. O forse si liberò.
Lo sguardo risalì, dritto negli occhi di Lorena. Non più tremante. Non più sottomesso.
Le pupille dilatate, il petto che si sollevava ad ogni respiro. Parlò. E ogni parola fu un colpo.
“Ti sei scopata un collega.
E poi lo hai buttato via. “
Il volto di Lorena non cambiò espressione. Ma qualcosa si incrinò nei suoi occhi.
Princy proseguì, più tagliente.
“Un altro ti ha montata come una vacca in un posteggio, sul cofano di una macchina. E neanche sai come si chiama.
Poi ti sei fatta pagare, come una puttana di strada.
Ti sei esibita davanti a un pubblico adorante, su un piedistallo, prima di farti infilare un pugno in figa.
Ne hai scopati due in un locale. E poi, in un altro, due ti hanno sfondato la figa. “
La voce si spezzò per un istante, carica d’emozione, poi tornò secca, dura, metallica.
“E vieni qui a fare la morale a me?
A casa mia? “
Fece un passo avanti anche lei, lo sguardo acceso, il volto arrossato dal sangue che pulsava forte.
“Dimmi, Lorena cosa mi impedisce di buttarti fuori a calci? “
L’aria nella stanza si fece pesante. Due respiri. Due corpi tesi. Due fuochi pronti ad esplodere.
Ora tocca a Lorena.
E lei non è il tipo da indietreggiare.
Lorena restò immobile. Lo sguardo fermo su di lei. Non una piega sul volto, non un movimento delle labbra. Solo il battito quasi impercettibile delle ciglia, regolare come un metronomo.
Attese che Princy finisse di parlare, che sputasse tutto il veleno che aveva in corpo, fino all’ultima goccia. Non la interruppe. Non si difese. Lasciò che le parole rimbalzassero tra loro, come frecce scagliate nel vuoto.
Poi fece un passo avanti. Non di sfida, ma di presenza. Di sostanza.
La voce che ne uscì fu calma. Dosata. Quasi dolce, se non fosse per l’acciaio che la sosteneva sotto ogni sillaba.
“Sei brillante, sai? Dici le cose come stanno, o almeno come ti piacerebbe che stessero.
Ero curiosa di vedere quando avresti finalmente reagito. “
Le passò accanto sfiorandola appena con la spalla, poi si fermò pochi passi più in là, di spalle. Parlava senza voltarsi, come se conoscesse ogni reazione che stava provocando.
“Tu credi di sapere tutto di me.
Credi che basti un elenco di scopate per definire una donna.
Ma non è me che stai giudicando.
È te che stai difendendo. “
Si girò lentamente, e ora lo sguardo era vivo. Non infuocato. Ma accorto. Attento a ogni nervo esposto.
“Sai cosa mi piace di te, Princy?
Che anche adesso, con la voce tremante e le mani serrate, non riesci a distogliere lo sguardo dal mio.
Neanche per un secondo. “
Un sorriso le attraversò le labbra. Non ampio. Ma pieno.
Poi, un passo più vicino. E infine, la frase.
Secca. Scandita. Inevitabile.
“Se davvero vuoi buttarmi fuori a calci
provaci pure.
Vorrà dire che il dolore che ti voglio infliggere
inizierà prima del previsto. “
E rimase lì. A un metro scarso. Ferma. Disponibile.
A tutto.
Lorena era ferma, la postura perfetta, il respiro calmo, lo sguardo piantato negli occhi di Princy come due spade pronte a ruotare nella ferita.
Princy non rispose. Non arretrò.
Fece un solo passo avanti.
Poi un altro.
Si ritrovarono così, vicinissime. Il respiro dell’una sulla pelle dell’altra. Il silenzio era così denso da sembrare un ruggito trattenuto.
Poi, senza alcun preavviso, Princy le afferrò il viso tra le mani. Forte. Decisa. E la baciò.
Un bacio pieno. Carnale. Rabbioso. Senza dolcezza, senza armonia.
Le labbra si scontrarono. Le bocche si cercarono e si respinsero nello stesso istante. Era rabbia. Era desiderio. Era un atto di guerra.
Lorena rimase pietrificata. Non per paura. Ma per shock.
Non si aspettava un gesto. Non così diretto. Non così fisico.
Quando Princy si staccò, aveva il petto che le si sollevava.
Non disse nulla.
Fece solo un mezzo passo indietro, con gli occhi ancora accesi, carichi di qualcosa che non sapeva nemmeno nominare.
Poi, lentamente, portò le mani alla nuca e sciolse l’allacciatura dell’abito.
Lo fece scivolare lungo il corpo, lasciandolo cadere ai piedi, silenzioso, come un atto definitivo.
Restò in piedi, nuda tranne che per il perizoma. Le spalle dritte, il mento alto, gli occhi lucidi. Le gambe leggermente divaricate, ben piantate a terra. Il seno esposto, il ventre teso, la pelle ancora umida di doccia e di battito.
“Va bene “ disse, con la voce roca, ma ferma.
“Allora inizia.
Vediamo se sei davvero capace.
Ma stavolta non mi inchinerò. “
Lorena non rispose subito. Restò lì, a pochi passi, fissando Princy con occhi carichi di qualcosa che non era rabbia, ma una consapevolezza più profonda, più pericolosa. La osservava nuda, in piedi, con la pelle ancora umida e il respiro irregolare. Una donna che cercava di restare dritta, ma che già vacillava. Un filo invisibile sembrava legarle, ma era Lorena a tenerlo tra le dita.
Poi si mosse. Avanzò con lentezza e con grazia, come se ogni passo fosse parte di un rituale. Sollevò la mano e sfiorò la guancia di Princy con il dorso delle dita, freddo, preciso, lento. Una carezza che non scaldava, ma marchiava. Princy non si tirò indietro. Ma il fremito che la attraversò la tradì.
“Sii gentile, principessa “ mormorò Lorena, con un tono quasi affettuoso, quasi. Il suono di quelle parole si insinuò nella stanza, riempiendola come un profumo troppo forte per passare inosservato.
Poi le rivolse uno sguardo pieno, totale, e continuò: “Vammi a prendere il borsone. “ Lo disse senza forzare nulla, ma con una tale fermezza da non lasciare scampo. Restò immobile, aspettando. Non c’era alcuna necessità di aggiungere altro. Era una richiesta, un ordine, un’inevitabilità.
Poi, con quella calma che sapeva essere la sua arma più affilata, lasciò cadere l’ultima frase: “Se ti inchinerai, non lo so. Ma io ti spezzerò. Qui. E oggi. “
Il cuore di Princy sembrava aver smesso di battere per un istante. La mente le urlava di reagire, ma il corpo già si era mosso. Abbassò lo sguardo, quasi con rabbia verso se stessa, poi si voltò. Non disse una parola. Camminò via, nuda, le gambe tese, le spalle rigide. Ogni passo era un urlo trattenuto.
Raggiunse il salotto. Il borsone nero era ancora lì, a terra, vicino al divano. Lo afferrò con entrambe le mani. Era più pesante di quanto si aspettasse. Quando si chinò per sollevarlo, sentì la tensione inarcarsi lungo la schiena, come se anche il suo corpo sapesse di essere entrato in un gioco molto più grande di lei.
E ora sta tornando. Il borsone stretto tra le mani. Il respiro più profondo.
Lorena la aspetta.
Quando Princy rientrò nella stanza con il borsone stretto tra le mani, trovò Lorena esattamente come l’aveva lasciata: in piedi, immobile, lo sguardo piantato addosso a lei, come se non avesse mai distolto gli occhi nemmeno per un respiro.
Non ci fu bisogno di parole. Lorena prese il borsone, lo appoggiò con cura sul divano e ne aprì la zip con un gesto lento, calcolato. Scostò appena i lembi, come se stesse scoprendo qualcosa di sacro. Le mani affusolate si mossero con precisione assoluta.
Estrasse per prima una barra in acciaio opaco, pesante, che portava alle estremità due bracciali imbottiti in pelle nera, larghi, solidi, con piccole fibbie metalliche. Senza neanche guardare Princy, le porse la barra.
“Apri le gambe. E fissala. “
La voce era calma, quasi morbida. Ma non lasciava alternative. Princy obbedì, piegandosi in avanti per quanto le sue ginocchia tese glielo permettessero. Prese la barra e cominciò a lavorare con le fibbie, una alla volta. Quando le serrò entrambe, le gambe rimasero spalancate, divaricate da quella barra rigida che non lasciava spazio a esitazioni. La nudità si fece più esplicita, più reale. Il respiro le scivolava fuori a fiotti brevi, irregolari.
Lorena non disse nulla. Solo allora prese la seconda cosa: una benda in seta nera. La svolse lentamente, facendola scivolare tra le dita come se stesse soppesando il momento. Poi si avvicinò, e con un gesto misurato la posò sulla fronte di Princy, abbassandola delicatamente sulle palpebre.
Il mondo svanì. La luce si chiuse. Il buio diventò assoluto. Princy inspirò forte. Non poteva più vedere nulla. Solo sentire.
Il suono dei tacchi di Lorena si avvicinò di nuovo. La donna prese infine le manette. Pelle nera, cinghie sottili, metallo vivo. Le prese le mani con cura fredda e le portò davanti al corpo. Le chiuse con precisione, una dopo l’altra. Le fibbie strinsero i polsi, lasciando quel piccolo spazio tra pelle e cuoio che diceva: è stato pensato per durare.
“Brava “ disse Lorena a bassa voce, a pochi centimetri dal suo volto. Il tono era strano: non freddo, non affettuoso. Solo inevitabile.
Princy deglutì. Il cuore le martellava in petto. Non aveva più controllo sulle gambe, non sulle mani, né sulla vista. Rimaneva solo il suono. Il respiro. La pelle. E lei.
Lorena si mosse solo quando tutto fu perfetto: le gambe bloccate, la benda a oscurare ogni cosa, le mani legate davanti come un’offerta muta. Il corpo di Princy era immobile, ma solo in apparenza. Sotto la pelle, il sangue correva impazzito. I sensi erano spalancati, ogni minimo suono vibrava come un urlo.
Lorena le si avvicinò da dietro, senza toccarla subito. La osservò in silenzio, il respiro lento, le mani rilassate lungo i fianchi. Poi, con un solo movimento fluido, le passò la mano sulla schiena, poi lungo il fianco, disegnando con le dita il profilo del ventre, scendendo fino a sfiorare l’elastico del perizoma. Non si fermò.
Le dita si chiusero sul laccetto sottile.
E lo strappo fu secco, improvviso, violento.
Un colpo deciso che fece scattare il corpo di Princy in avanti. Il perizoma si spezzò di netto, le estremità scivolarono sulle cosce, cadendo a terra come un simbolo inutile. Un suono breve, tagliente. Poi di nuovo il silenzio.
Il corpo nudo ora era completamente offerto. Esposto. Senza difese.
Lorena si abbassò per sussurrarle all’orecchio, con un tono calmo, quasi tenero.
“Non emettere un suono. Neanche uno. “
Le parole non erano un consiglio. Erano una legge.
Poi cominciò. Le mani si mossero leggere, appena un tocco. La punta delle dita che accarezzava l’incavo del collo, la spalla, poi il seno, senza mai afferrarlo. Solo passare. Sfiorare.
D’improvviso, uno schiaffo secco sul seno sinistro. Un colpo netto, non devastante, ma abbastanza per far sobbalzare tutto il corpo. Il rumore esplose nell’aria. Ma Princy rimase zitta.
Poi di nuovo una carezza, sul ventre, lenta. Un respiro. Il suo.
Poi un altro schiaffo, sull’interno coscia, da sinistra a destra, con il dorso della mano. Princy sussultò. Ma si trattenne.
Lorena si portò davanti a lei. Le prese il mento con due dita e lo sollevò appena.
“Non stai respirando “ sussurrò.
Poi, piano, portò la bocca a pochi millimetri dalla sua.
“Inspira. Ora. “
Princy obbedì. L’aria le entrò nei polmoni come fuoco. Le gambe le tremavano, ma la barra le teneva spalancate. Le mani serrate davanti, inerti. Il corpo umido, lucido, teso fino allo spasmo.
“Trattieni. “
Silenzio. Un battito. Due. Tre.
“Espira. “
Lorena le prese un capezzolo tra le dita. Lo strinse, non troppo, ma abbastanza da farla gemere.
“Zitta. “
Il comando fu sussurrato, ma assoluto.
Poi il respiro riprese, sotto controllo. A tratti. Ogni volta guidato da Lorena. E tra un respiro e l’altro, un colpo. O una carezza. Un morso sulla clavicola. Una carezza sul ventre. Uno schiaffo sull’altro seno. Nulla era regolare. Nulla era prevedibile.
Princy era in balia di lei.
Ma era esattamente dove aveva sempre voluto essere.
Lorena si mosse intorno a lei come un’ombra precisa. Ogni passo, ogni gesto, ogni respiro aveva un peso. Il corpo di Princy era lì, in piedi, forzatamente aperto, le mani legate davanti, gli occhi coperti da quel velo nero che rendeva ogni secondo eterno. Ma dentro, la mente galoppava, il sangue martellava, e il sesso pulsava come se avesse preso vita propria.
Lorena si avvicinò ancora. Le passò una mano lungo la schiena, poi la aprì di colpo, colpendole con forza un gluteo. Uno schiocco netto, sordo, che rimbalzò contro le pareti. Princy si contrasse tutta, il busto scattò in avanti, le labbra si aprirono in un gemito trattenuto, appena un fiato.
Un secondo colpo, più forte, sull’altro lato. Pelle contro pelle, carne che arrossisce all’istante. Lorena le sussurrò: “Sei ancora troppo rigida. Ti voglio liquida. “
Le afferrò i capelli, li tirò verso l’alto, facendole sollevare il viso bendato. La bocca si aprì di riflesso, ma non emise un suono.
Lorena sorrise.
“Non sei brava. Sei obbediente. C’è una differenza. “
Poi le infilò una mano tra le gambe, la percorse senza pietà, con un solo dito, diretto, affondato con decisione.
“Bagnata come una cagna. “
Non era una domanda. Era una constatazione chirurgica. Poi la mano si ritirò, sparì, e la lasciò lì, pulsante, gonfia, priva di appoggio.
Uno schiaffo violento al seno destro. Poi l’altro. Poi ancora un altro, sempre più rapido, più forte. Il corpo di Princy ondeggiava, scosso, tremante, ma non cedeva. Resisteva. Forse per orgoglio. O forse perché voleva il colpo successivo più del precedente.
Lorena si abbassò. Le afferrò le caviglie con entrambe le mani, serrandole sui bracciali fissati alla barra. Poi si risollevò di scatto e con un gesto rapido le colpì l’interno coscia con la mano aperta, tre volte, da sinistra a destra, sempre più in alto. Ogni schiaffo risuonava, ogni colpo la apriva un po’ di più.
Poi la voce. Ferma, a filo d’orecchio.
“Non c’è niente in te che non stia urlando “usami”. Ma tu vuoi essere spezzata, non usata. E io non ho finito. “
Le afferrò il mento. Glielo strinse tra pollice e indice.
“Ora tre respiri. Ma non muovere le mani. Se lo fai, ricominciamo da capo. “
Princy annuì. Tremava. Il sudore le colava lungo le tempie sotto la benda. Il sesso, gonfio e lucido, pulsava nel vuoto.
Lorena restò in silenzio per qualche istante, osservando il corpo teso, bendato, aperto davanti a sé. Princy era ferma, ma dentro era un turbine: il respiro controllato a fatica, le mani strette davanti, le cosce lucide, il sesso ormai gonfio e pronto, la pelle tesa di attesa.
Si chinò con lentezza, senza un rumore. Dal borsone tirò fuori una coppia di pinze nere, piccole, affilate, rifinite in metallo lucido. Tra loro, una catena sottile in acciaio scuro pendeva morbida, fredda come un’idea precisa.
Si avvicinò da davanti, sfiorandole i polsi legati con le dita solo per sentire il fremito che le attraversava. Poi portò una mano al seno sinistro, lo sollevò leggermente e con gesto secco, chirurgico, applicò la prima pinza al capezzolo, serrandola in un solo colpo. Princy sussultò, tutta. Un gemito quasi le sfuggì, ma rimase in gola. Il dolore era netto, immediato, ma già mescolato a un piacere oscuro, profondo.
Lorena non le lasciò il tempo di abituarsi. Spostò la catena, la fece cadere fredda tra i seni, poi con la stessa precisione applicò la seconda pinza. Il seno si tese, si sollevò. Il corpo rispose con una contrazione del ventre, delle cosce, dei fianchi. Ora era legata anche lì. Ogni movimento della catena avrebbe tirato entrambi i capezzoli, tenendola al guinzaglio del dolore.
Lorena si chinò e le sussurrò sulla bocca:
“Ogni volta che ti muoverai, sentirai cosa sei diventata. “
Poi si allontanò di un passo e aprì la frusta. Cuoio intrecciato, corta, compatta, con punte affilate ma elastiche. La fece vibrare nell’aria, un sibilo appena percettibile. Poi la lasciò cadere sulla coscia sinistra, leggera.
Solo un assaggio.
Un altro colpo, un po’ più deciso, sull’addome.
Poi, d’improvviso, uno secco, forte, sull’interno del gluteo. Princy sobbalzò, la catena oscillò, le pinze strinsero.
Un singhiozzo le sfuggì dalla gola. Ma non parlò. Non chiese pietà.
Lorena ruotò la frusta nella mano. Colpì il seno destro, a lato, poi quello sinistro, centrando la pinza. Il metallo vibra. La pelle brucia.
Poi la voce, tagliente:
“Fammi vedere fino a dove puoi arrivare, Princy. Fallo tu. Prima che lo faccia io. “
Un altro colpo, sotto i glutei. Poi un altro, verticale, che risale la coscia e si ferma a un millimetro dal sesso.
Il corpo di Princy ormai non è più suo. È di Lorena. E lo sa.
Lorena le girava attorno lenta, la frusta ancora tra le dita, pendente come la coda di un animale paziente. I colpi si erano fermati, ma l’aria ne portava ancora l’eco. Princy tremava, più dentro che fuori, il respiro tagliava l’aria in fiotti brevi. La catena tra i seni si muoveva appena, oscillando con il ritmo del cuore.
Lorena si fermò di fronte a lei. La osservò un attimo in silenzio. Poi le prese il mento con due dita, come si fa con un oggetto fragile. Le sollevò il viso bendato.
Le sussurrò contro la bocca, con un fiato che odorava di cuoio e rossetto.
“Dimmi cosa sei. “
Princy non parlò. Il silenzio le si era aggrappato alla gola. Le mani legate le tremavano appena. La bocca si era aperta, ma niente usciva.
Lorena non insistette. Le sfiorò le labbra con il pollice, appena. Poi la voce si fece più bassa, più tagliente.
“Voglio una sola parola. Una.
Se è quella giusta, ti toccherò.
Se menti ti spezzo. “
Un battito.
Poi un altro.
Princy sentiva il mondo ondeggiare. Non per la benda. Non per la posizione. Ma per la voce che la spingeva dentro, la costringeva ad aprirsi. A confessare. A dire quella parola.
La parola che le aveva bruciato la gola tante volte. Che le aveva fatto godere tra le lenzuola, ma che non aveva mai osato pronunciare ad alta voce.
La parola che le apparteneva.
La bocca si mosse. Si richiuse. Si mosse di nuovo.
E poi lo disse.
Sottovoce. Ma chiaro. Senza scampo.
“Sono una troia. “
Lorena sorrise. Lentamente.
Le dita le lasciarono il mento.
Le si avvicinò all’orecchio.
“Brava. “
Poi, un morso secco al lobo. Forte. Possessivo.
Princy ansimò. Il dolore fu un lampo. Ma il piacere fu immediato. Quasi un collasso.
“E ora “ sussurrò Lorena, calda come un veleno dolce,
“dimmi cosa vuoi che ti faccia. “
La voce di Princy scivolò via, impastata dal respiro. Il buio della benda la faceva parlare come se fosse sola, come se ogni parola venisse da un altare sotterraneo.
“Voglio che mi prendi.
Che mi pieghi.
Che mi usi.
Che mi marchi.
Voglio sentire il tuo fiato sul collo mentre mi apri.
Voglio sentire la tua saliva tra le gambe e la tua voce nella testa.
Voglio che mi dici cosa sono mentre mi possiedi.
Voglio essere stesa, nuda, con le gambe aperte per te e solo per te. “
Ogni frase era più calda, più sincera, più bruciante.
“Voglio perdermi.
Ma nelle tue mani.
Voglio che tu mi renda tua, e che io non abbia più modo di tornare indietro. “
Poi tacque. Il petto si alzava e si abbassava a scatti.
Non piangeva. Non rideva. Non fingeva.
Era lì, completamente esposta.
E non c’era più niente da nascondere.
“Lo farò “ sussurrò Lorena all’orecchio, la voce rovente di piacere e minaccia.
“E farò anche di più. “
Il rumore della frusta anticipò il colpo, ma non lo rese meno violento. La pelle di Princy schioccò sotto l’impatto, un gemito le salì alla gola e fu subito respinto. La frusta colpì ancora, stavolta più in basso, sulla curva del gluteo, poi ancora, sull’interno coscia, in un crescendo che scaldava l’aria.
Lorena lanciava i colpi con precisione chirurgica, senza mai perdere la misura, senza lasciarsi andare. Solo quanto bastava. Solo dove serviva. Quando si fermò, il corpo di Princy era lucido, teso, vivo come non mai.
Poi, come se nulla fosse, le infilò una mano tra le gambe. Due dita. Secche. Decise.
Princy ansimò. Un suono strozzato, sporco, le uscì dalla bocca senza il suo permesso.
Lorena la accarezzò, lenta, come se stesse valutando. Poi premette. Le dita affondarono nel sesso gonfio, bagnato fino all’osso. Il rumore era quello della carne umida, pulsante.
“Senti quanto sei bagnata “ sussurrò, la voce piena di ironia e possesso.
“La principessa gode a farsi legare. La piccola troia legata, con i capezzoli stretti e le gambe aperte “
Continuò a toccarla. A stuzzicarla. Un dito tra le labbra. Un altro sul clitoride. Il ritmo era lento, ma calcolato. Sapeva esattamente dove premere, quando. Princy cominciò a gemere, piano. Non poteva più nasconderlo.
Lorena le si appoggiò contro, la bocca all’orecchio, la frusta ancora calda contro la pelle tesa.
“E se adesso ti caricassi in macchina così come sei? Con la catena che ti penzola tra i seni, la frusta in mano e la figa che gocciola e ti portassi in giro per il paese? Che ne penseresti? Eh? “
Un colpo più deciso sul clitoride. Il corpo di Princy si tese tutto. Il fiato le si bloccò in gola. Un gemito lungo, gutturale, la attraversò.
Lorena le massaggiava il sesso, più rapido ora, le dita affondavano, scorrevano, la pelle bruciava, i muscoli tremavano. Princy era lì, a un soffio dal crollo, le gambe bloccate ma pronte a spezzarsi.
E proprio allora, Lorena si fermò.
Tolse la mano, lenta.
Il silenzio fu un colpo secco quanto la frusta.
“Non così in fretta. “
Un passo indietro.
La voce, ferma. Decisa.
“Se vuoi godere te lo dovrai guadagnare. “
E Princy rimase lì. In piedi. Bendata. Spezzata. Affamata.
Lorena si mosse lentamente, il passo sicuro e silenzioso sul parquet. Si guardò attorno con lo sguardo di chi sa già cosa cercare. Lo vide: un vecchio gancio, probabilmente rimasto lì dopo la rimozione di un lampadario.
Lo raggiunse. Aprì il borsone, tirò fuori una corda morbida ma resistente, scura, curata. Le dita si mossero rapide, sicure. La fece passare all’interno del gancio, poi tornò verso Princy, che era ancora lì, immobile, tremante, il corpo umido, scosso, ancora gonfio di un piacere negato.
Lorena prese il capo della corda e lo fissò alle manette ai polsi, legati davanti a lei.
Poi iniziò a tirare.
Princy sentì le braccia sollevarsi lentamente, lo sforzo nei muscoli delle spalle. La tensione cresceva, costante. La punta dei piedi cominciò a sollevarsi dal pavimento. Il petto si apriva, il seno si tendeva, le pinze stringevano ancora di più. Ogni centimetro era una resa.
Lorena tirò finché solo le dita dei piedi di Princy toccavano il pavimento, come un’eco di equilibrio destinata a cedere da un momento all’altro.
Il corpo pendeva. Nudo. Offerto. Tirato.
E completamente suo.
Lorena si avvicinò. Le camminò intorno, lentamente, osservandola come si guarda una scultura fatta di carne e sudore. Poi, con voce bassa ma tagliente, parlò all’orecchio, sfiorandole appena la guancia.
“Era così che volevi mi sottomettessero, vero?
Appesa. Nuda. Le gambe divaricate, le mani legate sopra la testa.
Come una troia da punire. “
Fece una pausa.
Poi, con una lama di ghiaccio nel tono, aggiunse:
“Adesso invece tocca a te. “
Fece scorrere un’unghia lungo la spina dorsale esposta di Princy, dall’alto in basso. Lei rabbrividì, il fiato spezzato, il ventre contratto.
Lorena si portò dietro di lei.
Le sfiorò i glutei. Li strinse. Poi li aprì appena, con entrambe le mani.
“Volevi che mi spaccassero il culo, no? “
La voce era più vicina, come un soffio tagliente.
“Vedremo cosa succederà al tuo. “
Lorena si fermò dietro di lei. Le mani si abbassarono lungo i fianchi, la frusta pendeva inerte, la corda tesa sopra la testa di Princy scricchiolava leggermente sotto il peso del corpo sospeso. Ma lei non si mosse. Non toccò. Non parlò. Restò immobile.
Solo il suo sguardo si muoveva. Scivolava lento sul dorso esposto, sui glutei leggermente aperti, sulla catena che oscillava appena tra i seni tesi. Il respiro di Princy si fece più affannoso. Ogni secondo che passava senza un gesto diventava un tormento. L’aria sembrava più calda, il sudore colava tra le scapole, scendeva verso i fianchi.
Lorena la stava guardando. Come si guarda una creatura appesa in vetrina. Ogni tanto le si avvicinava di mezzo passo, poi tornava indietro. Un movimento minimo. Ma devastante. Faceva sentire Princy nuda anche dentro, sezionata dallo sguardo.
Il tempo si allungava. Il buio della benda accentuava ogni respiro, ogni battito, ogni fitta di tensione muscolare.
Lorena taceva.
Princy si morse le labbra. Il desiderio le bruciava tra le gambe, la corda le tirava le braccia fino al limite, ma non era il dolore il problema.
Era il silenzio.
Si sentiva gonfia, tesa, vuota. E quella vuotezza poteva riempirsi solo in un modo.
La voce le uscì bassa. Raschiata dalla gola. Inizialmente solo un suono, poi parole.
“Ti prego dimmi cosa devo fare.
Fammi tua. “
Il corpo di Princy pendeva, leggermente tremante, solo la punta dei piedi a cercare equilibrio su un pavimento che non le apparteneva più. Le braccia tirate verso l’alto, i seni tesi, le pinze che mordevano i capezzoli, la catena gelida che danzava tra le curve del petto. Lorena era lì, in silenzio, a guardarla. Sempre più vicina, eppure immobile.
Princy sentiva il cuore batterle ovunque. Ma il silenzio, quella calma implacabile, la costringeva a fare qualcosa che non aveva mai fatto. Parlare. Davvero. Dire la verità.
La voce le uscì rotta dal respiro, ma nitida.
“Non volevo distruggerti. Volevo essere come te. “
Lorena non disse nulla.
“Ti ho odiata. Ma non era odio. Era invidia.
Perché tu tu non ti sei mai fatta spezzare.
Ti sei fatta usare, sì. Esibire, scopare, dominare
ma eri tu a decidere. Sempre.
Io invece ho sempre avuto paura.
Di crollare, di vergognarmi, di essere guardata davvero. “
Le parole scorrevano, fluide ora, come se aspettassero da sempre di uscire.
“Io ti ho invidiata.
Perché tu sei dominante anche quando sei in ginocchio.
Perché non chiedi mai scusa a nessuno.
Perché ogni uomo che ti prende lo fa solo perché glielo permetti tu. “
Fece un respiro più profondo, le spalle le si sollevarono sotto la tensione della corda.
“E ora sono qui
legata, appesa, nuda
perché l’unico modo che ho trovato per somigliarti
è lasciarmi dominare da te. “
Tacque. La testa leggermente piegata, il respiro teso.
Ma non c’era vergogna in quelle parole.
Solo una resa piena. Lucida. Desiderata.
Lorena restò ancora un istante a fissarla, poi le mani cominciarono a muoversi, lentamente. Salirono lungo le cosce tese di Princy, si insinuarono tra le sue ginocchia tremanti, aprendole con una fermezza che non ammetteva resistenze. Le dita scivolarono con autorità lungo la pelle umida, sentendone il calore, la tensione, il bisogno. Non era una carezza, non era un’esplorazione: era una presa. Come se volesse leggerla da dentro.
Princy ansimò appena, un suono rotto che le sfuggì dalle labbra socchiuse. La benda le nascondeva il mondo, ma sentiva tutto: il respiro di Lorena che si faceva più profondo, le dita che la separavano con lentezza chirurgica, la pelle che reagiva a ogni passaggio come percorsa da una scossa sottile. Lorena trovò il punto preciso e cominciò a sfiorarlo. Non con dolcezza, ma con maestria. Ritmica. Inarrestabile.
Le dita premevano e scivolavano, affondavano e tornavano in superficie, giocando con i suoi tempi, accendendola e frenandola, come se stesse suonando uno strumento. Le mani si alternavano, una che comandava, l’altra che stringeva le natiche, che le graffiava la pelle, che la teneva aperta. Il corpo di Princy si tese, poi si contrasse, poi tremò.
Non riusciva a parlare. Il respiro si era trasformato in piccoli gemiti spezzati, sempre più alti, sempre più disperati. Era nuda, appesa, completamente offerta. Eppure, mai così sua. L’orgasmo arrivò improvviso, profondo, liquido. Le gambe le cedettero, il corpo si irrigidì, poi si abbandonò, appeso alle braccia tirate in alto. Un grido le uscì dalla gola, non forte, ma pieno. Non cercava di trattenersi. Non poteva.
Lorena la guardò tremare. Poi avvicinò il viso al suo, e sussurrò. “Questo era solo l’inizio. “
Tornò al borsone poggiato a terra e lo aprì con calma, quasi con un certo rispetto per ciò che conteneva. Affondò la mano all’interno, tra tessuti e oggetti dal significato ormai evidente, e ne estrasse un simulacro fallico, lungo e spesso, con un piattello sul fondo. Lo sollevò con due dita, come si farebbe con un trofeo.
Princy non poteva vedere. Ancora bendata, ancora sospesa, sentiva solo i movimenti, il suono del metallo contro la pelle, l’odore dell’aria che cambiava. Solo quando Lorena gliela tolse, la benda, gli occhi si riabituarono lentamente alla luce.
Davanti a lei, quel fallo finto sembrava più minaccioso che mai. Il sorriso di Lorena era sottile, tagliente. Lo portò alla bocca di Princy e glielo porse senza una parola. Lei lo fissò un istante, poi, in silenzio, obbedì. Le labbra si aprirono, leccarono, succhiarono, bagnarono ogni superficie. Lorena non la fermò, la guardò solo dall’alto verso il basso con una calma implacabile.
Quando lo ritenne sufficiente, le sollevò delicatamente il mento con due dita. “Sarà l’unico favore che riceverai oggi, non userò lubrificante, lo sentirai tutto. “ La voce era tornata fredda, limpida. Ma non era più rabbia: era controllo.
Si spostò dietro di lei. Il corpo ancora teso verso l’alto, le braccia tirate sopra la testa, i fianchi leggermente scostati, la schiena offerta. Lorena non disse nulla mentre la penetrava. Princy lo sentiva aprirla e scavarle dentro. Non ci fu fretta, non ci fu dolcezza. Solo precisione. E la consapevolezza di ciò che stava facendo. Quando l’oggetto fu in posizione, un clic impercettibile segnò l’inizio di qualcosa di più profondo, il fallo si allungava e ruotava dentro di lei, con ritmo cadenzato ma mai uguale a prima, le scavava nell’intestino come se fosse una trivella, il piattello lo bloccava e lo sfintere lo imprigionava dentro.
Princy sussultò. Il corpo la tradì subito. Le ginocchia si piegarono, il fiato le si spezzò. Il piacere era mescolato alla paura, al pudore, all’esibizione. Lorena tornò davanti a lei e si sedette con grazia sul divano, le gambe accavallate, il busto leggermente inclinato in avanti. In mano, il telefono.
Premette il tasto della videocamera. Non per umiliarla, ma per restituirle ogni singola immagine del suo desiderio finalmente dichiarato. “Era questo che dovevano farmi, vero? “ chiese con un filo di voce, ma sufficiente a tagliare l’aria. “Faccia a terra, senza più difese. Umiliata. E invece ora sei tu. Così. “
Il cellulare inquadrava la pelle arrossata, i muscoli tesi, le labbra semiaperte nel silenzio rotto solo dai gemiti trattenuti. La vibrazione era impercettibile per chi guardava, ma nel corpo di Princy era una tempesta. Lei non rispondeva. Non poteva. Non voleva.
Lorena la osservava. Non con odio. Con autorità. Con uno sguardo che diceva: sei mia. E lo sei sempre stata.
Lorena restò seduta sul divano ancora per qualche istante, le gambe accavallate, lo sguardo fisso su Princy che si contorceva in silenzio. Ogni respiro era più profondo, più irregolare, più disperato. Ma non per il dolore. Quello era già stato assorbito. Ora era l'attesa, l'impotenza, la resa dei sensi a tenerla sospesa.
Poi, con naturalezza, Lorena si alzò. Camminò scalza sul parquet, senza fretta, senza rumore. Aprì il mobile bar, ne estrasse una bottiglia bassa e larga, con vetro spesso e liquido ambrato. Si versò una dose abbondante di Cognac, lo ruotò con un gesto lento nel bicchiere ampio e si portò il vetro alle labbra. Bevve un sorso solo, lasciando che il calore del liquido si mischiasse al fuoco che aveva nelle vene.
Tornò da lei.
Si chinò piano, sfiorando il suo fianco con le dita ancora fredde del cristallo. Si avvicinò all’orecchio, sentì il calore del respiro di Princy che le accarezzava la guancia. La bocca si aprì appena, e le parole arrivarono in un sussurro, più tagliente di qualsiasi colpo.
“Ti piace, principessa? “
Princy gemette. Un suono gutturale, spezzato, quasi un sì senza voce. Il corpo le tremava, le punte dei piedi faticavano a trovare appoggio. Ma la macchina dentro di lei non conosceva stanchezza, non rallentava, non si fermava. La stava possedendo come nessun essere umano avrebbe potuto.
Lorena sorrise appena. Si rialzò, un sorso di Cognac ancora sulle labbra.
Lorena si alzò dal divano, posò il bicchiere vuoto e camminò verso di lei. Ogni passo sembrava più lento del precedente, come se volesse godersi ogni secondo di quel momento. Princy era ancora sospesa, la pelle tesa, il corpo completamente esposto, il respiro ormai ridotto a piccoli soffi spezzati. Il dildo continuava a lavorare nel punto più profondo, ma non bastava. Non più.
Lorena si chinò, le mani scivolarono lungo l’interno delle cosce di Princy, risalendo lente, calde, decise. Una carezza che era già un possesso. E poi le dita si fecero più precise, si insinuarono tra le pieghe gonfie e lucide, già inondate, già tremanti.
Il primo tocco fu lieve, solo un assaggio. Ma bastò a farle piegare la schiena in avanti. Lorena sorrise.
“Ah, quindi non ti bastava la mia punizione cercavi questo, principessa? Il mio tocco? “
Non aspettò risposta. Un dito entrò dentro di lei, lento, profondo. Poi un secondo, curvato nel punto esatto. Il palmo premeva dall’esterno, mentre il polso si muoveva con movimenti lenti ma costanti, esperti, crudeli nel loro sapere esattamente dove affondare. Il corpo di Princy divenne liquido. Un misto di tensione e abbandono. Un’anima slegata dal corpo.
Lorena la guardava mentre la stava facendo a pezzi.
“Guarda come godi guarda cosa sei diventata. “
Le dita affondavano, giravano, premevano. Sempre più veloci, sempre più profonde. Ogni suono che usciva dalla bocca di Princy era un grido strozzato, ogni respiro era un’esplosione che non trovava via d’uscita.
Fino a che non resistette più.
Il corpo si tese come una corda pronta a spezzarsi. La testa cadde all’indietro, la bocca si aprì in un silenzio devastante, e le gambe si irrigidirono mentre una scossa la attraversava dal ventre in fuori, strappandole un orgasmo violento, assoluto, disarmante. Uno di quelli che non si scelgono, ma che si subiscono. Che ti rovinano. Che ti liberano.
Lorena non smise subito. Continuò a muovere le dita, più lentamente, facendo vibrare ogni residuo di piacere fino all’ultima goccia. Poi le estrasse con delicatezza. E le portò alla bocca.
Le leccò. Tutto. Senza distogliere lo sguardo.
“Sei mia. Ora, per sempre. “
Princy non rispose. Non ce la faceva.
Ma nei suoi occhi — spalancati, lucidi, pieni — la resa era totale.
Premette il pulsante.
“Chi è? “
Un attimo di silenzio. Poi, una voce femminile, profonda e calma, quasi troppo perfetta per essere vera.
“Lorena. “
Princy aggrottò la fronte.
“Scusi, la conosco? “
“No. Ma dovresti. “
Il tono non era minaccioso, né supplichevole. Solo fermo. Come se l’incontro fosse inevitabile, già scritto.
Princy esitò un secondo, poi premette il tasto di apertura.
“Un attimo, scendo. “
Attraversò il corridoio e si infilò un paio di ciabatte da casa, incurante del fatto che fossero consumate e spaiate. Il sudore sotto la canotta bianca le si stava già asciugando, lasciando chiazze opache sul tessuto leggero. I ciclisti neri, lucidi e aderenti, erano ancora incollati alla pelle, accentuando ogni movimento, ogni piega del corpo.
Spalancò la porta e uscì sul vialetto. Il sole colpiva le pietre chiare dell’ingresso, e il verde brillante dell’erba tagliata di fresco contrastava con l’asfalto scuro del parcheggio esterno.
Girò l’angolo, superò la siepe. E si fermò.
Appena fuori dal cancello, con una mano mollemente poggiata sul montante della Mini Cooper rossa — tettuccio bianco, bonnet stripes nere — c’era lei.
Una donna che non aveva mai visto, ma che sembrava uscita da un sogno lucidissimo. O da una pagina scritta.
I leggings neri lucidi, infilati con precisione chirurgica nel solco dei glutei, catturavano ogni curva come fossero stati dipinti addosso. Le gambe, slanciate, poggiavano su tacchi a spillo in acciaio, lucidi e altissimi, che rendevano ogni suo gesto una dichiarazione d’intenti.
Il busto era avvolto in un corpetto in pelle nera, sagomato in modo da esaltare ogni centimetro del seno abbondante, florido, sollevato con orgoglio. Sopra, una giacca corta alla vita, di cotone pettinato con rifiniture in raso lucido, lasciava scoperta una porzione perfetta di addome teso e femminile.
I capelli biondi erano raccolti in una coda alta, tiratissimi, come se nessun capello avesse il diritto di deviare dal disegno. Il trucco era scuro, quasi gotico: eyeliner marcato, ombre profonde sulle palpebre, rossetto nero lucido che metteva in risalto la bocca piena, scolpita, inquietante.
Una collana d’acciaio semirigida le abbracciava il collo e poi scivolava, con dolcezza brutale, nel solco profondo tra i seni.
Princy si fermò a tre metri da lei, col fiato bloccato e il battito accelerato. Guardò la Mini, poi tornò su quella figura irreale. Deglutì.
“Ci conosciamo? “
Lorena sorrise appena. Ma era un sorriso che non aveva nulla di gentile.
“Tu no. Ma io sì. “
Princy fece un passo indietro, ma la curiosità aveva già vinto.
“Scusa, non ti seguo. “
Lorena allora la guardò dritta negli occhi, senza spostare nemmeno un muscolo del viso.
“Hai letto tutti i miei racconti.
Hai contribuito a crearli.
Noi due dobbiamo parlare. “
Princy non seppe cosa rispondere. Rimase immobile, le mani lungo i fianchi, lo sguardo fisso su quella donna che sembrava aver preso forma dai suoi pensieri più oscuri, più nascosti. Il silenzio che seguì non era imbarazzato: era denso, carico, come se ogni secondo aggiungesse un dettaglio invisibile a quell’apparizione.
Poi fece un passo verso il cancello e, quasi senza rendersene conto, allungò la mano sul chiavistello del pedonale, facendolo scattare.
Lorena la guardò ancora. Lo stesso sguardo tagliente di prima, ma questa volta con un accenno di sorriso — non di cortesia, ma di consapevolezza.
Fece un mezzo passo in avanti, poi si fermò, accennando con il mento e con un gesto lento e preciso verso la Mini rossa alle sue spalle.
“Dove vado io viene Red. “
Il tono era piatto, come se si trattasse di un’evidenza assoluta. “Red” pronunciato con un’intimità disarmante, come se quell’auto fosse una parte viva del suo corpo.
Princy sgranò leggermente gli occhi. Un fremito le percorse la schiena, e le sue labbra si mossero prima ancora di aver deciso cosa dire.
“Va va bene. “
La voce le uscì sottile, incerta.
Girò sui talloni, fece due passi e aprì anche il cancello carraio, facendolo scorrere con un rumore metallico che sembrò troppo forte, quasi irriverente in quella scena così irreale.
Lorena non disse nulla. Salì sulla Mini con una grazia che non aveva nulla di umano: nessun movimento superfluo, nessuna esitazione. Il rombo del motore riempì subito l’aria. Grave, profondo, preciso.
Avanzò lentamente, con la testa alta e lo sguardo puntato su Princy, che si era scostata sul bordo del vialetto. Le ruote scorsero sull’acciottolato con un suono ovattato e sicuro, la carrozzeria rossa brillava al sole come se non avesse mai conosciuto la polvere.
La Mini si fermò a pochi metri dalla porta d’ingresso. Il motore si spense. La portiera si aprì con un clic secco, come se fosse parte di un rituale già scritto. Lorena scese, e il rumore dei suoi tacchi sull’acciottolato fu come una firma.
Red si chiuse alle sue spalle con un colpo deciso.
Lorena si voltò a guardare Princy.
Non disse nulla.
Non ne aveva bisogno.
Le due donne restarono a guardarsi in silenzio, a pochi metri di distanza, immobili, come se l’aria attorno si fosse fatta densa, rallentando il tempo.
Lorena, perfetta nella sua presenza imponente, con i leggings lucidi infilati nel solco dei glutei e il corpetto in pelle che sollevava con orgoglio il seno florido, non mostrava fretta. I tacchi in acciaio affondavano lievemente nei giunti tra le pietre del vialetto, ma il suo equilibrio era totale. Il volto truccato di scuro, scolpito e immobile, sembrava studiato per dominare quello di chiunque osasse fissarla troppo a lungo.
Princy, ancora in canotta sudata e ciclisti da corsa, con le ciabatte spaiate ai piedi, si sentiva minuscola. Cercò di sostenere quello sguardo, ma era troppo. Lo reggeva un secondo appena, poi lo sfuggiva come un animale selvatico, esitante. Alla fine, abbassò lo sguardo. La voce le uscì più bassa del solito.
“Vuoi entrare? “
Nessuna risposta.
Lorena si voltò senza dire nulla, fece scattare il bagagliaio della Mini. Il portellone si sollevò lentamente. Con calma studiata, tirò fuori un borsone nero rigido, pesante, con inserti in pelle e cerniere d’acciaio. Lo afferrò con una sola mano, senza sforzo apparente. Poi richiuse il bagagliaio con un colpo secco e tornò a guardarla.
Il sorriso le era scomparso dalle labbra. Rimaneva solo quel tono di comando innato, silenzioso, che aleggiava intorno a lei come profumo.
“Andiamo? “
Lo disse senza affanno, ma non ammetteva replica.
Princy annuì piano. Voltandosi verso la porta, non riuscì a trattenere un brivido che le percorse la schiena, anche se faceva caldo.
I tacchi di Lorena ricominciarono a battere sull’acciottolato, lenti e sicuri. Il rumore metallico sembrava scandire l’inizio di qualcosa che Princy non avrebbe saputo nominare.
La porta si richiuse alle loro spalle con un tonfo sordo. Dentro, l’aria era più fresca, ma la tensione restava intatta, sospesa come una corrente sottile che attraversava ogni stanza.
Princy si fece da parte con un gesto quasi goffo, indicando con la mano la sala, senza trovare davvero le parole. Lorena avanzò senza bisogno di guida. Posò il borsone accanto al divano in velluto chiaro, poi si voltò verso di lei, osservando l’ambiente con uno sguardo lento, che sembrava penetrare le pareti. Ma non disse nulla.
Princy deglutì. Cercò di recuperare un minimo di padronanza.
“Posso offrirti qualcosa? Da bere o qualcosa da mangiare, se “
Lorena la interruppe senza alzare la voce.
“Non sono qui per bere. Né per mangiare. Non al momento. “
Poi la guardò dritta negli occhi, con un’espressione neutra ma inesorabile, e aggiunse:
“Mi auguro solo che tu stia per andare a farti una doccia. Sei impresentabile. “
La frase cadde come un giudizio scolpito nella pietra. Non c’era rabbia, né sarcasmo. Solo un’oggettività nuda, spietata, come se stesse constatando il tempo o l’ora.
Princy rimase pietrificata per un istante. Sentì il sangue salirle alle guance, ma non per l’umiliazione. Era qualcos’altro. Qualcosa di più profondo.
Abbassò appena lo sguardo, poi lo rialzò, incerta. Avrebbe potuto rispondere. Avrebbe potuto ribattere. Ma non lo fece.
Disse solo:
“Faccio in un lampo. “
Poi si voltò e sparì lungo il corridoio, a passo svelto. Ogni suo movimento le sembrava goffo, scomposto. Sentiva gli occhi di Lorena su di sé anche da lontano, anche con le pareti in mezzo. Come se potesse seguirla ovunque.
Nel bagno, mentre apriva l’acqua, si rese conto di stare trattenendo il respiro.
Il getto caldo della doccia scrosciava sul suo corpo, rimbalzando sulla pelle accaldata e portando via il sudore della corsa. Princy chiuse gli occhi, lasciando che l’acqua le colasse lungo le tempie, sulle spalle, tra le scapole. Ma per quanto lavasse via il sale, non riusciva a scrollarsi di dosso la presenza di Lorena.
Era rimasta impressa nella stanza. Nella casa. In lei.
Il trucco scuro, lo sguardo tagliente, i tacchi che risuonavano nel vialetto ma soprattutto, quella frase: “Sei impresentabile.”
Si passò una mano tra i capelli bagnati e tirò un respiro profondo. All’inizio, si era sentita piccola, dominata, quasi soggiogata da quella presenza tanto scenica quanto reale. C’era qualcosa in Lorena che toglieva fiato, che la faceva sentire nuda anche vestita.
Ma ora qualcosa stava cambiando.
Aprì gli occhi. Nello specchio appannato intravide la propria figura. Le spalle tese. Il mento sollevato. Gli occhi azzurri fissi nei suoi.
Ma questa chi si crede di essere?
Uscì dalla doccia e si asciugò in fretta, con gesti rapidi, nervosi. Il corpo era ancora umido quando si infilò il suo solito perizoma nero minimale, sottile, invisibile sotto gli abiti, ma perfetto per farla sentire ancora padrona di sé.
Scelse un abitino estivo semplice ma deciso: tessuto leggero color sabbia, corto, senza maniche, con la schiena scoperta e un’allacciatura sottile dietro al collo. La stoffa le cadeva morbida sulle anche, lasciando intravedere le curve con naturalezza, senza ostentazioni.
Non si truccò. Non ne aveva bisogno. Si passò solo un dito sulle labbra, per levare ogni residuo d’acqua. Poi si guardò allo specchio un’ultima volta.
E lì esplose dentro di sé la domanda.
Con che coraggio? Con che diritto entra a casa mia e mi dice cosa devo fare?
Il battito del cuore accelerò. Lo sentiva pulsare nel collo, tra le tempie.
Afferrò al volo una molletta e si fermò sulla soglia della scala.
Un respiro.
Poi scese. Decisa. Ogni gradino era una dichiarazione.
Lorena era ancora lì, seduta con una gamba accavallata e il busto eretto come se stesse presiedendo un’udienza.
Appena la vide, Princy non aspettò. Le parole uscirono in un fiotto asciutto, teso.
“Senti, scusami, eh ma tu con che coraggio vieni qui, in casa mia, a comandare, a dirmi cosa devo fare, come devo vestirmi, se sono presentabile o no? “
La voce non tremava. Le mani erano ferme. E i suoi occhi, per la prima volta, reggevano lo sguardo.
Un silenzio carico seguì la domanda.
Lorena non si scompose. Rimase immobile per un istante, come se stesse decidendo se valesse la pena rispondere.
Poi, lentamente, si alzò.
Il corpo si distese con eleganza calcolata, i tacchi ticchettarono piano sul parquet. Non serviva alzare la voce: la sua sola presenza riempiva la stanza.
Allungò la mano verso la sua pochette, estrasse il telefono. Fece scorrere lo schermo con un solo dito, senza guardarlo davvero, come se sapesse già dove andare. Poi, senza alzare gli occhi, lesse.
“Cito. Testuali parole: “Ma inculata duramente almeno quello dai.” “
Il silenzio che seguì fu assordante.
Lorena sollevò lo sguardo. Gli occhi erano pietra fusa, lucidi, fiammeggianti.
“Io stavo donando la mia ultima verginità. L’ultima, capisci?
E tu tu hai scritto al mio Cantastorie di farmi inculare duramente?
Ti rendi conto della gravità della cosa? Della violazione? “
La voce non tremava. Era ferma. Lucida. Inesorabile.
Princy rimase senza parole. Il cuore le martellava nel petto. Sentiva il fiato farsi corto, le spalle abbassarsi, lo sguardo cedere da solo, quasi come un riflesso condizionato.
Sì. Lo aveva scritto.
Quella mattina stessa. In quel messaggio buttato lì, tra il caffè e la doccia, come se nulla fosse. Un gioco, una battuta. O almeno così le era sembrato allora.
Ma com’era possibile? Lei non era reale. Non poteva averlo letto. Non poteva esserne stata colpita.
Non poteva essere qui.
Eppure
Un nodo le serrò la gola. E mentre cercava di raccapezzarsi tra vergogna, rabbia e incredulità, le sfuggì una frase. Bassa. Tagliente. Mezzo sussurro, mezzo veleno.
“Non mi pare ti sia dispiaciuto quando ti ha messo faccia a terra e ti ha inculato a sangue. “
Subito dopo averla pronunciata, si rese conto di ciò che aveva detto. Troppo tardi.
Quando alzò lo sguardo, Lorena era immobile. Il busto appena proteso in avanti. Gli occhi non erano più solo fiammeggianti: erano fuoco puro.
Uno sguardo che poteva bruciare. Ma non solo per rabbia.
Qualcosa stava per succedere.
Qualcosa che Princy non aveva previsto.
Lorena non distolse lo sguardo neanche per un istante.
Sollevò di nuovo il telefono, lo tenne tra le dita come un documento d’accusa, e con voce ancora più ferma, scandita, glaciale, disse:
“Ora sto parafrasando le tue intenzioni, ma con precisione millimetrica. “
Fece una pausa, poi iniziò.
“Fare a pezzi la dirigente tutta d’un pezzo.
Sottometterla.
Farla precipitare in un abisso di prostrazione fisica e morale.
In una spiaggia caraibica, a danzare seminuda in libertà per i giovani indigeni e i loro cazzi. “
Si fermò di nuovo, solo per fissarla con uno sguardo che avrebbe fatto inginocchiare un uomo.
“Senza contare il tentativo andato a vuoto di corrompere anche la mia amica Ale. Se vuoi, la chiamiamo.
Ti dice anche lei cosa ne pensa? “
Fece un passo avanti. Non alzava la voce, ma la stanza si stava restringendo attorno a Princy.
“Ora, mia cara signorina
Visto che sei così volenterosa di infliggere pene agli altrui corpi
Dimmi: cosa dovrei fare con te? “
Silenzio.
Princy, in piedi, con l’abitino estivo addosso e il cuore impazzito, abbassò lo sguardo per un istante. Sentiva la gola secca, le mani tese, le gambe dure.
Ma poi qualcosa dentro di lei si spezzò. O forse si liberò.
Lo sguardo risalì, dritto negli occhi di Lorena. Non più tremante. Non più sottomesso.
Le pupille dilatate, il petto che si sollevava ad ogni respiro. Parlò. E ogni parola fu un colpo.
“Ti sei scopata un collega.
E poi lo hai buttato via. “
Il volto di Lorena non cambiò espressione. Ma qualcosa si incrinò nei suoi occhi.
Princy proseguì, più tagliente.
“Un altro ti ha montata come una vacca in un posteggio, sul cofano di una macchina. E neanche sai come si chiama.
Poi ti sei fatta pagare, come una puttana di strada.
Ti sei esibita davanti a un pubblico adorante, su un piedistallo, prima di farti infilare un pugno in figa.
Ne hai scopati due in un locale. E poi, in un altro, due ti hanno sfondato la figa. “
La voce si spezzò per un istante, carica d’emozione, poi tornò secca, dura, metallica.
“E vieni qui a fare la morale a me?
A casa mia? “
Fece un passo avanti anche lei, lo sguardo acceso, il volto arrossato dal sangue che pulsava forte.
“Dimmi, Lorena cosa mi impedisce di buttarti fuori a calci? “
L’aria nella stanza si fece pesante. Due respiri. Due corpi tesi. Due fuochi pronti ad esplodere.
Ora tocca a Lorena.
E lei non è il tipo da indietreggiare.
Lorena restò immobile. Lo sguardo fermo su di lei. Non una piega sul volto, non un movimento delle labbra. Solo il battito quasi impercettibile delle ciglia, regolare come un metronomo.
Attese che Princy finisse di parlare, che sputasse tutto il veleno che aveva in corpo, fino all’ultima goccia. Non la interruppe. Non si difese. Lasciò che le parole rimbalzassero tra loro, come frecce scagliate nel vuoto.
Poi fece un passo avanti. Non di sfida, ma di presenza. Di sostanza.
La voce che ne uscì fu calma. Dosata. Quasi dolce, se non fosse per l’acciaio che la sosteneva sotto ogni sillaba.
“Sei brillante, sai? Dici le cose come stanno, o almeno come ti piacerebbe che stessero.
Ero curiosa di vedere quando avresti finalmente reagito. “
Le passò accanto sfiorandola appena con la spalla, poi si fermò pochi passi più in là, di spalle. Parlava senza voltarsi, come se conoscesse ogni reazione che stava provocando.
“Tu credi di sapere tutto di me.
Credi che basti un elenco di scopate per definire una donna.
Ma non è me che stai giudicando.
È te che stai difendendo. “
Si girò lentamente, e ora lo sguardo era vivo. Non infuocato. Ma accorto. Attento a ogni nervo esposto.
“Sai cosa mi piace di te, Princy?
Che anche adesso, con la voce tremante e le mani serrate, non riesci a distogliere lo sguardo dal mio.
Neanche per un secondo. “
Un sorriso le attraversò le labbra. Non ampio. Ma pieno.
Poi, un passo più vicino. E infine, la frase.
Secca. Scandita. Inevitabile.
“Se davvero vuoi buttarmi fuori a calci
provaci pure.
Vorrà dire che il dolore che ti voglio infliggere
inizierà prima del previsto. “
E rimase lì. A un metro scarso. Ferma. Disponibile.
A tutto.
Lorena era ferma, la postura perfetta, il respiro calmo, lo sguardo piantato negli occhi di Princy come due spade pronte a ruotare nella ferita.
Princy non rispose. Non arretrò.
Fece un solo passo avanti.
Poi un altro.
Si ritrovarono così, vicinissime. Il respiro dell’una sulla pelle dell’altra. Il silenzio era così denso da sembrare un ruggito trattenuto.
Poi, senza alcun preavviso, Princy le afferrò il viso tra le mani. Forte. Decisa. E la baciò.
Un bacio pieno. Carnale. Rabbioso. Senza dolcezza, senza armonia.
Le labbra si scontrarono. Le bocche si cercarono e si respinsero nello stesso istante. Era rabbia. Era desiderio. Era un atto di guerra.
Lorena rimase pietrificata. Non per paura. Ma per shock.
Non si aspettava un gesto. Non così diretto. Non così fisico.
Quando Princy si staccò, aveva il petto che le si sollevava.
Non disse nulla.
Fece solo un mezzo passo indietro, con gli occhi ancora accesi, carichi di qualcosa che non sapeva nemmeno nominare.
Poi, lentamente, portò le mani alla nuca e sciolse l’allacciatura dell’abito.
Lo fece scivolare lungo il corpo, lasciandolo cadere ai piedi, silenzioso, come un atto definitivo.
Restò in piedi, nuda tranne che per il perizoma. Le spalle dritte, il mento alto, gli occhi lucidi. Le gambe leggermente divaricate, ben piantate a terra. Il seno esposto, il ventre teso, la pelle ancora umida di doccia e di battito.
“Va bene “ disse, con la voce roca, ma ferma.
“Allora inizia.
Vediamo se sei davvero capace.
Ma stavolta non mi inchinerò. “
Lorena non rispose subito. Restò lì, a pochi passi, fissando Princy con occhi carichi di qualcosa che non era rabbia, ma una consapevolezza più profonda, più pericolosa. La osservava nuda, in piedi, con la pelle ancora umida e il respiro irregolare. Una donna che cercava di restare dritta, ma che già vacillava. Un filo invisibile sembrava legarle, ma era Lorena a tenerlo tra le dita.
Poi si mosse. Avanzò con lentezza e con grazia, come se ogni passo fosse parte di un rituale. Sollevò la mano e sfiorò la guancia di Princy con il dorso delle dita, freddo, preciso, lento. Una carezza che non scaldava, ma marchiava. Princy non si tirò indietro. Ma il fremito che la attraversò la tradì.
“Sii gentile, principessa “ mormorò Lorena, con un tono quasi affettuoso, quasi. Il suono di quelle parole si insinuò nella stanza, riempiendola come un profumo troppo forte per passare inosservato.
Poi le rivolse uno sguardo pieno, totale, e continuò: “Vammi a prendere il borsone. “ Lo disse senza forzare nulla, ma con una tale fermezza da non lasciare scampo. Restò immobile, aspettando. Non c’era alcuna necessità di aggiungere altro. Era una richiesta, un ordine, un’inevitabilità.
Poi, con quella calma che sapeva essere la sua arma più affilata, lasciò cadere l’ultima frase: “Se ti inchinerai, non lo so. Ma io ti spezzerò. Qui. E oggi. “
Il cuore di Princy sembrava aver smesso di battere per un istante. La mente le urlava di reagire, ma il corpo già si era mosso. Abbassò lo sguardo, quasi con rabbia verso se stessa, poi si voltò. Non disse una parola. Camminò via, nuda, le gambe tese, le spalle rigide. Ogni passo era un urlo trattenuto.
Raggiunse il salotto. Il borsone nero era ancora lì, a terra, vicino al divano. Lo afferrò con entrambe le mani. Era più pesante di quanto si aspettasse. Quando si chinò per sollevarlo, sentì la tensione inarcarsi lungo la schiena, come se anche il suo corpo sapesse di essere entrato in un gioco molto più grande di lei.
E ora sta tornando. Il borsone stretto tra le mani. Il respiro più profondo.
Lorena la aspetta.
Quando Princy rientrò nella stanza con il borsone stretto tra le mani, trovò Lorena esattamente come l’aveva lasciata: in piedi, immobile, lo sguardo piantato addosso a lei, come se non avesse mai distolto gli occhi nemmeno per un respiro.
Non ci fu bisogno di parole. Lorena prese il borsone, lo appoggiò con cura sul divano e ne aprì la zip con un gesto lento, calcolato. Scostò appena i lembi, come se stesse scoprendo qualcosa di sacro. Le mani affusolate si mossero con precisione assoluta.
Estrasse per prima una barra in acciaio opaco, pesante, che portava alle estremità due bracciali imbottiti in pelle nera, larghi, solidi, con piccole fibbie metalliche. Senza neanche guardare Princy, le porse la barra.
“Apri le gambe. E fissala. “
La voce era calma, quasi morbida. Ma non lasciava alternative. Princy obbedì, piegandosi in avanti per quanto le sue ginocchia tese glielo permettessero. Prese la barra e cominciò a lavorare con le fibbie, una alla volta. Quando le serrò entrambe, le gambe rimasero spalancate, divaricate da quella barra rigida che non lasciava spazio a esitazioni. La nudità si fece più esplicita, più reale. Il respiro le scivolava fuori a fiotti brevi, irregolari.
Lorena non disse nulla. Solo allora prese la seconda cosa: una benda in seta nera. La svolse lentamente, facendola scivolare tra le dita come se stesse soppesando il momento. Poi si avvicinò, e con un gesto misurato la posò sulla fronte di Princy, abbassandola delicatamente sulle palpebre.
Il mondo svanì. La luce si chiuse. Il buio diventò assoluto. Princy inspirò forte. Non poteva più vedere nulla. Solo sentire.
Il suono dei tacchi di Lorena si avvicinò di nuovo. La donna prese infine le manette. Pelle nera, cinghie sottili, metallo vivo. Le prese le mani con cura fredda e le portò davanti al corpo. Le chiuse con precisione, una dopo l’altra. Le fibbie strinsero i polsi, lasciando quel piccolo spazio tra pelle e cuoio che diceva: è stato pensato per durare.
“Brava “ disse Lorena a bassa voce, a pochi centimetri dal suo volto. Il tono era strano: non freddo, non affettuoso. Solo inevitabile.
Princy deglutì. Il cuore le martellava in petto. Non aveva più controllo sulle gambe, non sulle mani, né sulla vista. Rimaneva solo il suono. Il respiro. La pelle. E lei.
Lorena si mosse solo quando tutto fu perfetto: le gambe bloccate, la benda a oscurare ogni cosa, le mani legate davanti come un’offerta muta. Il corpo di Princy era immobile, ma solo in apparenza. Sotto la pelle, il sangue correva impazzito. I sensi erano spalancati, ogni minimo suono vibrava come un urlo.
Lorena le si avvicinò da dietro, senza toccarla subito. La osservò in silenzio, il respiro lento, le mani rilassate lungo i fianchi. Poi, con un solo movimento fluido, le passò la mano sulla schiena, poi lungo il fianco, disegnando con le dita il profilo del ventre, scendendo fino a sfiorare l’elastico del perizoma. Non si fermò.
Le dita si chiusero sul laccetto sottile.
E lo strappo fu secco, improvviso, violento.
Un colpo deciso che fece scattare il corpo di Princy in avanti. Il perizoma si spezzò di netto, le estremità scivolarono sulle cosce, cadendo a terra come un simbolo inutile. Un suono breve, tagliente. Poi di nuovo il silenzio.
Il corpo nudo ora era completamente offerto. Esposto. Senza difese.
Lorena si abbassò per sussurrarle all’orecchio, con un tono calmo, quasi tenero.
“Non emettere un suono. Neanche uno. “
Le parole non erano un consiglio. Erano una legge.
Poi cominciò. Le mani si mossero leggere, appena un tocco. La punta delle dita che accarezzava l’incavo del collo, la spalla, poi il seno, senza mai afferrarlo. Solo passare. Sfiorare.
D’improvviso, uno schiaffo secco sul seno sinistro. Un colpo netto, non devastante, ma abbastanza per far sobbalzare tutto il corpo. Il rumore esplose nell’aria. Ma Princy rimase zitta.
Poi di nuovo una carezza, sul ventre, lenta. Un respiro. Il suo.
Poi un altro schiaffo, sull’interno coscia, da sinistra a destra, con il dorso della mano. Princy sussultò. Ma si trattenne.
Lorena si portò davanti a lei. Le prese il mento con due dita e lo sollevò appena.
“Non stai respirando “ sussurrò.
Poi, piano, portò la bocca a pochi millimetri dalla sua.
“Inspira. Ora. “
Princy obbedì. L’aria le entrò nei polmoni come fuoco. Le gambe le tremavano, ma la barra le teneva spalancate. Le mani serrate davanti, inerti. Il corpo umido, lucido, teso fino allo spasmo.
“Trattieni. “
Silenzio. Un battito. Due. Tre.
“Espira. “
Lorena le prese un capezzolo tra le dita. Lo strinse, non troppo, ma abbastanza da farla gemere.
“Zitta. “
Il comando fu sussurrato, ma assoluto.
Poi il respiro riprese, sotto controllo. A tratti. Ogni volta guidato da Lorena. E tra un respiro e l’altro, un colpo. O una carezza. Un morso sulla clavicola. Una carezza sul ventre. Uno schiaffo sull’altro seno. Nulla era regolare. Nulla era prevedibile.
Princy era in balia di lei.
Ma era esattamente dove aveva sempre voluto essere.
Lorena si mosse intorno a lei come un’ombra precisa. Ogni passo, ogni gesto, ogni respiro aveva un peso. Il corpo di Princy era lì, in piedi, forzatamente aperto, le mani legate davanti, gli occhi coperti da quel velo nero che rendeva ogni secondo eterno. Ma dentro, la mente galoppava, il sangue martellava, e il sesso pulsava come se avesse preso vita propria.
Lorena si avvicinò ancora. Le passò una mano lungo la schiena, poi la aprì di colpo, colpendole con forza un gluteo. Uno schiocco netto, sordo, che rimbalzò contro le pareti. Princy si contrasse tutta, il busto scattò in avanti, le labbra si aprirono in un gemito trattenuto, appena un fiato.
Un secondo colpo, più forte, sull’altro lato. Pelle contro pelle, carne che arrossisce all’istante. Lorena le sussurrò: “Sei ancora troppo rigida. Ti voglio liquida. “
Le afferrò i capelli, li tirò verso l’alto, facendole sollevare il viso bendato. La bocca si aprì di riflesso, ma non emise un suono.
Lorena sorrise.
“Non sei brava. Sei obbediente. C’è una differenza. “
Poi le infilò una mano tra le gambe, la percorse senza pietà, con un solo dito, diretto, affondato con decisione.
“Bagnata come una cagna. “
Non era una domanda. Era una constatazione chirurgica. Poi la mano si ritirò, sparì, e la lasciò lì, pulsante, gonfia, priva di appoggio.
Uno schiaffo violento al seno destro. Poi l’altro. Poi ancora un altro, sempre più rapido, più forte. Il corpo di Princy ondeggiava, scosso, tremante, ma non cedeva. Resisteva. Forse per orgoglio. O forse perché voleva il colpo successivo più del precedente.
Lorena si abbassò. Le afferrò le caviglie con entrambe le mani, serrandole sui bracciali fissati alla barra. Poi si risollevò di scatto e con un gesto rapido le colpì l’interno coscia con la mano aperta, tre volte, da sinistra a destra, sempre più in alto. Ogni schiaffo risuonava, ogni colpo la apriva un po’ di più.
Poi la voce. Ferma, a filo d’orecchio.
“Non c’è niente in te che non stia urlando “usami”. Ma tu vuoi essere spezzata, non usata. E io non ho finito. “
Le afferrò il mento. Glielo strinse tra pollice e indice.
“Ora tre respiri. Ma non muovere le mani. Se lo fai, ricominciamo da capo. “
Princy annuì. Tremava. Il sudore le colava lungo le tempie sotto la benda. Il sesso, gonfio e lucido, pulsava nel vuoto.
Lorena restò in silenzio per qualche istante, osservando il corpo teso, bendato, aperto davanti a sé. Princy era ferma, ma dentro era un turbine: il respiro controllato a fatica, le mani strette davanti, le cosce lucide, il sesso ormai gonfio e pronto, la pelle tesa di attesa.
Si chinò con lentezza, senza un rumore. Dal borsone tirò fuori una coppia di pinze nere, piccole, affilate, rifinite in metallo lucido. Tra loro, una catena sottile in acciaio scuro pendeva morbida, fredda come un’idea precisa.
Si avvicinò da davanti, sfiorandole i polsi legati con le dita solo per sentire il fremito che le attraversava. Poi portò una mano al seno sinistro, lo sollevò leggermente e con gesto secco, chirurgico, applicò la prima pinza al capezzolo, serrandola in un solo colpo. Princy sussultò, tutta. Un gemito quasi le sfuggì, ma rimase in gola. Il dolore era netto, immediato, ma già mescolato a un piacere oscuro, profondo.
Lorena non le lasciò il tempo di abituarsi. Spostò la catena, la fece cadere fredda tra i seni, poi con la stessa precisione applicò la seconda pinza. Il seno si tese, si sollevò. Il corpo rispose con una contrazione del ventre, delle cosce, dei fianchi. Ora era legata anche lì. Ogni movimento della catena avrebbe tirato entrambi i capezzoli, tenendola al guinzaglio del dolore.
Lorena si chinò e le sussurrò sulla bocca:
“Ogni volta che ti muoverai, sentirai cosa sei diventata. “
Poi si allontanò di un passo e aprì la frusta. Cuoio intrecciato, corta, compatta, con punte affilate ma elastiche. La fece vibrare nell’aria, un sibilo appena percettibile. Poi la lasciò cadere sulla coscia sinistra, leggera.
Solo un assaggio.
Un altro colpo, un po’ più deciso, sull’addome.
Poi, d’improvviso, uno secco, forte, sull’interno del gluteo. Princy sobbalzò, la catena oscillò, le pinze strinsero.
Un singhiozzo le sfuggì dalla gola. Ma non parlò. Non chiese pietà.
Lorena ruotò la frusta nella mano. Colpì il seno destro, a lato, poi quello sinistro, centrando la pinza. Il metallo vibra. La pelle brucia.
Poi la voce, tagliente:
“Fammi vedere fino a dove puoi arrivare, Princy. Fallo tu. Prima che lo faccia io. “
Un altro colpo, sotto i glutei. Poi un altro, verticale, che risale la coscia e si ferma a un millimetro dal sesso.
Il corpo di Princy ormai non è più suo. È di Lorena. E lo sa.
Lorena le girava attorno lenta, la frusta ancora tra le dita, pendente come la coda di un animale paziente. I colpi si erano fermati, ma l’aria ne portava ancora l’eco. Princy tremava, più dentro che fuori, il respiro tagliava l’aria in fiotti brevi. La catena tra i seni si muoveva appena, oscillando con il ritmo del cuore.
Lorena si fermò di fronte a lei. La osservò un attimo in silenzio. Poi le prese il mento con due dita, come si fa con un oggetto fragile. Le sollevò il viso bendato.
Le sussurrò contro la bocca, con un fiato che odorava di cuoio e rossetto.
“Dimmi cosa sei. “
Princy non parlò. Il silenzio le si era aggrappato alla gola. Le mani legate le tremavano appena. La bocca si era aperta, ma niente usciva.
Lorena non insistette. Le sfiorò le labbra con il pollice, appena. Poi la voce si fece più bassa, più tagliente.
“Voglio una sola parola. Una.
Se è quella giusta, ti toccherò.
Se menti ti spezzo. “
Un battito.
Poi un altro.
Princy sentiva il mondo ondeggiare. Non per la benda. Non per la posizione. Ma per la voce che la spingeva dentro, la costringeva ad aprirsi. A confessare. A dire quella parola.
La parola che le aveva bruciato la gola tante volte. Che le aveva fatto godere tra le lenzuola, ma che non aveva mai osato pronunciare ad alta voce.
La parola che le apparteneva.
La bocca si mosse. Si richiuse. Si mosse di nuovo.
E poi lo disse.
Sottovoce. Ma chiaro. Senza scampo.
“Sono una troia. “
Lorena sorrise. Lentamente.
Le dita le lasciarono il mento.
Le si avvicinò all’orecchio.
“Brava. “
Poi, un morso secco al lobo. Forte. Possessivo.
Princy ansimò. Il dolore fu un lampo. Ma il piacere fu immediato. Quasi un collasso.
“E ora “ sussurrò Lorena, calda come un veleno dolce,
“dimmi cosa vuoi che ti faccia. “
La voce di Princy scivolò via, impastata dal respiro. Il buio della benda la faceva parlare come se fosse sola, come se ogni parola venisse da un altare sotterraneo.
“Voglio che mi prendi.
Che mi pieghi.
Che mi usi.
Che mi marchi.
Voglio sentire il tuo fiato sul collo mentre mi apri.
Voglio sentire la tua saliva tra le gambe e la tua voce nella testa.
Voglio che mi dici cosa sono mentre mi possiedi.
Voglio essere stesa, nuda, con le gambe aperte per te e solo per te. “
Ogni frase era più calda, più sincera, più bruciante.
“Voglio perdermi.
Ma nelle tue mani.
Voglio che tu mi renda tua, e che io non abbia più modo di tornare indietro. “
Poi tacque. Il petto si alzava e si abbassava a scatti.
Non piangeva. Non rideva. Non fingeva.
Era lì, completamente esposta.
E non c’era più niente da nascondere.
“Lo farò “ sussurrò Lorena all’orecchio, la voce rovente di piacere e minaccia.
“E farò anche di più. “
Il rumore della frusta anticipò il colpo, ma non lo rese meno violento. La pelle di Princy schioccò sotto l’impatto, un gemito le salì alla gola e fu subito respinto. La frusta colpì ancora, stavolta più in basso, sulla curva del gluteo, poi ancora, sull’interno coscia, in un crescendo che scaldava l’aria.
Lorena lanciava i colpi con precisione chirurgica, senza mai perdere la misura, senza lasciarsi andare. Solo quanto bastava. Solo dove serviva. Quando si fermò, il corpo di Princy era lucido, teso, vivo come non mai.
Poi, come se nulla fosse, le infilò una mano tra le gambe. Due dita. Secche. Decise.
Princy ansimò. Un suono strozzato, sporco, le uscì dalla bocca senza il suo permesso.
Lorena la accarezzò, lenta, come se stesse valutando. Poi premette. Le dita affondarono nel sesso gonfio, bagnato fino all’osso. Il rumore era quello della carne umida, pulsante.
“Senti quanto sei bagnata “ sussurrò, la voce piena di ironia e possesso.
“La principessa gode a farsi legare. La piccola troia legata, con i capezzoli stretti e le gambe aperte “
Continuò a toccarla. A stuzzicarla. Un dito tra le labbra. Un altro sul clitoride. Il ritmo era lento, ma calcolato. Sapeva esattamente dove premere, quando. Princy cominciò a gemere, piano. Non poteva più nasconderlo.
Lorena le si appoggiò contro, la bocca all’orecchio, la frusta ancora calda contro la pelle tesa.
“E se adesso ti caricassi in macchina così come sei? Con la catena che ti penzola tra i seni, la frusta in mano e la figa che gocciola e ti portassi in giro per il paese? Che ne penseresti? Eh? “
Un colpo più deciso sul clitoride. Il corpo di Princy si tese tutto. Il fiato le si bloccò in gola. Un gemito lungo, gutturale, la attraversò.
Lorena le massaggiava il sesso, più rapido ora, le dita affondavano, scorrevano, la pelle bruciava, i muscoli tremavano. Princy era lì, a un soffio dal crollo, le gambe bloccate ma pronte a spezzarsi.
E proprio allora, Lorena si fermò.
Tolse la mano, lenta.
Il silenzio fu un colpo secco quanto la frusta.
“Non così in fretta. “
Un passo indietro.
La voce, ferma. Decisa.
“Se vuoi godere te lo dovrai guadagnare. “
E Princy rimase lì. In piedi. Bendata. Spezzata. Affamata.
Lorena si mosse lentamente, il passo sicuro e silenzioso sul parquet. Si guardò attorno con lo sguardo di chi sa già cosa cercare. Lo vide: un vecchio gancio, probabilmente rimasto lì dopo la rimozione di un lampadario.
Lo raggiunse. Aprì il borsone, tirò fuori una corda morbida ma resistente, scura, curata. Le dita si mossero rapide, sicure. La fece passare all’interno del gancio, poi tornò verso Princy, che era ancora lì, immobile, tremante, il corpo umido, scosso, ancora gonfio di un piacere negato.
Lorena prese il capo della corda e lo fissò alle manette ai polsi, legati davanti a lei.
Poi iniziò a tirare.
Princy sentì le braccia sollevarsi lentamente, lo sforzo nei muscoli delle spalle. La tensione cresceva, costante. La punta dei piedi cominciò a sollevarsi dal pavimento. Il petto si apriva, il seno si tendeva, le pinze stringevano ancora di più. Ogni centimetro era una resa.
Lorena tirò finché solo le dita dei piedi di Princy toccavano il pavimento, come un’eco di equilibrio destinata a cedere da un momento all’altro.
Il corpo pendeva. Nudo. Offerto. Tirato.
E completamente suo.
Lorena si avvicinò. Le camminò intorno, lentamente, osservandola come si guarda una scultura fatta di carne e sudore. Poi, con voce bassa ma tagliente, parlò all’orecchio, sfiorandole appena la guancia.
“Era così che volevi mi sottomettessero, vero?
Appesa. Nuda. Le gambe divaricate, le mani legate sopra la testa.
Come una troia da punire. “
Fece una pausa.
Poi, con una lama di ghiaccio nel tono, aggiunse:
“Adesso invece tocca a te. “
Fece scorrere un’unghia lungo la spina dorsale esposta di Princy, dall’alto in basso. Lei rabbrividì, il fiato spezzato, il ventre contratto.
Lorena si portò dietro di lei.
Le sfiorò i glutei. Li strinse. Poi li aprì appena, con entrambe le mani.
“Volevi che mi spaccassero il culo, no? “
La voce era più vicina, come un soffio tagliente.
“Vedremo cosa succederà al tuo. “
Lorena si fermò dietro di lei. Le mani si abbassarono lungo i fianchi, la frusta pendeva inerte, la corda tesa sopra la testa di Princy scricchiolava leggermente sotto il peso del corpo sospeso. Ma lei non si mosse. Non toccò. Non parlò. Restò immobile.
Solo il suo sguardo si muoveva. Scivolava lento sul dorso esposto, sui glutei leggermente aperti, sulla catena che oscillava appena tra i seni tesi. Il respiro di Princy si fece più affannoso. Ogni secondo che passava senza un gesto diventava un tormento. L’aria sembrava più calda, il sudore colava tra le scapole, scendeva verso i fianchi.
Lorena la stava guardando. Come si guarda una creatura appesa in vetrina. Ogni tanto le si avvicinava di mezzo passo, poi tornava indietro. Un movimento minimo. Ma devastante. Faceva sentire Princy nuda anche dentro, sezionata dallo sguardo.
Il tempo si allungava. Il buio della benda accentuava ogni respiro, ogni battito, ogni fitta di tensione muscolare.
Lorena taceva.
Princy si morse le labbra. Il desiderio le bruciava tra le gambe, la corda le tirava le braccia fino al limite, ma non era il dolore il problema.
Era il silenzio.
Si sentiva gonfia, tesa, vuota. E quella vuotezza poteva riempirsi solo in un modo.
La voce le uscì bassa. Raschiata dalla gola. Inizialmente solo un suono, poi parole.
“Ti prego dimmi cosa devo fare.
Fammi tua. “
Il corpo di Princy pendeva, leggermente tremante, solo la punta dei piedi a cercare equilibrio su un pavimento che non le apparteneva più. Le braccia tirate verso l’alto, i seni tesi, le pinze che mordevano i capezzoli, la catena gelida che danzava tra le curve del petto. Lorena era lì, in silenzio, a guardarla. Sempre più vicina, eppure immobile.
Princy sentiva il cuore batterle ovunque. Ma il silenzio, quella calma implacabile, la costringeva a fare qualcosa che non aveva mai fatto. Parlare. Davvero. Dire la verità.
La voce le uscì rotta dal respiro, ma nitida.
“Non volevo distruggerti. Volevo essere come te. “
Lorena non disse nulla.
“Ti ho odiata. Ma non era odio. Era invidia.
Perché tu tu non ti sei mai fatta spezzare.
Ti sei fatta usare, sì. Esibire, scopare, dominare
ma eri tu a decidere. Sempre.
Io invece ho sempre avuto paura.
Di crollare, di vergognarmi, di essere guardata davvero. “
Le parole scorrevano, fluide ora, come se aspettassero da sempre di uscire.
“Io ti ho invidiata.
Perché tu sei dominante anche quando sei in ginocchio.
Perché non chiedi mai scusa a nessuno.
Perché ogni uomo che ti prende lo fa solo perché glielo permetti tu. “
Fece un respiro più profondo, le spalle le si sollevarono sotto la tensione della corda.
“E ora sono qui
legata, appesa, nuda
perché l’unico modo che ho trovato per somigliarti
è lasciarmi dominare da te. “
Tacque. La testa leggermente piegata, il respiro teso.
Ma non c’era vergogna in quelle parole.
Solo una resa piena. Lucida. Desiderata.
Lorena restò ancora un istante a fissarla, poi le mani cominciarono a muoversi, lentamente. Salirono lungo le cosce tese di Princy, si insinuarono tra le sue ginocchia tremanti, aprendole con una fermezza che non ammetteva resistenze. Le dita scivolarono con autorità lungo la pelle umida, sentendone il calore, la tensione, il bisogno. Non era una carezza, non era un’esplorazione: era una presa. Come se volesse leggerla da dentro.
Princy ansimò appena, un suono rotto che le sfuggì dalle labbra socchiuse. La benda le nascondeva il mondo, ma sentiva tutto: il respiro di Lorena che si faceva più profondo, le dita che la separavano con lentezza chirurgica, la pelle che reagiva a ogni passaggio come percorsa da una scossa sottile. Lorena trovò il punto preciso e cominciò a sfiorarlo. Non con dolcezza, ma con maestria. Ritmica. Inarrestabile.
Le dita premevano e scivolavano, affondavano e tornavano in superficie, giocando con i suoi tempi, accendendola e frenandola, come se stesse suonando uno strumento. Le mani si alternavano, una che comandava, l’altra che stringeva le natiche, che le graffiava la pelle, che la teneva aperta. Il corpo di Princy si tese, poi si contrasse, poi tremò.
Non riusciva a parlare. Il respiro si era trasformato in piccoli gemiti spezzati, sempre più alti, sempre più disperati. Era nuda, appesa, completamente offerta. Eppure, mai così sua. L’orgasmo arrivò improvviso, profondo, liquido. Le gambe le cedettero, il corpo si irrigidì, poi si abbandonò, appeso alle braccia tirate in alto. Un grido le uscì dalla gola, non forte, ma pieno. Non cercava di trattenersi. Non poteva.
Lorena la guardò tremare. Poi avvicinò il viso al suo, e sussurrò. “Questo era solo l’inizio. “
Tornò al borsone poggiato a terra e lo aprì con calma, quasi con un certo rispetto per ciò che conteneva. Affondò la mano all’interno, tra tessuti e oggetti dal significato ormai evidente, e ne estrasse un simulacro fallico, lungo e spesso, con un piattello sul fondo. Lo sollevò con due dita, come si farebbe con un trofeo.
Princy non poteva vedere. Ancora bendata, ancora sospesa, sentiva solo i movimenti, il suono del metallo contro la pelle, l’odore dell’aria che cambiava. Solo quando Lorena gliela tolse, la benda, gli occhi si riabituarono lentamente alla luce.
Davanti a lei, quel fallo finto sembrava più minaccioso che mai. Il sorriso di Lorena era sottile, tagliente. Lo portò alla bocca di Princy e glielo porse senza una parola. Lei lo fissò un istante, poi, in silenzio, obbedì. Le labbra si aprirono, leccarono, succhiarono, bagnarono ogni superficie. Lorena non la fermò, la guardò solo dall’alto verso il basso con una calma implacabile.
Quando lo ritenne sufficiente, le sollevò delicatamente il mento con due dita. “Sarà l’unico favore che riceverai oggi, non userò lubrificante, lo sentirai tutto. “ La voce era tornata fredda, limpida. Ma non era più rabbia: era controllo.
Si spostò dietro di lei. Il corpo ancora teso verso l’alto, le braccia tirate sopra la testa, i fianchi leggermente scostati, la schiena offerta. Lorena non disse nulla mentre la penetrava. Princy lo sentiva aprirla e scavarle dentro. Non ci fu fretta, non ci fu dolcezza. Solo precisione. E la consapevolezza di ciò che stava facendo. Quando l’oggetto fu in posizione, un clic impercettibile segnò l’inizio di qualcosa di più profondo, il fallo si allungava e ruotava dentro di lei, con ritmo cadenzato ma mai uguale a prima, le scavava nell’intestino come se fosse una trivella, il piattello lo bloccava e lo sfintere lo imprigionava dentro.
Princy sussultò. Il corpo la tradì subito. Le ginocchia si piegarono, il fiato le si spezzò. Il piacere era mescolato alla paura, al pudore, all’esibizione. Lorena tornò davanti a lei e si sedette con grazia sul divano, le gambe accavallate, il busto leggermente inclinato in avanti. In mano, il telefono.
Premette il tasto della videocamera. Non per umiliarla, ma per restituirle ogni singola immagine del suo desiderio finalmente dichiarato. “Era questo che dovevano farmi, vero? “ chiese con un filo di voce, ma sufficiente a tagliare l’aria. “Faccia a terra, senza più difese. Umiliata. E invece ora sei tu. Così. “
Il cellulare inquadrava la pelle arrossata, i muscoli tesi, le labbra semiaperte nel silenzio rotto solo dai gemiti trattenuti. La vibrazione era impercettibile per chi guardava, ma nel corpo di Princy era una tempesta. Lei non rispondeva. Non poteva. Non voleva.
Lorena la osservava. Non con odio. Con autorità. Con uno sguardo che diceva: sei mia. E lo sei sempre stata.
Lorena restò seduta sul divano ancora per qualche istante, le gambe accavallate, lo sguardo fisso su Princy che si contorceva in silenzio. Ogni respiro era più profondo, più irregolare, più disperato. Ma non per il dolore. Quello era già stato assorbito. Ora era l'attesa, l'impotenza, la resa dei sensi a tenerla sospesa.
Poi, con naturalezza, Lorena si alzò. Camminò scalza sul parquet, senza fretta, senza rumore. Aprì il mobile bar, ne estrasse una bottiglia bassa e larga, con vetro spesso e liquido ambrato. Si versò una dose abbondante di Cognac, lo ruotò con un gesto lento nel bicchiere ampio e si portò il vetro alle labbra. Bevve un sorso solo, lasciando che il calore del liquido si mischiasse al fuoco che aveva nelle vene.
Tornò da lei.
Si chinò piano, sfiorando il suo fianco con le dita ancora fredde del cristallo. Si avvicinò all’orecchio, sentì il calore del respiro di Princy che le accarezzava la guancia. La bocca si aprì appena, e le parole arrivarono in un sussurro, più tagliente di qualsiasi colpo.
“Ti piace, principessa? “
Princy gemette. Un suono gutturale, spezzato, quasi un sì senza voce. Il corpo le tremava, le punte dei piedi faticavano a trovare appoggio. Ma la macchina dentro di lei non conosceva stanchezza, non rallentava, non si fermava. La stava possedendo come nessun essere umano avrebbe potuto.
Lorena sorrise appena. Si rialzò, un sorso di Cognac ancora sulle labbra.
Lorena si alzò dal divano, posò il bicchiere vuoto e camminò verso di lei. Ogni passo sembrava più lento del precedente, come se volesse godersi ogni secondo di quel momento. Princy era ancora sospesa, la pelle tesa, il corpo completamente esposto, il respiro ormai ridotto a piccoli soffi spezzati. Il dildo continuava a lavorare nel punto più profondo, ma non bastava. Non più.
Lorena si chinò, le mani scivolarono lungo l’interno delle cosce di Princy, risalendo lente, calde, decise. Una carezza che era già un possesso. E poi le dita si fecero più precise, si insinuarono tra le pieghe gonfie e lucide, già inondate, già tremanti.
Il primo tocco fu lieve, solo un assaggio. Ma bastò a farle piegare la schiena in avanti. Lorena sorrise.
“Ah, quindi non ti bastava la mia punizione cercavi questo, principessa? Il mio tocco? “
Non aspettò risposta. Un dito entrò dentro di lei, lento, profondo. Poi un secondo, curvato nel punto esatto. Il palmo premeva dall’esterno, mentre il polso si muoveva con movimenti lenti ma costanti, esperti, crudeli nel loro sapere esattamente dove affondare. Il corpo di Princy divenne liquido. Un misto di tensione e abbandono. Un’anima slegata dal corpo.
Lorena la guardava mentre la stava facendo a pezzi.
“Guarda come godi guarda cosa sei diventata. “
Le dita affondavano, giravano, premevano. Sempre più veloci, sempre più profonde. Ogni suono che usciva dalla bocca di Princy era un grido strozzato, ogni respiro era un’esplosione che non trovava via d’uscita.
Fino a che non resistette più.
Il corpo si tese come una corda pronta a spezzarsi. La testa cadde all’indietro, la bocca si aprì in un silenzio devastante, e le gambe si irrigidirono mentre una scossa la attraversava dal ventre in fuori, strappandole un orgasmo violento, assoluto, disarmante. Uno di quelli che non si scelgono, ma che si subiscono. Che ti rovinano. Che ti liberano.
Lorena non smise subito. Continuò a muovere le dita, più lentamente, facendo vibrare ogni residuo di piacere fino all’ultima goccia. Poi le estrasse con delicatezza. E le portò alla bocca.
Le leccò. Tutto. Senza distogliere lo sguardo.
“Sei mia. Ora, per sempre. “
Princy non rispose. Non ce la faceva.
Ma nei suoi occhi — spalancati, lucidi, pieni — la resa era totale.
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