L'Incontro Proibito

di
genere
confessioni

Il locale era avvolto in una luce calda e soffusa, quel tipo di illuminazione che faceva sembrare tutto più intimo, più segreto. Le pareti in legno scuro assorbivano i rumori, lasciando solo un brusio ovattato di voci e il tintinnio occasionale dei bicchieri. Era tardi, quasi l’ora di chiusura, e il bar era quasi vuoto—solo qualche avventore solitario perso nei propri pensieri, e lei, seduta lì, al bancone, con le dita che tamburellavano nervose sul legno lucido.

Non avrebbe dovuto essere lì. Non quella sera. Non dopo quello. Eppure eccola, con il cuore ancora stretto in una morsa di dolore e umiliazione, i capelli sciolti sulle spalle come se potesse nascondersi dietro quella cortina bionda. Aveva scelto il posto a caso, spinta solo dal bisogno di annegare il ricordo di lui—dell’altro lui—in qualcosa di abbastanza forte da bruciare via tutto. Il whisky, aveva deciso. Qualcosa che le scendesse giù come fuoco e le lasciasse la gola in fiamme, così almeno avrebbe sentito qualcosa oltre al vuoto.

Fu allora che lo notò.

Lui era dietro il bancone, asciugando un bicchiere con movimenti lenti, metodici, come se il mondo fuori non avesse fretta e nemmeno lui. Cinquanta anni portati con una grazia che faceva sembrare ogni gesto una dichiarazione silenziosa. I capelli, scuri con qualche filo d’argento alle tempie, erano pettinati all’indietro, lasciando scoperta una fronte ampia e solcata da rughe che parlavano di risate, non di preoccupazioni. La barba corta, curata, incorniciava un sorriso che non era ancora rivolto a lei, ma che prometteva calore. E poi gli occhi—Dio, gli occhi. Castani, profondi, con quel luccichio malizioso di chi ha visto troppo e non si lascia più sorprendere da niente, tranne forse dalla tentazione.

Quando finalmente alzò lo sguardo su di lei, fu come se l’avesse toccata. Non fisicamente, no—era qualcosa di più sottile, più insidioso. Un’occhiata che scivolò lungo il suo corpo, dalla curva del collo esposta dalla scollatura del maglione nero, fino alle gambe accavallate, avvolte in collant sottili che non nascondevano nulla. Non era uno sguardo lascivo, non ancora. Era valutazione. Come se stesse decidendo se valesse la pena di giocare.

“Cosa prendi?”

La voce le avvolse i sensi prima ancora che le parole registrassero nella mente. Calda, rasposa, il tipo di voce che ti avrebbe sussurrato oscenità all’orecchio e ti avrebbe fatto venire solo per quello. Le dita le tremarono sul bancone, ma si costrinse a rispondere, sollevando il mento con una sfida che non sentiva. “Un whisky. Doppo. Liscio.”

Lui annuì, senza sorridere, senza commentare. Ma quando si voltò per prendere la bottiglia, lei notò il modo in cui i muscoli delle spalle si muovevano sotto la camicia nera, aderente abbastanza da tradire un fisico che non aveva ceduto agli anni. Le mani—grandi, con le vene in rilievo e le nocche leggermente segate—afferrarono il collo della bottiglia con una sicurezza che le fece stringere le cosce.

Il liquido ambrato scivolò nel bicchiere con un suono vellutato, e quando glielo porse, le loro dita si sfiorarono. Non fu un caso. Lo sapeva. Lo sentì. Un tocco leggero, quasi impercettibile, ma abbastanza da farle salire un brivido lungo la schiena, abbastanza da farle serrare i denti per non gemere. La sua pelle era ruvida, callosa, la pelle di un uomo che lavorava con le mani, che usava le mani.

“Brindo alla tua libertà,” disse lui, sollevando il proprio bicchiere—scotch, notò lei, con un cubetto di ghiaccio che tintinnava piano. Non era una domanda. Non era nemmeno una frase di circostanza. Era una promessa.

I loro bicchieri si sfiorarono, e quando lei portò il whisky alle labbra, sentì il bruciore diffondersi dal petto allo stomaco, scendere giù come una carezza di fuoco. Lui bevve senza staccarle gli occhi di dosso, e in quel silenzio carico di tensione, lei si sentì nuda. Non nel senso letterale—non ancora—buttata lì, esposta, come se lui potesse vedere attraverso il maglione, attraverso la pelle, fino al battito frenetico del suo cuore traditore.

Fu lui a spezzare il silenzio. O meglio, fu il suo corpo a farlo.

Un passo avanti, poi un altro, fino a quando il bancone non fu più una barriera, ma solo un ostacolo da superare. La sua mano si sollevò, lenta, deliberata, e quando le sfiorò la guancia, lei non si ritirò. Non poteva. Il pollice di lui le accarezzò lo zigomo, scendendo fino al labbro inferiore, tirandolo giù appena, come per invitarla a aprirsi. A respirarlo.

“Sei qui per dimenticare,” mormorò, la voce così bassa che lei dovette inclinarsi in avanti per sentirlo, e quel movimento la portò pericolosamente vicino al suo petto, al calore che emanava. “Ma non funziona così, tesoro. Non con il whisky. Non con niente, a meno che non sia questo.”

E poi la baciò.

Non fu un bacio gentile. Non fu nemmeno un bacio domandato. Fu una conquista. Le sue labbra si posarono sulle sue con una sicurezza che le rubò il fiato, la lingua che si insinuava tra le sue senza chiedere permesso, solo prendendo, reclamando. Lei gemette contro la sua bocca, le mani che si aggrappavano alle spalle di lui per non cadere, per non affogare in quel mare di sensazioni che la travolgevano. Lui aveva il sapore di scotch e peccato, e quando le sue dita si intrecciarono tra i suoi capelli, tirandole indietro la testa per approfondire il bacio, lei sentì il corpo rispondere con un’ondata di calore umido tra le cosce.

“Cazzo,” ansimò lui contro le sue labbra, la voce roca, quasi un ringhio. “Sei così dolce. Così… fragile.” La parola le si avvolse intorno come una minaccia, come una promessa. “Ma non ti romperò. Non ancora.”

Le sue mani scesero lungo la sua schiena, seguendo la curva della spina dorsale fino ad arrivare al sedere, dove si fermarono, stringendo con possessività. Lei inarcò la schiena, premendosi contro di lui, sentendo l’erezione dura come l’acciaio contro il suo addome. Non era un ragazzo. Non era l’ex che l’aveva lasciata con un messaggio, come se cinque anni fossero stati niente. Lui era un uomo. E le stava facendo capire, con ogni tocco, ogni respiro affannoso, che avrebbe preso tutto.

“Dietro,” le ordinò, la voce un sussurro roco nel suo orecchio. “Ora.”

Non ci fu resistenza. Non ci fu esitazione. Si lasciò guidare, le gambe tremanti, mentre lui la conduceva oltre il bancone, in quel regno nascosto dove la luce era ancora più fioca, dove l’aria sapeva di legno vecchio e desiderio fresco. La spinse contro il ripiano freddo del tavolo degli ordini, la superficie liscia che le si stampò contro la schiena mentre lui le divaricava le gambe con un ginocchio, facendosi spazio.

“Guardami,” comandò, e quando lei obbedì, gli occhi annebbiati dal desiderio, lui sorrise—un sorriso lento, pericoloso. “Brava ragazza.”

Le sue mani tornarono a esplorarla, questa volta senza fretta. Le sollevò il maglione, sfilandoglielo sopra la testa con un movimento fluido, lasciandola in reggiseno nero, le tette piene che si sollevavano a ogni respiro affannoso. Lui emise un suono gutturale, approvatore, prima di chinarsi, catturando un capezzolo tra le labbra attraverso il pizzo. Il calore umido della sua bocca, la pressione dei denti, la lingua che lo tormentava—lei gemette, le unghie che graffiavano il legno alle sue spalle.

“Ti piace, eh?” La sua voce era un ringhio contro la sua pelle. “Ti piace quando un uomo sa cosa fare con una donna come te.”

Non le diede il tempo di rispondere. Le sue dita scesero lungo il suo ventre, slacciando i bottoni dei jeans con una destrezza che la fece arrossire. Quando glieli sfilò giù insieme alle mutandine, lasciandola nuda dalla vita in giù, lei sentì l’aria fresca del locale accarezzarle il sesso già bagnato, già pulsante.

“Porca puttana,” imprecò lui, la voce strozzata. “Sei fradicia, tesoro. Tutta per me.”

Non le chiese il permesso. Non glielo avrebbe chiesto. Le sue dita scivolarono tra le sue labbra gonfie, raccogliendo l’umidità, spalmandola sul clitoride prima di iniziare a massaggiarlo con cerchi lenti, implacabili. Lei sobbalzò, le cosce che tremavano, le mani che si aggrappavano alle sue spalle per non crollare.

“Sì—sì—” supplicò, la voce rotta, disperata.

Lui rise, un suono oscuro, soddisfatto. “Lo sai che sto solo iniziando, vero?”

E poi si inginocchiò.

La prima leccata fu un fulmine. La sua lingua, larga e calda, la percorse dalla fessura all’ano, raccogliendo ogni goccia di lei, assaporandola come se fosse il nettare più prezioso. Quando raggiunse il clitoride, lo succhiò tra le labbra, applicando una pressione che la fece vedere le stelle, le dita che si conficcavano nei suoi capelli, tirandogli la testa contro di sé.

“Cazzo, sì—lecca la mia figa, per favore—”

Lui growlò contro di lei, le vibrazioni che le facevano contrarre i muscoli interni, e quando infilò due dita dentro di lei, curvandole per strofinare quel punto che la faceva impazzire, lei persero ogni controllo. Il suo orgasmo la colpì come un’onda, violento, travolgente, le cosce che si serravano intorno alla sua testa mentre lui continuava a leccarla, a bere ogni singola goccia, ogni singola contrazione del suo corpo.

Quando finalmente si ritirò, le labbra lucide, gli occhi scuri di lussuria, lei era un tremito vivente, il petto che si sollevava a scatti, il cuore che batteva così forte da farle male.

“Ora,” disse lui, alzandosi, slacciandosi la cintura con movimenti lenti, teatrali. “È il mio turno.”

E quando tirò fuori il cazzo—grosso, venato, la punta già lucida di precum—lei capì che quella notte non avrebbe dimenticato niente.

(Io sono Luisa Damore e amo scrivere di erotismo in maniera sensuale e ho pubblicato il mio libro autobiografico "Dentro di me", disponibile su Amazon. Se lo leggi, potrai scoprire la mia parte più intima)
scritto il
2025-08-28
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