Alessia 2

di
genere
sentimentali

Ore 21:12. Il cellulare di Alessia vibra. Un messaggio. È lui.
“Domattina. Alle sei in punto. Scarpe comode e zaino leggero. Non portare domande, porta solo te stessa.”
Nessuna firma. Non ce n’era bisogno.
Alessia rimane per qualche secondo immobile sul divano, lo sguardo fisso sulle parole. Poi si alza, va verso la camera e comincia a prepararsi, come in trance.
Si guarda allo specchio. Il volto è stanco, segnato da una notte di pensieri e nervosismo, ma lo sguardo è fermo. Apre l’acqua della doccia. Lasciala scorrere per un po’, poi si spoglia lentamente, sentendo sulla pelle la tensione della notte. Il pigiama cade a terra, insieme ai dubbi.
Entra sotto il getto caldo, quasi bollente. Si lascia lavare, purificare. Chiude gli occhi mentre l’acqua le scorre lungo la schiena e tra le gambe, come a cancellare il giorno prima. Ogni gesto è lento, consapevole. Quando esce, si sente diversa, più lucida. Tampona il corpo con un asciugamano e lo lascia scivolare fino alle cosce. Resta un attimo così, nuda, davanti allo specchio appannato, e traccia un solco con la mano per guardarsi: non è perfetta, ma è viva.
Poi comincia a vestirsi.
Apre il cassetto più in basso e prende il perizoma nero in microfibra, semplice, quasi invisibile. Lo indossa lentamente, come se stesse compiendo un piccolo atto di coraggio. Poi estrae dal cassetto inferiore del comò quei ciclisti neri lucidi, aderenti come una seconda pelle, che aveva comprato d'impulso e mai osato indossare. Le risalgono lentamente sulle cosce, abbracciandole ogni curva, fermandosi appena sotto l’ombelico. Si osserva un attimo. Il perizoma disegna una leggera linea centrale: un dettaglio che la mette a disagio e allo stesso tempo la incuriosisce.
Poi sceglie il bikini. È blu elettrico, con riflessi metallici, triangoli piccoli che mettono in risalto il seno, ancora alto e sodo. Le coppe appena imbottite si legano dietro il collo e dietro la schiena. Non lo ha mai indossato, eppure oggi le sembra perfetto, come una corazza lucente.
Sopra, una maglietta tecnica grigia a mezze maniche, abbastanza aderente da far intuire il bikini sotto, soprattutto quando si muove. Ai piedi infila gli scarponcini da trekking. Un contrasto voluto: gambe da ciclista, petto da spiaggia e piedi da montagna.
Si raccoglie i capelli in una coda alta, ben tirata. Niente trucco, se non un velo di burrocacao. La bellezza oggi non è da mostrare, è da conquistare. Lo sguardo è serio, concentrato. Afferra lo zaino leggero, controlla che dentro ci siano una bottiglia d’acqua, una felpa e il minimo indispensabile.
Alle 5:58 è già fuori.
Marco è lì. Appoggiato, come sempre, al cofano della sua Mini Cooper rossa col tettuccio bianco. Jeans e felpa sportiva chiara, una fascia per i capelli tirata indietro sulla fronte. La guarda mentre scende e non sorride, ma i suoi occhi la scrutano, rapidi.
Le apre la portiera, in silenzio. Nessun baciamano questa volta. Solo un cenno del capo, come per dire “entra”.
Lei lo fa, trattenendo il respiro, e la portiera si richiude con un suono sordo e preciso.
L’auto riparte. Nessuno parla. Solo la strada davanti a loro e l’odore tiepido del primo sole.
Il sentiero si faceva subito ripido, quasi a voler mettere alla prova la determinazione fin dai primi passi. Quando arrivarono al piccolo spiazzo dove terminava la strada asfaltata, Marco spense il motore, tirò il freno a mano con un gesto deciso, poi scese dalla Mini e si diresse verso il bagagliaio. Alessia stava ancora sistemando lo zaino sulle spalle quando lui glielo prese dalle mani senza dire una parola.
«Metti le tue cose qui dentro», disse indicando il suo zaino molto più grande. «Così sali più leggera.»
Lei lo guardò, sorpresa. Non per il gesto in sé, ma per la naturalezza con cui era arrivato, privo di galanteria ostentata, ma pieno di attenzione. Annuì e, in silenzio, mise all’interno la sua bottiglietta d’acqua, una maglietta di ricambio, un piccolo telo, una confezione di mandorle. Nulla di più. Lui richiuse lo zaino e lo caricò sulle spalle senza sforzo.
«Pronta?» chiese, senza guardarla. Poi partì.
Il sentiero si addentrava subito nel bosco, stretto e immerso in un silenzio quasi irreale. Il lago alle loro spalle era ancora immerso nella foschia del mattino. I passi risuonavano chiari, ritmati, e il fiato cominciava a farsi sentire dopo pochi minuti.
Marco davanti, regolare, sicuro, ogni tanto si voltava a controllare. Quando vedeva che Alessia rallentava, diminuiva il passo, non diceva nulla, le dava il tempo di riprendere ritmo. Ma non le porgeva mai la mano. Nessuna indulgenza.
Dopo un tratto particolarmente scosceso, si voltò e le fece cenno di passare avanti.
«Fai tu il passo adesso. Il tuo ritmo. Io ti seguo.»
Lei avrebbe voluto rifiutare, dirgli di continuare lui, che era più forte, più esperto. Ma non lo fece. Annuì, gli passò accanto con il fiatone e cominciò a salire. Le gambe bruciavano, il fiato diventava corto, il sudore colava lungo la schiena e tra i seni, intriso nel tessuto sottile della maglietta.
I ciclisti si erano incollati alle cosce, al sedere, scivolando in ogni piega, evidenziando ogni tensione muscolare, ogni movimento. E lei lo sapeva. Sentiva ogni sguardo potenziale, ogni centimetro di pelle che parlava. Eppure continuava. Marco era lì, dietro, e ogni tanto lo sentiva rallentare, sentiva il rumore della ghiaia sotto i suoi scarponi.
Ogni tanto si voltava, come a volerlo cogliere in fallo. Ma lui aveva sempre lo sguardo basso, rivolto al terreno, come se ignorasse del tutto il suo corpo che si muoveva a pochi passi da lui. Questo la confondeva. La irritava e, in qualche modo, la stimolava.
Il bosco cominciava a diradarsi. Il sole era salito e le prime rocce si affacciavano tra la vegetazione. Alessia non cedeva, non si fermava. Il viso era arrossato, il respiro affannoso, ma non mollava. Doveva arrivare in cima. Aveva bisogno di arrivarci. Con le sue gambe.
Marco continuava a seguirla in silenzio. Sempre presente, mai invadente.
Dopo quasi due ore di cammino, il sentiero si aprì all’improvviso. Il bosco, fino a quel momento fittissimo e umido, lasciò spazio a un’altura rocciosa coperta da erba bassa e cespugli sparsi. L’aria, più fresca e sottile, accarezzava la pelle sudata con una dolcezza inaspettata. Il cielo, ormai terso, lasciava filtrare un sole limpido, che si rifrangeva sul lago in basso con riflessi d’argento.
Alessia fece gli ultimi passi quasi trascinando le gambe. Il cuore batteva nel petto come un tamburo, le mani tremavano leggermente, ma non si fermò. Arrivò fino alla grande pietra piatta che dominava la valle sottostante e lì si lasciò cadere seduta, in silenzio, le gambe stese davanti a sé.
Marco arrivò un minuto dopo. Posò lo zaino a terra, si tolse il giubbotto tecnico e lo piegò con calma. Senza dire nulla, si sedette accanto a lei. Non troppo vicino. Non troppo lontano.
Davanti a loro, la vista era mozzafiato. Il lago si stendeva come una lama liquida tra le colline, e oltre ancora si intravedeva la pianura che sfumava fino all’orizzonte. Nessun rumore umano, solo il fruscio del vento tra i ciuffi d’erba e il lontano grido di un rapace.
Alessia, con la testa reclinata all’indietro, chiuse un attimo gli occhi. Poi li riaprì, lentamente, e parlò.
«Non sapevo fosse così bello da quassù.»
«Quasi nessuno lo sa. Per arrivarci bisogna volerlo davvero.»
Lui prese la bottiglietta d’acqua dallo zaino, le porse il tappo già svitato. Lei bevve, poi si asciugò la fronte con il dorso della mano.
«Ti odio un po’ in questo momento.»
Lui sorrise.
«Ottimo segno. Se mi odi, vuol dire che ti sei spinta oltre la tua zona di comfort.»
Rimasero in silenzio qualche istante, respirando insieme quell’aria limpida e ruvida. Alessia si tolse le scarpe, poi si alzò e fece qualche passo avanti, fino al limite della sporgenza. Le mani sui fianchi, il petto che si alzava ancora in cerca d’aria, i capelli raccolti nella coda alta scompigliati dal vento.
Marco la osservava, in silenzio.
«Hai fatto fatica,» disse infine, «ma non ti sei mai lamentata. E hai continuato a salire anche quando il corpo ti diceva di fermarti.»
Lei si girò a guardarlo.
«Non volevo deluderti.»
«Non dovevi farlo per me.»
«No, ma tu eri lì. Dietro. Mi guardavi anche se non mi guardavi.»
Un sorriso appena accennato gli piegò le labbra. Non disse nulla. Poi si alzò, le si avvicinò con passo calmo e si mise accanto a lei, guardando il panorama.
«Sai qual è la cosa più difficile da affrontare in montagna?»
«La fatica?»
«No. Il silenzio.»
Lei lo guardò di lato, senza parlare. Il vento le muoveva una ciocca ribelle sulla guancia.
«In silenzio ci sei solo tu, e i tuoi pensieri. E quelli non si possono evitare.»
Lo sguardo di Alessia si abbassò un istante. Poi tornò davanti a sé.
Marco restò in piedi accanto a lei, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni da escursionismo, lo sguardo rivolto lontano, come se stesse pescando le parole da qualche punto laggiù, nella linea dove il lago si fondeva con la pianura. Quando parlò, la voce era pacata, profonda, quasi priva d’emozione, ma ogni parola aveva il peso di un macigno ben calibrato.
«Alessia… io sono un uomo solitario. Non perché non mi piacciano le persone, ma perché non mi piacciono i rumori inutili. La confusione. Le parole dette per riempire il vuoto. Preferisco il silenzio. E la verità. Per questo… rifletto molto. Forse troppo.»
Fece una pausa breve, come se cercasse conferma che lei lo stesse seguendo. Alessia era immobile, attenta, le braccia incrociate a trattenere qualcosa che non voleva uscire.
«Ogni tanto, più o meno ogni due anni, succede. Una donna mi cerca. A volte è un’amica di qualcuna che ho già aiutato. A volte arriva per caso, come te. Sempre per la stessa ragione: non si riconosce più, non sa più dove sia finita. E io… le ascolto. Le osservo. Cerco di tirare fuori quello che hanno dimenticato di avere. Lo faccio perché amo le donne.»
Si voltò a guardarla, serio.
«Le amo in ogni sfaccettatura possibile. Nei sorrisi e nelle lacrime, nel trucco sbavato e nella lingerie più elegante. Amo i loro contrasti, le loro paure, la forza che non sanno di avere. Per me non è un gioco, non è un lavoro. È qualcosa che sento. È naturale.»
Sospirò. Un soffio appena.
«Il problema è che, a forza di cercare il meglio in loro… finisco per vederle tutte stupende. Ognuna a modo suo. E questo, inevitabilmente, mi porta a provare qualcosa. Qualcosa che non posso permettermi.»
Si spostò di qualche passo, poi tornò a sedersi sulla pietra, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia.
«Perché loro non sono lì per me. Sono lì per loro. Per ritrovarsi. E io non posso rovinare quel processo con i miei sentimenti. Sarebbe un abuso. Un egoismo.»
Un sorriso appena accennato gli increspò le labbra, senza raggiungere gli occhi.
«Con alcune… qualcosa è comunque sbocciato. Con pochissime di loro, anche il lato fisico è stato esplorato. Ma quasi sempre, quando hanno trovato ciò che cercavano, tornano alla loro vita. Giustamente. Io non ne faccio parte. Non devo farne parte.»
Poi la voce cambiò leggermente tono. Si abbassò. Si fece più tagliente, ma mai dura.
«Per questo, Alessia, le accuse che mi hai rivolto… quella sera, lì in casa tua… sono state così dolorose. Non tanto per le parole, quelle si cancellano. Ma perché per un attimo mi hai fatto sentire… sporco. Come se il mio volerti vedere rifiorire fosse solo un pretesto per portarti a letto. Come se la mia attenzione fosse una trappola. E questa… questa è una cosa che non perdono facilmente.»
Alzò lo sguardo, e questa volta incrociò il suo. Fermo, limpido, eppure segnato da qualcosa di antico. Forse tristezza, forse stanchezza. Ma anche una determinazione inamovibile.
«Non sono un santo, Alessia. Ma non sono neppure un predatore. Sono solo un uomo che ama vedere una donna che torna a brillare. Se non ti basta… allora non sono io quello che cerchi.»
Restò lì. Non aggiunse altro. Era come se il vento si fosse fermato per ascoltarli.
Alessia restò in silenzio. Il vento accarezzava piano le fronde basse e le ciocche sfuggite dalla coda alta le si muovevano sulle guance sudate. Aveva lo sguardo basso, incollato ai suoi scarponcini impolverati. Ma dentro, tutto era in subbuglio. La voce di Marco, così calma eppure carica di dolore trattenuto, le aveva smosso qualcosa nel profondo, come una mano che rovista in un cassetto chiuso da anni.
Si schiarì la voce, ma non lo guardò subito.
«Hai ragione…» sussurrò.
Poi alzò la testa e gli rivolse finalmente lo sguardo. Era lucido, vibrante, ma per la prima volta da settimane, sincero.
«Hai ragione su tutto. Ti ho cercato io. Ti ho voluto io. E poi ti ho aggredito, insultato, accusato di cose che… che non c’entravano niente con te. Ho avuto paura. Paura di sentirmi viva di nuovo. Perché se ti lasci andare… poi puoi cadere. E io non so più come si cade senza rompermi.»
Fece una pausa. Un respiro profondo.
«Mi hai fatto sentire di nuovo guardata. E desiderata, anche se non hai mai fatto nulla per sedurmi. Ed è questo che mi ha confusa. Perché non sei entrato in me con le mani o con il corpo. Sei entrato nella mia testa. E io… io lì non sono abituata a far entrare nessuno.»
Marco non parlò. Rimase immobile, lo sguardo ancora fisso su di lei.
«Quella sera ho avuto paura che tu avessi ragione su tutto. E ho reagito come una ragazzina ferita. Ma adesso sono qui. Ho camminato due ore con il cuore in gola, con il tuo sguardo addosso anche quando non mi guardavi. Perché volevo arrivare in cima. E volevo arrivarci con te.»
Abbassò di nuovo gli occhi. La voce le tremava, ma continuò.
«Non so cosa voglio, Marco. Ma so cosa non voglio più. Non voglio più restare ferma. E se… se ci sarà da cadere, voglio cadere sapendo di aver camminato.»
Poi, con un filo di voce, come se avesse bisogno più di ammetterlo che di dirlo a lui:
«Mi dispiace. Per davvero.»
Lui la osservò con un mezzo sorriso.
«Vedo che a stare dritta hai imparato subito.»
Lei si voltò appena verso di lui, si guardò d’istinto. In effetti la schiena era tesa, le spalle rilassate ma aperte, e il petto proteso verso il cielo. Non ci aveva nemmeno pensato. Sorrise, e con un gesto deciso si sfilò la maglietta tecnica, lasciando scoperti i triangoli blu elettrico che brillavano sotto il sole. I fianchi stretti e il ventre scolpito erano messi in risalto dai ciclisti lucidi che le aderivano come una seconda pelle.
Lo guardò, un sopracciglio appena sollevato.
«E della mise, che ne pensi?»
Marco rimase in silenzio per qualche secondo. Non abbassò lo sguardo. La osservò, sì, ma senza invadenza, con quella calma analitica che gli era propria.
«Penso che oggi sei scesa in campo. Finalmente. È una mise sincera. Decisa. Ancora un po’ acerba, ma tua.»
Poi fece un mezzo passo avanti, girandole attorno mentre lei restava immobile come se aspettasse un verdetto.
«Certo, è un look che non lascia scampo… ma sai che ti dico? Il mondo non ti ha mai chiesto il permesso per giudicarti. Oggi sei tu a giudicare il mondo.»
Marco la osservò un attimo ancora, poi si voltò verso il panorama, lasciandosi catturare dall’orizzonte.
«Ah… il sedere regge. Non solo alla salita.»
Lei sbuffò divertita, ma non abbassò lo sguardo. Il sorriso che le si disegnò sul volto non era solo divertimento: era orgoglio. Forse per la prima volta da mesi, forse da anni.
Restarono così qualche istante, in silenzio. Il lago scintillava sotto di loro, lontano, irraggiungibile come il passato. Ma il futuro… era lì. Dentro quel corpo che respirava a pieni polmoni. Dentro quella donna che, anche solo per un istante, si era mostrata fiera di sé.
Marco si sedette accanto a lei, le braccia poggiate sulle ginocchia, il respiro finalmente più calmo. Per un po’ non disse nulla, poi girò il volto verso di lei con un sorriso sereno, quasi divertito. Gli occhi erano tornati calmi, lucidi di quella luce che solo la verità semplice riesce a riflettere.
«Alessia…» cominciò con tono pragmatico, «io odio la montagna. E le scarpinate.»
Lei lo guardò perplessa, le sopracciglia leggermente aggrottate, incerta se stesse scherzando.
«L’ho fatto solo per te, per portarti fin quassù. Ma se mi lasci scegliere adesso… direi di tornare giù e andare in paese a berci una birra ghiacciata.»
Lei abbassò lo sguardo, poi rise piano, scuotendo la testa. Si sporse leggermente verso di lui, come per toccarlo con la spalla.
«Hai un modo tutto tuo di rendere le cose indimenticabili, Marco.»
Lui non rispose, ma il suo sguardo aveva già detto abbastanza.
Scendevano piano, senza fretta. La fatica della salita si era trasformata in un silenzio pieno, denso di riflessioni non dette. Ogni tanto qualche parola, un accenno di sorriso, ma per il resto erano solo passi e pensieri, e un’intesa nuova, più profonda, che non aveva bisogno di troppe spiegazioni.
Quando la Mini si fermò sotto casa di Alessia era già tardo pomeriggio. Il sole stava scivolando dietro i tetti e tingendo di arancio le facciate. Marco scese e le aprì la portiera. Alessia scese lentamente, quasi sperando che il momento si dilatasse ancora un po’.
«E adesso?» chiese lei a bassa voce, mentre lo guardava negli occhi.
Lui le prese la mano, la portò alle labbra e la baciò con dolcezza. «Adesso lo stiamo vivendo» rispose con un filo di voce. «Domani decideremo il da farsi.»
Lei lo guardò, esitò un istante, poi con tono quasi disarmato chiese: «Vuoi salire da me?»
Lui si fece serio. «Non continuare a sfidarmi, Alessia. Potrei non riuscire a trattenermi tutte le volte che me lo chiedi.»
Fece per voltarsi, risalì lentamente nella sua auto. Ma proprio mentre richiudeva lo sportello, la voce di lei lo raggiunse, chiara, ferma.
«Forse non voglio che tu ti trattenga.»
Marco la guardò un solo istante. Non disse nulla. Mise in moto, abbassò lo sguardo. La Mini scivolò via con un rombo sommesso, lasciando Alessia in piedi, nel silenzio che segue ogni tempesta.
Ma sulle sue labbra, un sorriso incerto iniziava a farsi largo.
Passarono alcuni giorni tranquilli. Lei e Marco si scambiavano pochi messaggi, quasi solo di cortesia. Un “buongiorno”, qualche “dormito bene?”, nulla che lasciasse intendere un coinvolgimento, eppure ogni parola sembrava riempire un piccolo vuoto.
Nel frattempo Alessia cominciava lentamente a cambiare. Aveva accettato con leggerezza l’invito di due colleghe per un aperitivo in centro, poi una pizza con Marta, e infine un’uscita con due colleghi, uno dei quali aveva iniziato a corteggiarla con garbo. Si accorse che la guardavano diversamente, non solo per il trucco più curato o per i vestiti finalmente pensati con attenzione, ma per l’atteggiamento: più aperta, più ironica, più viva.
Una sera, appena rientrata a casa, mentre si stava togliendo le scarpe, il cellulare vibrò.
Marco.
Il messaggio aveva un tono strano.
“Non sono uno stalker” — diceva la prima riga.
Poi cominciarono ad aprirsi una serie di immagini. Tutte scattate nei giorni precedenti. Alessia che rideva a tavola con l’amica, lei che si sistemava i capelli sotto la luce calda di un lampione, il profilo illuminato mentre ascoltava un collega parlare, una mano che sfiorava una spalla, un sorriso che sembrava nuovo.
Poi, sotto l’ultima foto, un breve testo:
“Brava Alessia, adesso stai cominciando a capire, a vederti e a sentirti. Direi che siamo sulla strada buona. Adesso vedo la tua luce che comincia ad affiorare.”
Lei rimase qualche istante ferma, con le foto ancora aperte sul telefono. Le sue labbra si piegarono in un sorriso spontaneo, quasi infantile. Sentì il cuore battere con un ritmo caldo, non frenetico. Un battito tranquillo, pieno, sereno.
Scrisse:
“Grazie. Ma… quando ci vediamo?”
Il messaggio di Marco arrivò quasi all’istante, come se avesse atteso la sua domanda.
“Domani. Alle sette. Passo a prenderti. Non chiedere dove, vestiti come ti senti più bella. Non per me. Per te.”
Poi, dopo qualche secondo, un altro messaggio:
“E se avrai voglia, domani sera non parleremo più di rinascita. Parleremo solo di te.”
Alessia rimase immobile, lo sguardo fisso sullo schermo. La scelta che aveva sempre rimandato ora era lì, sotto forma di invito. Nessuna forzatura, nessun doppio senso, ma una nitida possibilità.
Uscì dall’ufficio con passo leggero, lo sguardo rivolto al cielo che cominciava a velarsi appena di un rosa pallido. Era venerdì, e per la prima volta da mesi, sentiva un sottile fremito d’attesa correre lungo la schiena. Aveva chiuso il computer, salutato le colleghe con un sorriso più disteso del solito, poi era corsa a casa, una corsa vera, quasi ansiosa. Aprì la porta e si lasciò alle spalle la giornata con un sospiro profondo. Si concesse il lusso di una doccia lunga e calda, il getto dell’acqua a scorrere tra i capelli, lungo la schiena, fin sulle gambe, lasciandola rinnovata. Uscì nuda, i capelli raccolti in un asciugamano annodato in cima alla testa, le guance arrossate dal vapore. Si guardò allo specchio con un’espressione nuova, indecisa, ma determinata.
Indossò un paio di culotte nere in pizzo leggerissimo, alte sui fianchi. Poi prese il top in seta champagne: aveva deciso da subito che lo avrebbe messo senza reggiseno. Lo infilò lentamente, lasciando che la seta scivolasse sul seno nudo, aderendo dolcemente alla pelle. Le spalline sottili lasciavano nude le spalle, e lo scollo profondo accennava con eleganza alla rotondità dei seni, che restavano naturalmente sostenuti, con i capezzoli che accennavano appena sotto il tessuto, in un gioco sottile di luce e trasparenza.
Sotto indossò una longuette nera in raso opaco, aderente sui fianchi e con un discreto spacco laterale. Ai piedi, sandali con tacco a spillo sottile, neri, semplici, senza plateau, con una cinghietta alla caviglia. Raddrizzò la postura e, davanti allo specchio, si concesse uno sguardo d’assieme. Sembrava un’altra. No, sembrava lei, ma più vera. Più donna.
Sciolse i capelli e li lasciò asciugare naturalmente, poi li modellò con la spazzola e li tirò indietro in una coda alta, tirata e lucidata con la cera, perfettamente netta. Il trucco fu curato: eyeliner preciso, ombretto nei toni del rame, un filo di contouring e labbra bordeaux lucide, sensuali ma non volgari.
Un tocco di profumo sui polsi e dietro le orecchie, poi l’attesa. Non durò molto.
Dalla finestra vide la Mini rossa con il tettuccio bianco accostarsi e fermarsi davanti al portone. Marco era già sceso. Si era appoggiato al cofano, come sempre, con i soliti jeans, una maglietta nera dei Led Zeppelin e una giacca estiva chiara. Non sembrava aver fretta.
Scese con calma, ma il cuore accelerava. Quando lo raggiunse, lui la guardò, abbassò gli occhi per un istante e, senza una parola, le fece il baciamano. Le sue labbra rimasero posate un attimo più a lungo sul dorso della sua mano. Poi la guidò alla portiera e gliela aprì.
— Sei pronta?
Lei annuì. La serata poteva cominciare.
Una volta in marcia, marco le espose i programmi per la serata.
— Ho pensato a due opzioni per questa sera. Possiamo andare in un ristorante molto carino sul lago, pesce fresco e vista incantevole… oppure, se preferisci qualcosa di più riservato, posso cucinare per te a casa mia. È a pochi minuti da qui. Tu scegli.
Alessia rimane in silenzio per qualche secondo. Guarda fuori dal finestrino: la luce dorata del tramonto colora la pelle delle sue gambe accavallate, lisce, brillanti. Le dita giocano con l’orlo dello spacco che si apre sulla coscia. Poi torna a fissare Marco di profilo, il suo modo di guidare rilassato, la sua voce che non cerca mai di afferrarla.
Vuole capire cosa desidera davvero. Se la vista del lago con le sue luci, o il silenzio di una casa mai vista. Lì, nella seconda opzione, sente un leggero brivido. Non è paura. È qualcosa di nuovo.
Alessia abbassò leggermente il finestrino, lasciando entrare un soffio d’aria fresca che le accarezzò la fronte e il collo, appena imperlato di sudore. Rimase qualche istante in silenzio, poi si voltò verso Marco con un sorriso enigmatico, la voce vellutata, quasi maliziosa.
— Mmm… interessante. Una cena romantica vista lago o… una situazione più intima tra le mura di casa tua?
Fece una pausa, accavallò lentamente le gambe, lo spacco della gonna si aprì appena un po’ di più. Lui rimase serio, ma la tensione gli percorse appena la mascella. Lei lo notò.
— E se fossi io a invitarti a casa mia, tu cosa sceglieresti? — chiese, con una nota di sfida nella voce, inclinando la testa di lato come a scrutarlo più in profondità.
Marco sorrise, un sorriso quasi impercettibile, poi tornò a fissare la strada.
— Non rispondo mai a domande ipotetiche. Preferisco la verità.
— E se la verità fosse che voglio vederti cucinare?
— Allora lo farò con piacere — rispose lui, asciutto ma calmo.
— E se invece la verità fosse che voglio il pesce fresco?
— Ci dirigiamo verso il lago.
Lei appoggiò la testa al poggiatesta, chiuse per un attimo gli occhi, poi li riaprì e lo guardò.
— Sei sempre così neutrale?
— Sono solo rispettoso, Alessia. Decidi tu. Ma fallo adesso. Qui si svolta per casa mia, laggiù si va verso il lago.
Alessia si morse il labbro inferiore, divertita. Poi, con una voce quasi teatrale:
— Destra. Verso casa tua.
Marco annuì, ma non commentò. Eppure, mentre inseriva l’indicatore, sul suo volto apparve un mezzo sorriso che non aveva niente di neutrale.
Appena varcata la soglia, Alessia si sentì investita da un profumo leggero, un misto di pulito, legno e lavanda. Marco chiuse la porta alle sue spalle senza fretta, lasciandole il tempo di osservare. L’appartamento era raccolto, non grande, ma ogni dettaglio trasmetteva eleganza discreta e buon gusto: pareti color avorio, scaffali ordinati, quadri fotografici in bianco e nero appesi con rigore, un divano in velluto grigio perla, morbido ma non invadente. Il parquet era vissuto ma lucente, e ogni cosa sembrava al proprio posto, con una cura quasi femminile.
— È... bellissimo — disse lei, lasciando scorrere le dita sullo schienale di una sedia.
Poi il suo sguardo si posò su un vaso con rose secche, su una candela profumata mezza consumata, su un plaid piegato in modo troppo preciso. Inclinò il capo e si voltò verso di lui.
— C’è stato il tocco di una donna qui, vero?
Marco si fermò, le mani nel taschino della giacca, e per la prima volta la sua espressione si velò d’una nostalgia sottile.
— Sì — rispose, senza girarci intorno — c’è stata. Se n’è andata anni fa. Diceva che non sopportava quanto riuscissi a leggerla dentro. Mi amava, ma non sopportava di sentirsi vista fino all’anima.
Alessia lo guardò, colpita da quella sincerità. Non disse nulla. Lui le fece un cenno, invitandola a seguirlo.
Attraversarono il soggiorno e si affacciarono su un terrazzo ampio, con vista mozzafiato sulla Milano notturna. Le luci della città tremolavano come riflessi d’acqua, e in lontananza le guglie del Duomo sembravano scolpite nell’ombra. Un tavolino rotondo era già lì, elegante nella sua semplicità: tovagliette in lino grezzo, due calici, piatti in porcellana bianca, posate pesanti. Nessuna ostentazione, ma tutto curato con attenzione.
— Accomodati. Ci metto un attimo. — disse con un tono lieve, quasi domestico.
Si tolse la giacca e la lasciò sulla spalliera di una sedia, rimboccandosi le maniche con gesti precisi. Lei si sedette piano, incrociando le gambe con naturalezza, e lo osservò entrare in cucina, dove si mosse con la sicurezza di chi non improvvisa. Il tintinnio delle stoviglie e il profumo d’olio caldo si mescolavano all’aria tiepida della sera.
Alessia si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi un istante, respirando profondamente.
Non sapeva ancora se quella sera sarebbe stata una svolta o solo un'altra pagina da voltare. Ma in quel momento, tra il rumore della città lontana e il fruscio delle foglie sul terrazzo, sentì qualcosa dentro di lei cominciare a sciogliersi.
Mentre Marco è ai fornelli, con movimenti precisi e familiari, Alessia si alza dal tavolo del terrazzo senza dire nulla. Cammina lentamente verso l’interno, attraversa il soggiorno con passo silenzioso e sicuro. Non ha bisogno di esplorare: ha già notato tutto.
Arriva fino alla cucina e si ferma sulla soglia. Lui le dà le spalle, immerso nella preparazione — una padella sfrigola piano, il profumo di pesce e limone si mescola a quello delle erbe aromatiche. Lei lo osserva, e per un attimo resta immobile. Poi si avvicina alle sue spalle e lo chiama sottovoce.
— Marco.
Lui si gira, con il mestolo ancora in mano. Appena apre bocca per rispondere, Alessia lo blocca.
— Shh.
Gli prende il mestolo dalle mani, lo posa sul piano, poi con gesto lento gli carezza il petto. Lui la guarda fisso, sorpreso ma immobile. Lei sorride, un sorriso ambiguo, quasi ironico.
— Non fraintendere. — dice — Non sto cercando di sedurti. Sto cercando di capire cosa succede se smetto di aver paura.
E senza aggiungere altro, si sfila il top color champagne. Lentamente. Senza teatralità. Lo posa sulla sedia accanto al piano cottura e resta in piedi a seno nudo, lo sguardo fermo nei suoi occhi.
— Così. — continua, la voce ferma ma morbida — Così mi guardi davvero. Non con quegli occhi da maestro, ma con quelli da uomo. Ora cucinami qualcosa di buono. Ho fame, ma prima volevo restare nuda davanti a te senza vergognarmi. E volevo che tu lo vedessi.
Poi si volta e torna al terrazzo. Si rimette seduta, dritta, composta, come se nulla fosse successo. Solo il respiro leggermente più profondo, il cuore che batte un po’ più forte.
Resta immobile qualche secondo. Poi, lentamente, riprende il mestolo, torna alla padella e continua a cucinare.
Comparve sulla soglia del terrazzo con una bottiglia in mano. La stappò senza dire nulla, poi prese due calici dal tavolo. Il silenzio era denso, sospeso, ma non scomodo. Lei lo guardava mentre versava il vino, con lo sguardo fermo, ancora dritta sulla sedia, ancora a seno nudo.
Il profumo degli agrumi calabresi e del pesce si è ormai mescolato all’odore tiepido della sera milanese. Ma il suo sguardo è fisso su di lei. Su quel seno nudo, esposto senza ostentazione, ma con una calma che ha il sapore della sfida.
«Brindiamo Ale…» ripete con voce roca, «…ma se non ti rimetti il top, non rispondo di me.»
Lei resta in piedi, distante poco più di un metro. Non arretra. Il terrazzo è ampio, ma in quel momento potrebbe essere uno scrigno. Gli occhi di Marco le bruciano addosso. Non c'è brama, non ancora. C'è tensione. E lei la sente.
Allora si muove. Lenta. Decisa.
Passa dietro la sedia, afferra il bicchiere vuoto e lo porge a Marco, le dita che sfiorano volutamente le sue. Poi, senza parlare, si porta alle sue spalle. I tacchi picchiettano piano sulle piastrelle del terrazzo. Il cuore accelera. Di lui, non di lei.
Si abbassa un poco, avvicina il viso al suo orecchio. Le labbra quasi gli toccano la pelle.
«E se invece fosse il momento di vedere cosa succede se non ti trattieni?» mormora.
Poi si raddrizza, si passa una mano tra i capelli tirati della coda, e con eleganza si avvicina alla ringhiera. Guarda giù, Milano luccica, e il suo seno riflette appena le luci dei palazzi.
Si volta. Appoggia la schiena al parapetto, il petto proteso verso di lui.
«Brindiamo Marco. Ma fallo tu il primo passo. Per una volta.»
Era immobile, eppure viva come un respiro trattenuto.
Appoggiata con la schiena alla ringhiera del balcone, Alessia aveva spalancato le braccia, le mani distese lungo il corrimano sottile, i palmi rivolti all’indietro in una posa che la apriva al mondo, ma soprattutto a lui. Le spalle ruotate leggermente indietro, il petto nudo esposto con ostinazione silenziosa, alto, sodo, attraversato da una luce che faceva vibrare la pelle in ogni sua curva.
Le clavicole affioravano come ali sotto pelle, e il seno, perfetto nella sua forma piena, oscillava impercettibilmente a ogni respiro. I capezzoli, scuri e tesi, catturavano la luce fioca dei lampioni in un contrasto audace con la pelle chiara e tirata dal desiderio.
La gonna, nera e stretta, le fasciava i fianchi ma aveva ceduto all’apertura delle gambe: uno spacco appena accennato si era trasformato in una finestra sulla sua coscia sinistra, lasciando intravedere un tratto morbido di pelle nuda fino al ginocchio, e poi giù, fino alla caviglia, fino ai piedi nudi, saldamente poggiati sul pavimento in gres. Le ginocchia leggere, appena flesse, le conferivano un’aria naturale eppure studiata. Non stava posando: era così. Era semplicemente lei, in quel momento.
Il viso, incorniciato dai capelli mossi, mostrava una calma sovrana. Lo sguardo era fisso, senza un tremito, diretto dentro di lui come una lama: verde, liquido, magnetico. Le labbra, lievemente socchiuse, sembravano trattenere un pensiero non detto, o forse un comando.
Era bellissima. Ma non era solo bellezza: era padronanza.
Stava lì, senza fretta, aspettandolo.
Né fredda, né urgente.
Solo certa.
Certa di essere desiderata.
“potrei perdermi questa sera”
Marco restò a fissarla un istante ancora, come se volesse imprimersi ogni dettaglio di quella visione: la pelle tesa sotto la luce della sera, il seno esposto con innocenza e orgoglio, le braccia distese sulla ringhiera, la longuette nera che si apriva docile sulla coscia, scendendo fino ai piedi nudi. Non c’era nulla di forzato. Solo verità.
Fece un passo.
Poi un altro.
Si fermò a mezzo metro da lei. La guardò in silenzio, come si guarda una soglia da varcare. Sollevò una mano con lentezza, il palmo rivolto verso di lei, ma non ancora a contatto.
Le parole uscirono in un soffio, quasi senza fiato.
«Sei sicura?»
La sua voce era morbida, con dentro qualcosa di antico. Di vero.
Alessia inclinò appena il volto, un lampo di dolcezza negli occhi.
«Più che sicura.»
E allora lui toccò. Non con urgenza, non con fame, ma con la reverenza che si ha per qualcosa di desiderato a lungo.
Le dita sfiorarono la pelle del ventre, risalirono lentamente tra i seni, indugiarono sullo sterno. Poi Marco posò il palmo aperto al centro del petto, sentendone il calore, il battito.
La guardava negli occhi. Era ancora in tempo per tirarsi indietro.
Ma non lo fece.
Il palmo sul suo petto tremava appena, come se il calore della sua pelle gli avesse attraversato il braccio fino al cuore. Marco la fissava, immobile, con un’emozione così densa che a malapena riusciva a respirare. Poi la sua mano si mosse, risalendo lungo la linea del collo, scivolando con infinita dolcezza fino a sfiorarle il viso.
L’altra seguì, a specchio.
Le mani gli tremavano, sì, ma avevano la fermezza di chi sta per compiere un gesto da cui non si torna indietro.
Le prese il viso tra le mani come fosse la cosa più preziosa del mondo. I pollici accarezzarono le guance, le dita si posarono leggere sotto le orecchie, e i suoi occhi si fecero più scuri. Più profondi.
Poi, senza parole, si chinò.
Il primo contatto fu lieve. Quasi casto. Solo un tocco sulle labbra, lento, trattenuto, come una domanda.
Alessia chiuse gli occhi. Il suo respiro cambiò.
E Marco lo sentì.
Sentì la risposta, senza bisogno di voce.
Il secondo bacio fu più pieno. Le sue labbra cercarono le sue con più decisione, si adattarono al loro contorno, le spinsero ad aprirsi. E lei aprì. Senza esitazione, con una fame che non era fame: era bisogno.
Lui la strinse appena, le mani ancora sul viso, il pollice che le scivolava sull’angolo della bocca mentre le loro lingue si sfioravano, si cercavano, si trovavano.
Il bacio si aprì, diventò profondo. Non c’era più esitazione. Solo il gusto dell’altro. Il calore. La resa.
Alessia si staccò un istante, appena. Ma non aprì gli occhi.
Sussurrò:
«Finalmente.»
E le sue mani salirono a cercarlo. Non per tenerlo. Ma per lasciarsi andare davvero.
Le loro bocche erano ormai fuse, affamate ma lente, come se volessero assaporare ogni istante, ogni tremito, ogni respiro trattenuto per troppo tempo. Marco la baciava con crescente intensità, eppure con la delicatezza di chi non ha fretta, perché finalmente ha ciò che desiderava.
Poi, senza smettere di baciarla, le fece scivolare una mano dietro le cosce. L’altra la sostenne alla schiena. Lei lo sentì abbassarsi appena sulle ginocchia e capì, senza bisogno di parole. Le braccia gli scivolarono intorno al collo. Il seno, ancora scoperto, gli premeva sul petto.
In un solo gesto, Marco la sollevò da terra.
Le sue labbra non si staccarono mai dalle sue.
La portò all’interno con passo sicuro, ma cieco a tutto ciò che non fosse lei. Quando attraversarono la soglia del terrazzo, Alessia urtò con un piede un bicchiere posato a terra. Il vetro si ribaltò e si infranse in mille frammenti sonori sul pavimento.
Ma nessuno dei due si mosse.
Nessuno dei due si voltò.
Il mondo attorno poteva crollare: loro erano già altrove.
Marco raggiunse il divano, si lasciò andare piano sulla seduta, ancora stringendola contro di sé. Lei gli restò in grembo, le gambe piegate da un lato, i seni nudi che gli sfioravano il mento, la bocca che non smetteva di cercare la sua.
Si baciarono ancora, più profondamente. Ora non c’era più spazio tra loro. Solo la stoffa sottile della longuette, le mani che si cercavano, le labbra che si divoravano con la fame di chi aveva aspettato troppo a lungo.
Le loro labbra ancora unite, il respiro caldo sulle guance, le mani che si stringevano con forza. Ma poi, all’improvviso, Alessia si staccò. Un gesto deciso, netto, senza parole.
Scese dalle sue gambe e si alzò in piedi, proprio davanti a lui, nuda dal busto in su, il fiato ancora accelerato, le pupille dilatate. Sollevò appena il mento, lo guardò con fermezza, con qualcosa che non era sfida, ma libertà ritrovata.
«Aspetta» sussurrò.
E con un gesto calmo ma inesorabile, infilò i pollici nella vita della longuette. La fece scendere lentamente lungo i fianchi, seguendone il movimento con un ondeggiare naturale, fino a lasciarla cadere ai suoi piedi, in silenzio. Poco dopo, le culotte nere scivolarono allo stesso modo, con un tocco deciso, lasciandola completamente nuda sotto la luce calda del soggiorno.
Restò lì, dritta, senza coprirsi. Il seno ancora sollevato dal respiro, il ventre teso, la pelle chiara illuminata come seta. Si costrinse a non abbassare le braccia, a non cedere all’istinto di nascondersi. In quel momento, era fiera. E vulnerabile. Ma pienamente sua.
Poi si girò. Lentamente.
Gli mostrò la curva perfetta della schiena, la vita sottile, i glutei sodi e pieni, il profilo delle cosce che si stringevano a ogni passo.
Volse il volto appena, da sopra la spalla, e con voce bassa, quasi un soffio, chiese:
«Ti piace quello che vedi?»
Marco non riuscì a parlare. Deglutì, piano. Annuì, con un lieve tremito.
La risposta era tutta nei suoi occhi.
Lei si voltò di nuovo e lo raggiunse. Si abbassò tra le sue gambe, in ginocchio, fiera, offerta, pronta. Ma quando le sue mani si mossero verso la cintura…
«No» disse lui, con un tono fermo e gentile insieme. Gli occhi negli occhi.
«Non adesso. Avremo tempo per i giochi… ora vieni su.»
Alessia si sollevò, lentamente.
Gli salì in grembo a cavalcioni, le mani sulle sue spalle, le cosce che lo strinsero, sentendo sotto di sé la durezza evidente, vibrante, che si tendeva contro il tessuto dei jeans.
Marco abbassò lo sguardo sul loro punto di contatto, poi tornò ai suoi occhi.
Mentre lei lo baciava di nuovo, con una dolcezza che sapeva di resa, le sue mani si mossero alla cintura pitonata. La slacciò con gesti lenti, precisi. Poi i bottoni dei jeans, uno dopo l’altro. Lei lo sentì liberarsi, la punta spingere contro di lei.
Le labbra si cercarono ancora, e mentre il bacio si faceva più profondo, lui entrò in lei.
Senza esitazioni.
Senza forzare.
Solo un’unione naturale, fluida, calda, che fece tremare entrambi.
Lei si aggrappò a lui, ansimando piano contro la sua bocca.
Marco la strinse, e per la prima volta, le sussurrò una sola parola, contro le sue labbra, con voce roca:
«Adesso sì.»
Alessia lo sentì entrare lentamente, con un’intensità quasi irreale. Un colpo di calore che le risalì lungo la schiena, fino al centro del petto. Non emise un suono. Solo un lungo respiro che le scivolò fuori dalle labbra, mentre restava con gli occhi chiusi, la fronte appoggiata alla sua. Lo strinse con le gambe, come per ancorarsi a lui.
Era dentro di lei.
Non solo il suo corpo.
Ma tutto.
Lo aveva sognato fin dalla prima volta che lui le aveva stretto le mani sul lungolago, quando aveva detto poco, ma l’aveva guardata come nessuno da anni. Era bastato uno sguardo per farle crollare ogni difesa. Da allora, ogni notte, ogni silenzio, ogni dubbio era tornato a quel momento. Alla sua voce calma. Alla sua sicurezza.
E ora… finalmente, lui era lì. In lei. Senza parole, senza spiegazioni. Reale.
Marco si mosse dentro di lei con lentezza, profondità, come se sapesse che ogni gesto conteneva qualcosa di più grande. Le sue mani le stringevano i fianchi, le accarezzavano la schiena, il collo, le scapole. Lei si muoveva a piccoli cerchi, sempre più morbidi, sempre più liquidi. Lo sentiva. Lo sentiva davvero.
Un’onda si aprì dentro di lei. Non era solo piacere. Era qualcosa che le toglieva il fiato.
Era il sentirsi desiderata.
Desiderata per quello che era.
Non per ciò che mostrava. Non per un ruolo. Non per un compiacimento.
Solo per essere Alessia. E per il corpo vivo, caldo, imperfetto e meraviglioso che finalmente reclamava il proprio spazio.
Si staccò leggermente da lui, giusto per guardarlo negli occhi. I capelli le cadevano disordinati sulle spalle. Le guance arrossate, le labbra umide, il seno che si muoveva a ogni respiro.
Gli occhi erano lucidi. Ma non stava piangendo.
Era viva.
Così viva da tremare.
«Non voglio che finisca» sussurrò, mentre si muoveva su di lui, sempre più lentamente, cercando di prolungare ogni secondo, ogni contatto.
Marco non rispose. Le posò solo una mano sul viso, con una tenerezza che non lasciava spazio al dubbio.
La strinse a sé.
E lei capì.
Che nessuno le avrebbe più tolto quel momento.
I movimenti si fecero più intensi.
Non violenti.
Ma necessari.
Il corpo di Alessia aveva smesso di obbedire alla mente: si muoveva da solo, guidato solo da quel nodo che le si era stretto nel basso ventre e che ora stava per esplodere. I muscoli delle cosce le tremavano, le mani si aggrappavano alle sue spalle, poi gli passarono dietro la nuca, stringendolo forte contro il petto.
Le labbra di lui erano ancora sulle sue, poi sul collo, poi sul seno, come a volerla tenere intera, mentre lei si apriva.
«Marco…»
Un sussurro spezzato, trattenuto, impastato di piacere.
Poi venne.
Con un gemito soffocato nella sua spalla, il corpo teso, il ventre contratto, il bacino che si immobilizzava mentre l’onda la attraversava. Le gambe gli strinsero i fianchi, il respiro le sfuggì dalla gola in un tremito prolungato. I capezzoli duri sfioravano il suo petto nudo, le unghie gli segnavano la schiena. Era un orgasmo pieno, scuro, liberatorio. E mentre la lasciava vuota e piena insieme, lei non smise di guardarlo.
Marco restò dentro di lei, fermo, scosso, sentendo il suo corpo ancora pulsare attorno al proprio. Non servivano parole. Ma una, gli venne lo stesso, d’istinto.
«Ale… non stiamo usando nulla…»
La voce era roca, spezzata dal controllo che cercava di mantenere.
Alessia lo guardò, ancora senza fiato, e con un sorriso disarmante, gli prese il viso tra le mani.
Gli occhi lucidi, ma fermi.
«Lo so.»
Poi, più piano:
«Voglio sentirti dentro. Tutto.»
Non c’era esitazione. Solo bisogno.
Marco chiuse gli occhi. Non c’era più alcuna barriera. Nessun freno.
Riprese a muoversi dentro di lei, ora più forte, più profondo, sentendola ancora bagnata, ancora viva. Le mani le tenevano i fianchi, lei si lasciava andare, lasciava che lui prendesse il ritmo, che si perdesse.
Poi accadde.
Un gemito gli sfuggì dalla gola, improvviso, grezzo, vero. Il bacino scattò ancora due, tre volte, poi si immobilizzò contro il suo, premendola forte. Un brivido lo attraversò dalla base della schiena fino alla gola.
E venne.
Tutto in lei.
Senza trattenersi.
Con un’intensità che lo piegò in avanti, contro di lei. Il viso affondato nel suo collo, il corpo tremante, la mente vuota.
Restarono così.
Stretti.
Fermi.
Respirando insieme.
Marco rimase dentro di lei anche dopo, quando l’onda del piacere era ormai passata e il respiro si stava facendo più regolare.
Alessia si muoveva ancora a piccoli cenni, impercettibili, come se volesse trattenere quella sensazione. Lo sentiva ancora pulsare, ma lentamente, mentre la durezza di poco prima si stava sciogliendo.
Eppure, lui era ancora lì.
Con lei.
In lei.
Le labbra si cercarono di nuovo.
Non più affamate, non più impazienti.
Ma lente, morbide. Un bacio lungo, caldo, che scivolava nel tempo come un ultimo sorso da gustare piano.
Poi un altro.
E un altro ancora, più lieve.
Marco le sfiorò il volto con le dita.
Le passò una mano tra i capelli umidi sulla nuca, poi lungo la schiena.
Alessia si lasciò andare sul suo petto, sentendosi leggera, svuotata e viva insieme. Lo accarezzò sul torace, poi gli baciò piano la spalla, la clavicola, il mento.
Si strinsero in un abbraccio, silenzioso, naturale, come se non potesse esserci altro modo per finire. I loro corpi si adattarono, pelle contro pelle, mentre il fiato caldo gli solleticava il collo.
Lui abbassò il viso e le baciò piano la curva del collo, poi l’orecchio, poi ancora più giù, posando le labbra sul punto dove il cuore le batteva più forte.
E lì, con voce bassa, quasi impercettibile, le disse:
«Grazie.»
Nient’altro.
Perché in quel momento, bastava tutto quello.

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2025-07-23
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