Alessia

di
genere
sentimentali

Alessia infilò la chiave nella toppa senza neanche guardare. Spalancò la porta con un gesto meccanico, e la casa si aprì davanti a lei come una stanza d’albergo dopo il checkout: ordinata, muta, vuota. Spinse la porta con il piede e la richiuse piano, quasi temendo che quel rumore potesse spezzare l’equilibrio precario che si portava addosso da settimane.
Era tardi, ma non troppo. Le sette passate da poco. L’aria di luglio era ancora tiepida, anche se dentro l’appartamento sembrava ferma, priva di ossigeno. Si tolse i sandali e li lasciò nel corridoio. La camicetta leggera, incollata alla schiena, le dava fastidio. Ma non aveva voglia di cambiarsi. Non ancora.
Si trascinò fino al divano e si lasciò cadere con un sospiro che era quasi un gemito. Lasciò la testa all’indietro, chiuse gli occhi. Restò così, immobile, in ascolto del silenzio.
Non era la prima sera da sola, ma ogni volta sembrava la prima. Ogni volta quella porta chiusa alle sue spalle diventava un muro, e ogni sera un promemoria di ciò che non c’era più.
Lui se n’era andato da due mesi. Senza scenate, senza pianti. Solo con una frase chiara, mormorata quasi con dolcezza: “Io non ti amo più”. Da allora, la casa era rimasta uguale, ma lei era sparita. O meglio: era rimasta una versione svuotata, grigia, come se ogni gesto si portasse dietro l’eco di ciò che prima aveva un senso.
Aprì gli occhi e il suo sguardo inciampò nel riflesso del vetro. Si vide di sfuggita, e non si riconobbe. Tornò a guardarsi. Il volto stanco, tirato. I capelli disordinati, crespi sulle punte. Gli occhi verdi sembravano più spenti, incassati, e quella macchiolina marrone nell’iride sinistra che lui diceva di amare tanto ora sembrava solo un difetto. Le labbra screpolate. Il naso più storto del solito.
Si vide brutta. Brutta, vecchia, stanca. Non si fece alcuno sconto. Non era la tristezza a farle male, era la consapevolezza: così com’era, non si sarebbe voltato nessuno. Nessuno l’avrebbe cercata con gli occhi in una stanza. Nessuno avrebbe desiderato accarezzarla, toccarla, spogliarla.
Non provò a reagire. Né rabbia né forza. Si sentiva semplicemente finita. Come se il suo tempo fosse scivolato via mentre lei guardava da un’altra parte.
Restò lì, in silenzio, con le braccia molli lungo i fianchi e gli occhi fissi su quel riflesso crudele, finché la luce del giorno non si abbassò abbastanza da renderlo più gentile. Ma dentro non cambiava nulla. Alessia era ancora lì, nella penombra, e si sentiva più sola che mai.
Alle otto e venti, dopo aver fissato per troppo tempo il soffitto della cucina, Alessia prese il telefono e scrollò la rubrica fino alla M. Esitò un istante, poi premette su Chiama.
«Ehi Ale, tutto bene?» rispose Marta quasi subito, con quella voce squillante che sembrava non aver mai conosciuto la stanchezza.
Alessia attese qualche secondo prima di parlare, lasciando che il nodo scendesse un po’.
«Ho bisogno di uscire» disse piano, come se lo stesse ammettendo più a sé stessa che all’amica. «Solo per bere qualcosa, chiacchierare, non stare qui.»
Un attimo di silenzio. Poi la risposta più semplice e diretta.
«Dammi mezz’ora.»
Alle nove e mezza erano sedute a un tavolo di legno scuro, uno di quelli lunghi da birreria, sotto una fila di lampadine appese a catenelle leggere che oscillavano appena nella brezza estiva. Intorno, il brusio costante del locale all’aperto, le risate, i calici che tintinnavano, qualche cane legato alla sedia del padrone.
Alessia stringeva tra le mani un calice da IPA, la schiuma ancora densa lungo il bordo. Marta l’osservava da sopra il proprio bicchiere, senza dire nulla per qualche secondo.
«Ti vedo male, sai?» disse infine, con un tono che non era giudizio ma affetto puro.
Alessia fece un sorriso stanco e si passò le dita tra i capelli. «Mi sento peggio di come sembro.»
«E allora racconta. Sputa fuori tutto.»
Lei fece un sorso lungo, cercando il coraggio tra l’amaro della birra. Lo trovò in fondo al bicchiere. Poi appoggiò il calice, prese un respiro e cominciò.
Marta aveva scelto un vestitino leggero, nero, con le spalline sottili che lasciavano scoperte le clavicole e un accenno di décolleté. I capelli rossi, sciolti sulle spalle, catturavano la luce calda dei lampioncini. Gli occhi azzurri, truccati con discrezione, sembravano brillare ogni volta che sorrideva. Sembrava una di quelle donne che non fanno fatica a sentirsi a proprio agio ovunque. Eppure Alessia sapeva che non era sempre stata così.
«Sai che stasera ti guardavo e mi chiedevo quando sei diventata così… perfetta?» disse Alessia con un sorriso appena accennato, mentre rigirava il calice tra le dita.
Marta rise piano, inclinando il capo di lato. «Perfetta? Ma dai. Mi hai vista per anni con le felpe bucate e i capelli raccolti con l’elastico da cucina.»
«Appunto. E adesso sembri uscita da una rivista.»
«Ho solo cominciato a volermi bene. O almeno, a provarci. E mi sono rotta di aspettare che fosse qualcun altro a farmi sentire bella.»
Alessia abbassò lo sguardo, sorrise amara. «Io invece non ci riesco. Mi guardo e non mi piaccio. Anzi, mi faccio schifo.»
«È perché stai ancora cercando te stessa in uno specchio che non ti appartiene più.»
Lei scosse la testa. «Facile per te dirlo. Tu sei già… oltre.»
Marta allungò una mano e le strinse il polso, con dolcezza ma fermezza. «Ale. Anch’io ho toccato il fondo, ricordi? Quelle mattine in cui non volevo nemmeno uscire a prendere il pane? La differenza è che a un certo punto ho deciso che quella non sarei stata più io. Ma sai una cosa? Non è successo da sola. Mi sono fatta aiutare. E tu puoi fare lo stesso.»
Alessia la guardò per qualche secondo in silenzio. Poi fece un altro sorso, lungo, e appoggiò il bicchiere sul tavolo.
«Va bene. Ma per stasera voglio solo non pensare. Posso almeno avere questo?»
Marta sorrise. «Hai tutto il tavolo, il tempo e la birra che vuoi. E domani, se vuoi, ripartiamo da lì.»
Passarono qualche minuto a parlare del più e del meno, la birra a scivolare via lenta, il brusio della birreria a fare da sottofondo. Alessia sembrava essersi sciolta un po’, ma dentro aveva ancora quella domanda sospesa, e a un certo punto la lasciò uscire.
«Quando hai detto che ti sei fatta aiutare… cosa intendevi, esattamente?»
Marta appoggiò il calice e la guardò con calma. «Che non ce l’ho fatta da sola. E nemmeno con lo psicologo. Avevo il marito lì, ogni giorno, ma era come se non esistessi. Non mi guardava più. Non mi cercava. E io, piano piano, avevo smesso di sentirmi donna.»
Fece una pausa, si passò una ciocca dietro l’orecchio.
«Un giorno, per caso, ho conosciuto una persona sul web. Un uomo. Non è uno psicologo, né un esperto di moda o fitness o chissà cosa. Però… ha qualcosa. Ascolta, osserva, capisce. Ti aiuta a rivederti con occhi nuovi. Non ti cambia, ti mette davanti allo specchio e ti insegna a scegliere cosa vedere.»
Alessia la fissava in silenzio, senza battere le ciglia. «E lo fa… per lavoro?»
Marta sorrise appena. «Non proprio. Se vuoi, ti do il numero. Ma attenzione, non è gratis.»
Alessia alzò un sopracciglio. «Quanto hai speso, se posso chiedere.»
Marta la guardò dritta negli occhi. «Lui non vuole soldi.»
E non aggiunse altro.
Era martedì sera, quasi le undici. Alessia fissava il soffitto della camera da letto, incapace di dormire. La casa era buia, silenziosa. E dentro di lei qualcosa stava cedendo.
Prese il telefono dal comodino e, dopo un lungo esitare, scorse fino al nome di Marta. Prese fiato. Chiama.
«Ale? Tutto bene?» rispose l’amica, la voce impastata dal sonno, ma presente.
«Scusa… so che è tardi. Ma non ce la faccio più. Ti va… ti va ancora di darmi quel numero?»
Silenzio per un momento. Poi un respiro. «Certo. Me l’aspettavo. Ma ascoltami bene.»
«Dimmi.»
«Non è uno qualunque. Non aspettarti frasi fatte, né complimenti vuoti. Non si accontenta di poco e non gioca. È un uomo… particolare.»
«Quanto particolare?»
«Ha poco più di cinquant’anni. Ha una sensibilità rara, profonda, a tratti persino scomoda. È uno che ti vede davvero. Ma proprio per questo, è fragile. E anche pretenzioso. Non gli piacciono le donne che fingono, che si raccontano storie. Devi essere vera. Cruda, se serve. Ma vera.»
Alessia chiuse gli occhi. Si sentiva piccola, vulnerabile. Ma non aveva alternative.
«Mi conosci Marta… sai che non ho più niente da fingere.»
«Allora sei pronta.»
Un bip. Un messaggio in arrivo.
Alessia abbassò lo sguardo sul telefono. Un nome. Un numero.
Lo fissò per qualche secondo, come se potesse capirlo solo a guardarlo.
Poi sussurrò: «Grazie.»
Marta sorrise dall’altra parte del telefono. «Solo una cosa. Se decidi di scrivergli… fallo di sera. E non cercare di piacergli. Lascia che ti veda.»
Alessia restò a lungo con il messaggio scritto ma non inviato. Ogni parola pesava, ogni punto sembrava definitivo. Alla fine, scelse la semplicità:
Buonasera. Mi chiamo Alessia, sono un’amica di Marta. Mi ha parlato di lei con molto rispetto. Sto attraversando un momento difficile e mi chiedevo se potesse aiutarmi, come ha fatto con lei.
Lo inviò alle 23:17. Poi spense il telefono e si infilò sotto le lenzuola, con il cuore che batteva forte per un messaggio così piccolo.
La risposta arrivò la mattina dopo, poco dopo le otto. Una frase breve:
Buongiorno Alessia. Se vuole, possiamo parlarne questa sera, intorno alle 22. Preferisco cominciare con una voce.
Alle 21:58 era già seduta sul divano, la luce soffusa, il telefono stretto tra le mani. Il display segnava le 22:03 quando arrivò la chiamata.
«Pronto?»
«Alessia?»
La voce era calma, bassa, leggermente ruvida. Parlava piano, come se pesasse ogni parola.
«Sì, buonasera. Grazie per avermi richiamata.»
Un breve silenzio. Poi lui: «Marta mi ha accennato qualcosa. Dice che lei ha bisogno di essere guardata di nuovo. È così?»
Alessia abbassò lo sguardo, come se lui potesse vederla. «È che… non mi riconosco più. Non mi piaccio. Non mi sento più donna. Con Marta ha fatto un piccolo miracolo. Vorrei capire se può fare lo stesso anche con me.»
Un sospiro appena accennato attraversò la linea. Poi la risposta, netta.
«Se decido di occuparmi di lei, ci sarà solo una condizione. L’abnegazione. Totale. Niente lamentele, niente bugie. Solo verità. Anche quelle che fanno male.»
Alessia inghiottì un nodo in gola. «D’accordo.»
«Ci vediamo domenica. Verrò a prenderla alle nove. La porterò al lago. Cammineremo, parleremo. Non sarà un test. Ma lo sarà.»
Lei annuì in silenzio, anche se lui non poteva vederla.
«Domenica, allora.»
«Domenica.»
Il messaggio arrivò alle 8:59.
Sono qui. Quando vuoi, scendi.
Alessia lo lesso con un respiro trattenuto, come se ogni parola avesse il peso di una decisione. Si guardò allo specchio prima di uscire: jeans chiari, una blusa morbida color panna, capelli sciolti, mossi come sempre. Niente trucco, solo un filo di balsamo labbra. Non sapeva bene se fosse una scelta o una resa.
Quando uscì dal portone, la vide subito: una Mini Cooper rosso ciliegia, con il tettuccio bianco e le classiche righe sul cofano. Era parcheggiata al lato del marciapiede, lucida, quasi fuori posto nel grigiore anonimo della domenica mattina.
Appoggiato al cofano, lui.
Non bello nel senso canonico, ma di quel tipo che attrae per qualcosa che non si capisce subito. Alto, forse un metro e ottanta, fisico da impiegato con poco tempo per se stesso ma nessuna trascuratezza. I capelli castani con qualche filo d’argento che gli dava credibilità. Gli occhi, però, erano la cosa più spiazzante: grigio-verdi, ampi, diretti, di quelli che sembrano voler scoprire qualcosa che tu stessa non sai.
Indossava jeans morbidi, vissuti. Una camicia verde con piccoli fiori chiari stampati in diagonale. E una cintura in pelle pitonata — stonata, e proprio per questo perfetta.
Quando la vide, si staccò dal cofano e le si fece incontro con passo calmo. Non disse nulla subito. Le porse la mano, poi le avvolse la sua con entrambe le sue, calde e morbide.
Il volto si aprì in un sorriso che non cercava di conquistare, ma di rassicurare.
«Piacere, Alessia. Sono Marco.»
Lei annuì, sorpresa da quel contatto così semplice ma avvolgente. «Ciao.»
Lui fece un cenno verso la portiera aperta. «Andiamo? Il lago ci aspetta.»
Marco le aprì la portiera con un gesto semplice, quasi antico, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Alessia si accomodò sul sedile in pelle nera, compatto ma comodo, mentre lui le richiudeva la portiera con dolcezza, evitando di farla sbattere. Poi salì al posto di guida, fece scattare la cintura di sicurezza e con un’occhiata laterale si assicurò che anche la sua fosse allacciata.
«Bene» mormorò.
Girò la chiave e il motore della Mini Cooper rispose con un rombo contenuto, quasi felice. Uscirono dal parcheggio con una manovra fluida e, una volta in strada, la piccola vettura cominciò a muoversi con agilità tra le prime code della domenica. Marco guidava con attenzione e rapidità, ma ogni gesto era misurato, sicuro. Nessuna accelerazione brusca, nessun’esitazione: solo una presenza costante, salda, come se sapesse sempre dove mettere le mani. Alessia non si accorse neppure del momento in cui si rilassò.
Appena imboccarono l’autostrada, con la luce chiara che entrava obliqua dal parabrezza e il rumore ovattato delle gomme sull’asfalto, lui parlò.
«Raccontami tutto, Alessia. Voglio sapere chi sei. Tutto.»
Lei rimase in silenzio per un istante. Poi guardò fuori dal finestrino. I campi, le prime colline, il cielo già alto. Aprì le labbra. Parlò.
«Sono sempre stata una brava ragazza. Quella che fa le cose per bene. Ho studiato, lavorato, costruito una vita. E poi ho trovato lui. Un uomo gentile, affidabile. Ci siamo voluti bene. Davvero. Ma a un certo punto... io non so dire quando, qualcosa ha cominciato a spegnersi. Lentamente. Come quando la fiamma di una candela si abbassa e tu non te ne accorgi finché non resti al buio.»
Fece una pausa, si voltò verso Marco. Lui non parlava, ma la ascoltava davvero. Gli occhi puntati sulla strada, ma presenti, attenti.
«Ho continuato a essere quella brava. Quella che organizza, che copre, che perdona. Anche quando non c'era più nulla da coprire. E lui… non mi ha più visto. Neppure quando mi sono persa.»
La voce le tremò appena. «Un giorno mi ha detto che non mi amava più. Che non era colpa mia. Ma non era neppure colpa sua. E se n’è andato. Così. E io sono rimasta in piedi. Ma vuota.»
Alessia guardava fuori, le ciglia socchiuse contro la luce. «Sono un’impiegata amministrativa. Niente di speciale. Contratti, fatture, telefonate, pause caffè con colleghi con cui non ho mai legato davvero. Ogni tanto qualcuno prova a chiacchierare, ma io… non ho voglia. Non più.»
Marco non rispose. Fece solo un cenno, quasi impercettibile, come se volesse dire continua.
«La sera torno a casa. Mi tolgo le scarpe, mi scaldo qualcosa nel microonde, mi metto il pigiama prima ancora di aver finito di mangiare. E poi? Mi siedo sul divano. Fisso il soffitto, il telefono, la tv che non guardo. Dormo male. Sogno peggio.»
Si passò una mano tra i capelli, sentendo le punte secche. Il gesto la fece arrossire leggermente, come se si fosse appena ricordata di com’era uscita quella mattina.
«Il fine settimana esco. Faccio passeggiate da sola. Scarpe da ginnastica, una felpa, magari un sentiero nel verde. Cammino ore. Come se potessi lasciarmi indietro. Ma quando torno… sono sempre io. Solo più stanca.»
Ancora silenzio. Solo il suono del motore e il fruscio costante delle gomme sull’asfalto.
Alessia si voltò verso di lui. Marco teneva lo sguardo fisso sulla strada, ma la sua mascella si muoveva appena, come se stesse trattenendo ogni parola per rispetto.
Lei deglutì, poi mormorò. «Non so neanche più chi sono. Forse non l’ho mai saputo.»
Lui annuì una sola volta. E continuò a guidare.
Il paesaggio scorreva in diagonale: campi, capannoni, colline basse ancora velate di foschia. Nell’abitacolo c’era solo il rumore del motore e il respiro di due persone che non si conoscevano ancora. Alessia aveva appena finito di parlare quando il silenzio cambiò consistenza, come acqua che da ferma comincia a muoversi sotto la superficie.
Marco la guardò un attimo. Non il colpo d’occhio cortese di chi controlla se stai bene: uno sguardo pieno, rapido ma dritto, che la attraversò e tornò subito alla strada.
Parlò senza alzare la voce. «Mi hai descritto la tua vita. Ma io non voglio sapere chi eri, né cosa sei diventata. Io voglio sapere chi sei. Cosa desideri. Perché mi hai cercato.»
Le parole uscivano cadenzate, con pause brevissime tra un blocco e l’altro, come se volesse che ognuna trovasse posto dentro di lei prima di passare alla successiva.
Alessia restò muta. Aveva appena raccontato mesi di solitudine, eppure quella domanda la mise più a nudo di tutto il resto. Chi sei? Il primo impulso fu rispondere con etichette: età, lavoro, storia finita. Ma capì che non era quello. Lui glielo aveva appena tolto da sotto i piedi. Non chi eri. Chi sei.
Si inumidì le labbra. «Non lo so» disse. E mentre lo diceva sentì che era vero in modo quasi violento. «So cosa non sono più. Non sono più la sua compagna. Non sono quella che si compiaceva di essere scelta. Non sono la persona che rideva facile. Il resto… è vuoto.»
Fece una pausa, guardò la linea bianca continua che correva davanti a loro. «Cosa desidero? Vorrei… sentirmi guardata. Non compatita. Vorrei sentire che il mio corpo non è finito qui. Che posso ancora… essere toccata, ma prima ancora desiderata. E vorrei smettere di vergognarmi quando mi spoglio da sola per farmi la doccia.»
Respirò più piano. «Perché l’ho cercata? Perché Marta è cambiata. Non solo fuori. Nei gesti. Nello sguardo. Qualcuno l’ha vista. Io voglio quello. Voglio essere vista. Se questo significa abnegazione… proverò.»
Marco non commentò subito. Un piccolo cenno, quasi un sì appena accennato, accompagnò un cambio di corsia morbido. Poi: «Bene. Continuiamo al lago.»
Posteggiarono accanto a un’aiuola ordinata, dove il profumo del tiglio si mescolava alla brezza sottile che saliva dall’acqua. Marco spense il motore con un gesto secco, lasciando che il silenzio si distendesse come una coperta tra loro. Poi uscì, aggirò l’auto e le aprì la portiera. Nessuna frase inutile, solo quel gesto cortese e calmo.
Alessia scese, guardandosi intorno. Il lungolago era tranquillo ma non deserto. Famiglie, coppie, podisti solitari, cani al guinzaglio. Le acque del lago si muovevano appena, con riflessi d’argento liquido sotto il cielo chiaro.
Camminarono in silenzio per un po’. Lui con le mani in tasca, lo sguardo dritto davanti a sé. Lei leggermente un passo dietro, cercando un senso in ogni passo.
Poi Marco si fermò davanti a un muretto basso che costeggiava il lago. Si voltò e le indicò il bordo.
«Siediti qui. E resta ferma.»
Alessia lo guardò, esitante. Non chiese spiegazioni. Solo un mezzo battito di ciglia, poi obbedì. Si sedette sul bordo in pietra, con le mani strette tra le cosce e le gambe unite, leggermente in punta per non toccare del tutto terra.
Marco fece un passo indietro. Poi cominciò a guardarla. Non solo osservare — guardarla davvero. Si spostava lentamente, cambiava angolazione. A volte si chinava appena, a volte inclinava la testa come un pittore che cerca la luce giusta. Lo sguardo era serio, attento, ma non c’era durezza. Solo una concentrazione profonda, totale.
Ogni tanto annuiva. Poi scuoteva piano la testa, come se dentro di sé stesse valutando, confrontando, cercando il nodo centrale da sciogliere. Non parlava. Non prendeva appunti. Non faceva foto. Solo lei, lì, seduta, in pieno giorno.
Molte persone passarono accanto a loro. Qualcuno lanciò uno sguardo curioso. Ma la maggior parte si voltava più per la camicia verde a fiori sgargianti che Marco indossava, che per Alessia, immobile sul bordo di pietra come una statua troppo vera per essere notata.
Lei, intanto, avvertiva ogni muscolo del suo corpo. Ogni movimento degli occhi di lui sembrava amplificare la consapevolezza di sé. Sentiva la pelle sotto il cotone della maglia. Il modo in cui le gambe si toccavano. La tensione tra le scapole. Il pensiero continuo: cosa vede? Ma non osava chiederlo.
Dopo un tempo che sembrava non finire mai, Marco smise di muoversi attorno a lei. Si avvicinò con calma, quasi senza rumore, e si sedette sullo stesso muretto, a un paio di metri di distanza. Non le rivolse lo sguardo subito. Tirò fuori dalla tasca una sigaretta elettronica — lunga, metallica, dal corpo satinato. Alessia la trovò sproporzionata, quasi ridicola nella sua eleganza ipertecnologica.
Inspirò, poi svaporò lentamente verso il lago, gli occhi puntati lontano, come se stesse guardando qualcosa oltre il paesaggio. Ogni tanto, con la coda dell’occhio, tornava su di lei. Ma non diceva niente. La osservava in silenzio. E più passava il tempo, più Alessia si sentiva nuda. Esposta, ma non violata. Come se lui stesse leggendo qualcosa dentro di lei che lei stessa non sapeva di avere scritto.
Poi, finalmente, parlò.
«Alzati, per favore. Cammina davanti a me.»
Lei lo fece senza obiettare. Si mise in piedi e cominciò a camminare lungo il sentiero, sentendo i suoi occhi dietro di sé come una mano leggera appoggiata alla schiena. Percorsero insieme una ventina di metri, poi lui la fermò con un semplice: «Basta così.»
Si avvicinò di nuovo, le stette davanti per un momento. Non troppo vicino, ma abbastanza da farle sentire la sua presenza piena. Mise la mano destra in tasca, poi le porse il braccio con naturalezza, senza enfasi.
«Va bene Alessia, direi che per oggi è abbastanza.»
Lei esitò un istante, poi gli prese il braccio. Un contatto misurato, rispettoso. Si avviarono lentamente verso la macchina.
«Probabilmente ti aspetti che ti dica qualcosa» continuò con voce calma, appena sopra un sussurro, «ma nella realtà oggi abbiamo solo fatto una passeggiata per conoscerci.»
Un’altra boccata di silenzio.
«Ora devo riflettere. Nei prossimi giorni mi farò vivo io.»
Si fermarono davanti all’auto. Il lago alle spalle, le portiere chiuse, solo il riflesso delle nuvole sul tettuccio bianco della Mini.
«Credo che quello che desideri si possa fare. Ma dobbiamo lavorare. Molto. Insieme.»
Le aprì la portiera senza guardarla. E lei salì, in silenzio.
Durante il viaggio di ritorno, l’atmosfera cambiò in modo sottile, come succede quando un temporale si allontana e l’aria resta sospesa tra il fresco e l’incerto. Nessuno dei due accennò più alla mattinata trascorsa, né a quello che Marco aveva detto — o non detto — sul loro futuro rapporto.
Parlarono del tempo, di quanto fosse stato clemente per essere luglio, del caldo che di solito grava sulla pianura in quei giorni. Poi vennero le vacanze: lei avrebbe probabilmente fatto qualche giorno in Liguria con una cugina, lui non lo sapeva ancora, forse montagna, forse nulla.
Quando la conversazione virò sui libri, qualcosa si accese. Marco parlava di Stephen King con entusiasmo misurato, con l’occhio clinico di chi ama più la costruzione che l’effetto. Alessia, invece, confessò di avere gusti più ampi, a volte disordinati, ma mai banali. Non i romanzetti rosa, precisò. Mai quelli. “Mi fanno sentire un manichino dentro un centro commerciale,” disse, e lui rise piano, annuendo.
Parlavano come due che si sono già incontrati mille volte, eppure con la cautela di chi sa di muoversi ancora in un territorio da esplorare.
Arrivati sotto casa, lui accostò senza fretta. Spense il motore e, prima che lei potesse aprire la portiera, scese e le fece il giro dell’auto. Con la stessa calma che aveva avuto al mattino, le aprì la portiera e le porse una mano per aiutarla a scendere.
Lei si appoggiò con leggerezza, sorpresa da quanto quel gesto le sembrasse autentico.
Quando fu in piedi, stava già per dirgli qualcosa, ma lui le prese la mano con eleganza e si chinò. Le sue labbra sfiorarono appena il dorso della sua pelle, non più di un’ombra, eppure quel tocco la scosse più di molte carezze.
«Grazie per avermi chiesto di conoscerti, Alessia.»
Poi si rialzò, le lasciò la mano con delicatezza, e si voltò verso l’auto. Un attimo dopo, era di nuovo al volante. Il motore si accese, la Mini fece inversione e sparì all’angolo con lo stesso garbo con cui era arrivata.
Alessia rimase sul marciapiede per qualche secondo, la mano ancora sospesa, come se volesse conservare quel bacio d’aria sulla pelle.

Dopo due giorni, martedì ricevette una mail da Marco.
Oggetto: Un primo passo
Cara Alessia,
ti scrivo dopo aver riflettuto con calma sulla nostra domenica. È stato un incontro silenzioso, ma rivelatore. Ed è giusto che io sia sincero con te fin da subito.
Sei una donna bellissima. Non perfetta — e per fortuna — ma vera.
C’è in te una grazia naturale che nemmeno la trascuratezza riesce a soffocare. Il tuo sorriso, quando si lascia andare, illumina chiunque ti stia davanti. I tuoi occhi, con quella sfumatura irregolare, raccontano senza filtri chi sei, e il tuo corpo, nonostante tu cerchi di nasconderlo, ha ancora una freschezza e una tensione che molte donne più giovani non hanno più.
Del resto, sei appena entrata negli anni della febbre, quelli in cui la femminilità si fa più acuta, più viva, più urgente.
E questo, Alessia, si vede. Anche se tu non lo vedi ancora.
Detto questo, permettimi di essere altrettanto chiaro su ciò che ho notato.
Mi aspettavo un minimo di attenzione in più all’aspetto.
I jeans larghi e la maglietta oversize che hai scelto per domenica raccontano più rinuncia che spontaneità. E se esci con un uomo, almeno un accenno di trucco è doveroso. Io, per quel giorno, mi sono fatto la barba e ho messo la mia crema idratante preferita. Non per vanità, ma per rispetto.
I tuoi capelli raccolti in quella coda frettolosa erano oggettivamente inguardabili. E si vede che non metti piede da un parrucchiere da mesi. È la prima cosa da affrontare, e non per conformarsi, ma per tornare a prenderti cura di te stessa.
Fai una cosa, se vuoi. Spogliati. Davanti allo specchio. Nuda.
Guardati. Non giudicarti — guardati.
Vedrai una donna ancora bella. Piccolina, è vero. Ma con curve dolci, ben disegnate. Una bomboniera di donna, come si dice con affetto.
Non lasciare che quella bellezza si perda nel disinteresse.
Il primo passo, Alessia, lo devi fare tu. Io posso solo camminarti accanto, ma non posso muovere le gambe al posto tuo.
Fammi sapere se vuoi cominciare.
Marco
Alessia lesse la mail in piedi, ancora con la giacca addosso e la borsa appesa alla spalla. Il telefono stretto tra le mani, il pollice incerto sullo schermo. La prima volta fu rapida, come si fa con le cose che mettono ansia: per sapere se era arrivata una risposta, per vedere se c'era un giudizio, un verdetto.
Poi, la seconda volta, fu più lenta.
Si sedette sul letto, lasciando che la borsa scivolasse a terra e la giacca le si aprisse sul petto. Rilesse parola per parola, come si fa con una lettera importante. E ogni frase sembrava appoggiarsi dentro di lei in modo diverso. Non tagliente — ma lucido. Sincero. Impossibile da ignorare.
"Sei una donna bellissima."
Fece fatica a crederci. Ma Marco non era il tipo da scrivere complimenti per cortesia. E allora... cosa vedeva lui che lei non riusciva più a vedere?
"Il tuo sorriso illumina."
Si sfiorò le labbra con un dito, come a verificare se ci fosse ancora qualcosa da illuminare. Non sorrideva davvero da tempo.
"I tuoi occhi raccontano."
Si voltò verso lo specchio dell’armadio. La luce era fioca, ma bastava. Li vide, quegli occhi. Sì, c’erano. Più stanchi, ma ancora vivi.
Poi arrivarono i colpi secchi, quelli che le fecero abbassare il mento.
"I jeans larghi. La maglietta oversize."
Era vero. Non ci aveva pensato. Aveva aperto il primo cassetto, senza cura, senza scelta. Per proteggersi, forse. Ma da cosa?
"Nessun trucco."
Sfiorò la borsa, dove teneva ancora una trousse abbandonata da mesi.
"La coda inguardabile."
Sollevò una mano tra i capelli, e per la prima volta si chiese cosa avrebbe pensato di sé, vedendosi da fuori.
Ma fu la frase finale a colpirla come un invito e una sfida insieme.
"Spogliati. Davanti allo specchio. Nuda."
Rimase immobile. Non per imbarazzo. Ma per il carico che quelle parole portavano.
Non erotismo. Non gioco. Ma verità. E la verità, da nuda, non si può evitare.
Si alzò lentamente. Aprì i bottoni della camicetta uno a uno, senza fretta. Lasciò cadere i pantaloni. Il reggiseno. Gli slip. Scalza, si avvicinò allo specchio grande dell’armadio.
Si guardò.
C’erano le gambe, sì, ma non snelle. Soltanto lì. Il ventre un po’ più morbido di quanto ricordasse. Le braccia segnate da una stanchezza sottile. Il seno, ancora pieno e alto, ma che sembrava non appartenerle più. Come se fosse rimasto indietro, in una versione di sé che lei aveva smesso di abitare.
Tutto era al suo posto, eppure niente parlava davvero di lei.
Osservava quel corpo come si guarda un vestito appeso da troppo tempo nell’armadio: non brutto, non rovinato… ma vuoto. Anonimo. Come se non dicesse più nulla. Come se fosse stato indossato da qualcun’altra, e poi dimenticato lì.
Si portò una mano al viso. Non per piangere. Ma per toccarsi. Per sentire qualcosa.
Ma anche quel gesto le sembrò distante, automatico, incapace di svegliare qualcosa sotto la pelle.
Poi abbassò lo sguardo.
Il primo passo non era fatto. Ma adesso, almeno, sapeva dove si trovava.
Nel mezzo.
Nel vuoto tra quello che era stata e quello che forse avrebbe potuto tornare a essere.
Rispose alla mail di getto, senza riflettere.
Oggetto: Re: Un primo passo
Marco,
ti ho letto più volte.
Con fatica, con pudore, ma anche con qualcosa che assomiglia alla voglia di provarci.
Hai ragione su molte cose. Troppe, forse.
E no, non mi piace quello che ho visto nello specchio.
Ma voglio cominciare.
Non so dove porterà questo percorso, ma se davvero sei disposto ad accompagnarmi, io ci sono.
Alessia

La risposta arrivò in serata. Essenziale, asciutta, ma dal tono sorprendentemente morbido.

Oggetto: Sabato
Cara Alessia,
bene. Allora cominciamo.
Avrei piacere di invitarti a cena sabato sera. Solo noi due, in un posto che ti svelerò a tempo debito.
Vestiti per te, non per me. E non chiederti cosa aspettarti.
Per ora, vivila solo come una cena. Un modo per iniziare.
Marco

Alessia rilesse il messaggio con un mezzo sorriso. Solo martedì.
Aveva quattro giorni.
Tempo sufficiente per pettinarsi. Per guardarsi. Forse anche per scegliere cosa indossare.
Non per piacere a lui.
Per cominciare a piacersi, almeno un po’.
Arrivò finalmente il sabato, era pronta, appena lo vide arrivare sotto casa scese con il cuore in gola come una ragazzina.
Quando Alessia uscì dal portone, la luce dei lampioni le disegnava l’orlo del vestito sulle gambe nude. Aveva scelto un abito semplice, blu scuro, morbido sulle curve, stretto in vita. Scendeva fino al ginocchio con un leggero movimento naturale. Non mostrava nulla, ma lasciava intuire. Sulle spalle, una stola chiara, presa più per sicurezza che per stile. Ai piedi, un paio di décolleté basse, lucide, che avevano il pregio di non farla inciampare nei propri pensieri.
I capelli erano sciolti. Ordinati, lavati da poco, finalmente curati dopo mesi. Un’onda lieve sulle spalle, profumati, anche se lei non ne era del tutto convinta. Il trucco era minimo, ma presente. Mascara, un filo di rossetto nude, e un tentativo di contouring quasi invisibile. Il risultato era una donna che non si sentiva affatto pronta, ma che, per la prima volta, aveva cercato di esserci.
Marco era già lì, appoggiato al cofano della Mini Cooper rossa con il tettuccio bianco, immobile, le braccia rilassate. Jeans, t-shirt nera dei Led Zeppelin, giacca estiva chiara. L’atteggiamento era sempre lo stesso: composto, discreto, presente.
Quando lei gli fu vicina, si staccò dalla macchina, la guardò negli occhi senza dire una parola e le prese la mano. La sollevò con naturalezza, poi chinò leggermente il capo e le sfiorò il dorso con le labbra. Il gesto fu leggerissimo, quasi formale.
Ma non le lasciò subito la mano.
Con un cenno del capo, quasi impercettibile, le fece segno di girarsi su sé stessa. Una piroetta lenta, contenuta. Lei obbedì, incerta, e girò su un piede, l’abito che seguiva appena il movimento.
Marco la osservò con calma, mentre completava il giro. Non c’era malizia, né compiacimento nel suo sguardo. Solo attenzione. Valutazione.
Quando si fermò, lui annuì. Un solo cenno, come a registrare l’immagine. Poi aprì la portiera della Mini, senza dire nulla. Lei salì, con il cuore che batteva più forte di quanto avesse previsto.
Una volta seduto, Marco mise in moto. Solo allora parlò, con voce pacata.
«Non è importante dove andiamo. Conta come scegli di esserci. Anche se non ti senti pronta. È da lì che si comincia.»
La Mini scivolava silenziosa attraverso le strade della sera, il traffico ormai diradato, le luci dei negozi che si spegnevano una a una. Nessuna parola riempiva l’abitacolo, ma il silenzio tra loro non era imbarazzante. Era denso. Misurato. Marco non sentiva il bisogno di rompere nulla. E Alessia, nel suo vestito blu, con le mani raccolte sul grembo, si lasciava trasportare.
Parcheggiarono davanti a un ristorante piccolo, elegante, con le vetrate incorniciate da tende leggere color avorio. Il nome non era scritto a grandi lettere, solo inciso in ottone sulla pietra chiara: Corte dei Cedri.
Marco le aprì la portiera. Non le offrì il braccio. Non le chiese se andasse tutto bene. La precedette di qualche passo e le tenne la porta d’ingresso aperta senza guardarla. Un gesto essenziale, senza teatralità.
Dentro, luci soffuse, tavoli ben distanziati, voci basse. Il maître li accompagnò a un tavolo d’angolo, apparecchiato con cura. Nessuna candela, nessuna musica invadente. Solo posate lucide, bicchieri sottili, e una bottiglia d’acqua già pronta.
Marco si sedette. Solo allora guardò Alessia.
«Questa è la parte semplice. Mangiamo.»
Il menù era breve, stagionale. Alessia lesse con attenzione, ma ordinò qualcosa di leggero. Un’insalata tiepida con pesce, e un calice di bianco. Marco scelse un secondo di carne, e non bevve alcol.
Durante la cena parlarono.
Non di lei, non di lui. Ma di altro. Libri. Cinema. Una mostra fotografica che entrambi avevano visto, ma in anni diversi. Alessia, per la prima volta da mesi, si accorse di non misurare le parole. Non stava cercando di piacere. Non stava cercando di nascondersi. E non riceveva, da parte di Marco, nessuna espressione che cercasse di “portarla fuori dal guscio”.
Lui non cercava di farla aprire. La ascoltava. Punto.
Il secondo piatto era appena stato portato via. Alessia si stava passando il tovagliolo sulle labbra quando sentì il silenzio cambiare attorno a loro. Marco aveva appoggiato la forchetta, le mani intrecciate davanti a sé. Lo sguardo non era più quello disteso della conversazione precedente. Era dritto, calmo, ma implacabile.
«Posso parlare?» chiese, senza ironia.
Alessia annuì piano, istintivamente tesa.
«Bene. Cominciamo da qui: a tavola, si sta seduti dritti. Le spalle rilassate, sì, ma la schiena dev’essere eretta. E il busto — il busto si offre. Petto in fuori, pancia in dentro. Non per compiacere. Per rispetto. Verso se stessa.»
Alessia si raddrizzò appena, sorpresa dalla precisione con cui quella postura le sembrava d’un tratto rivelatrice. Si accorse, all’improvviso, di quanto si fosse chiusa su di sé durante tutto il pasto. Marco la stava guardando senza alcuna malizia, ma con la stessa attenzione con cui si studia una composizione non ancora bilanciata.
«Il tuo abbigliamento è molto migliorato. Questo lo riconosco. Ma posso chiederti — sinceramente — se l’abito lo hai acquistato da un negozio “over sixty” oppure se l’hai ricevuto in eredità da una zia molto anziana?»
Il tono era neutro, quasi freddo. Alessia deglutì. Non sapeva se ridere o sprofondare.
«Hai un fisico piccolo, minuto, ma armonioso. Il vestito ti spegne. Non ti dà alcun slancio. Il tacco? Praticamente inesistente. Tu pensi che l’altezza sia un tuo limite. Ma lo diventa solo se ti rassegni. Il tacco, Alessia, non è una tortura. È uno strumento. Sceglilo. Fallo parlare.»
Poi fece un piccolo cenno con la mano verso il volto di lei.
«E il trucco… non è decorazione. È intenzione. Le tue labbra sono splendide. Piene, definite. Eppure sembrano timide. Il rossetto non deve dire 'ehi, ci siamo anche noi'. Deve dire 'sei in ritardo'.»
Il silenzio calò tra loro come un panno pesante. Marco si versò un sorso d’acqua e bevve, come se nulla fosse. Non c’era crudeltà in quelle parole. Ma nemmeno dolcezza.
Alessia abbassò lo sguardo. Sentì una stretta in petto. Le parole le bruciavano sulla pelle. Nessuno le aveva mai parlato così. Nessuno aveva mai osato guardarla così, da così vicino, senza farlo sembrare un atto di tenerezza o desiderio.
Fu quasi duro, Marco. E lei lo sentì. Sentì il colpo.
Il silenzio tra loro era ancora denso quando Marco appoggiò le braccia sul tavolo, incrociando le dita con calma. La voce uscì bassa, ma nitida, priva di esitazioni.
«Scommetto che sotto quel vestito indossi slip e reggiseno in cotone semplice, bianco o grigio chiaro, senza fronzoli. Mi sbaglio?»
Alessia deglutì. Arrossì visibilmente. Poi scosse appena la testa. No, non si sbagliava.
Lui annuì, senza soddisfazione, solo conferma.
«E se questa sera, per puro caso, un baldo giovanotto avesse deciso di intrufolarsi tra le tue gambe… cosa avrebbe trovato? Un cespuglio maltenuto, in disordine, corretto?»
Il rossore sulle guance di Alessia si fece più profondo. Abbassò gli occhi. Ancora un cenno d’assenso. Non servivano parole.
Marco inspirò piano. La sua espressione restava neutra, ma il tono si fece più affilato, come una lama che non ferisce, ma incide.
«Quindi hai dato per scontato che nessuno ti avrebbe guardata, giusto? Hai fatto il minimo indispensabile, hai indossato un abito educato, un trucco appena accennato, hai pettinato i capelli — tutto sommato, un buon compitino — e speravi che qualcuno ti dicesse ‘brava’. È così?»
Ancora un cenno. Piccolo. Doloroso. Ma vero.
Marco si appoggiò allo schienale. Il suo sguardo si abbassò, come a distogliersi da lei per non infierire.
Poi, con calma, si alzò.
Andò a pagare il conto senza dir nulla, lasciando il tovagliolo piegato perfettamente sul tavolo. Quando tornarono in strada, non cambiò una virgola del suo atteggiamento.
Le aprì lo sportello dell’auto con la consueta eleganza. La fece salire in silenzio. Durante il tragitto non parlò, ma guidò con una tensione più visibile. La Mini accelerava con scatti precisi, come se dovesse smaltire qualcosa che Marco non stava dicendo.
Arrivati sotto casa, scese e le aprì la portiera. Lo fece come sempre. Nessuna fretta. Nessuna durezza nel gesto.
Quando lei si alzò, le prese la mano e le sfiorò il dorso con le labbra. Il baciamano era lo stesso, ma questa volta Alessia lo sentì diverso. Come se pesasse.
Poi lui si voltò, salì in macchina, chiuse lo sportello con decisione e ripartì. Questa volta con più vigore. La Mini scattò via lungo il viale, veloce, precisa. Come se anche lui avesse bisogno di prendere distanza da qualcosa che lo stava infastidendo profondamente.
Alessia restò immobile sul marciapiede. Le mani strette lungo i fianchi. L’aria della sera le sembrava più fredda, e il vestito, che poche ore prima le pareva un passo avanti, ora le sembrava solo un errore goffo. Un’illusione.
Salì le scale lentamente. Dentro, il fallimento le batteva nel petto come un cuore stonato.
La mattina seguente Alessia si alzò tardi, con la testa ancora piena di frammenti della sera precedente. Si sentiva svuotata, confusa, quasi febbricitante. Aveva lasciato il telefono a faccia in giù sul comodino, ignorandolo per ore.
Solo verso mezzogiorno si decise a prenderlo in mano. Uno solo il messaggio ricevuto. Mittente: Marco.
Nessun testo. Solo un’immagine.
Con il cuore che batteva irregolare, la aprì.
Era una foto.
Una foto scattata evidentemente la sera prima, al ristorante. Lei seduta al tavolo, di profilo. Non se n’era accorta, eppure era evidente che fosse lei: lo sguardo basso, le spalle leggermente incurvate in avanti, le mani intrecciate davanti al piatto ormai vuoto. Le gambe chiuse, l’espressione vuota. Non triste. Non stanca. Spenta.
Fu uno schiaffo silenzioso.
Restò a fissarla a lungo, come si fissa un’istantanea che ritrae un’estranea. Non si piaceva. Ma il punto era un altro: non si riconosceva. Quella non era la donna che voleva diventare. Quella era la resa.
Poi, dopo quasi un minuto, il secondo messaggio.
“È così che vuoi essere vista?
Da te stessa, intendo.”
Nient’altro.
Alessia rimase lì, seduta sul letto, il telefono tra le mani, le labbra socchiuse. Nessuna difesa. Nessuna giustificazione. Solo verità, cruda e rotonda, inchiodata in una singola immagine.
Per un lungo istante non seppe se piangere, cancellare la foto, o chiedere scusa.
Alla fine non fece nessuna delle tre cose.
Si alzò.
E si mise davanti allo specchio.
Si mise davanti allo specchio ancora col telefono in mano, la foto ancora aperta sullo schermo. Inspirò piano.
Poi lasciò cadere la maglietta. I pantaloni. Il reggiseno. Gli slip. Tutto.
Come l’ultima volta.
Ma stavolta fu diverso.
Portò le mani dietro la schiena e raddrizzò le spalle con un movimento lento, consapevole. Spinse in fuori il petto, contraendo l’addome senza irrigidirsi. Si osservò.
Di fronte. Di lato.
Non con indulgenza. Ma con intenzione.
Sotto la luce neutra del bagno, il corpo le apparve per quello che era: piccolo, femminile, proporzionato. Nulla di eclatante, ma nulla di spento. Il seno, alto e pieno, ora le sembrava finalmente parte di sé. Le cosce, le anche, le braccia: tutto c’era. Tutto era vivo.
E per la prima volta da mesi, si guardò davvero.
Non si piacque. Ma non si detestò.
Si vide.
Quello fu il momento.
Si rivestì lentamente. Poi si sedette al tavolo della cucina e, con il cuore che batteva forte, scrisse a Marco:
Vorrei farti una proposta, ma ovviamente puoi rifiutare.
Sono ancora molto insicura e credo che un ambiente neutro mi aiuterebbe a essere più spigliata.
Se ti invitassi a cena a casa mia sabato prossimo?
Premette invio. Lo fece senza rileggerlo.
E poi attese.
Il messaggio restò senza risposta per ore. Poi per tutta la sera. Poi per la notte.
Il mattino dopo, mentre preparava il caffè, il telefono vibrò.
Un solo messaggio, essenziale.
Molto volentieri, Alessia.
A che ora mi aspetti?
Il citofono trillò alle 20:58 precise. Alessia era già in piedi da cinque minuti, in attesa, senza riuscire a stare ferma. Aveva controllato tutto due volte: il tavolo apparecchiato con sobrietà, le luci soffuse, il vino in fresco. La casa profumava di gelsomino e spezie.
Prese fiato. Rispose. «Salgo» disse Marco, con la sua voce calma, tagliata netta.
Quando bussò alla porta, Alessia fece un passo avanti. Appoggiò la mano sulla maniglia e chiuse per un istante gli occhi. Poi aprì.
Lui era lì. Stesso atteggiamento di sempre: giacca chiara, t-shirt scura, sguardo presente. Ma stavolta fu costretto a fermarsi.
Alessia era immobile nell’ingresso, a pochi passi da lui.
I capelli raccolti in una coda alta, tirata indietro con precisione chirurgica, la parte superiore della testa lucida di cera. La linea del collo scoperta, netta. Il volto ben truccato: sguardo definito, bocca piena, rossetto scuro e opaco. Niente fronzoli. Solo scelte.
Indossava una giacca nera sciancrata, chiusa con un solo bottone proprio sotto il seno. Le spalle dritte, le braccia lungo i fianchi. La giacca aderiva con precisione alla vita stretta, aprendosi appena sui fianchi e lasciando intuire, ma non rivelare, ciò che c’era sotto.
La minigonna era della stessa stoffa, corta e ben aderente, disegnata per fermarsi diversi centimetri sopra il ginocchio. Niente collant, solo la pelle nuda, tesa, vera. Ai piedi, tacchi neri lucidi, affusolati, appena più alti di quanto fosse comoda a indossare… ma giusti.
Sotto la giacca, un bustino nero senza spalline. E dentro, il reggiseno a balconcino: il décolleté era evidente, ma non esagerato. Solo pieno. Presente. Voluto.
Marco non disse nulla. Non fece commenti. Solo un secondo intero di silenzio.
Poi, come sempre, le prese la mano.
Si chinò leggermente e le sfiorò il dorso con le labbra. Nessuna fretta.
Poi la lasciò, e la guardò negli occhi.
«Buonasera, Alessia.»
Lei restò immobile, lo sguardo perso in un punto indefinito tra il bicchiere e le ginocchia. Le sue mani, ancora intrecciate in grembo, si muovevano a scatti minimi, come se volessero sciogliere qualcosa che invece le stringeva dentro.
Marco la guardò ancora per qualche secondo. Poi si piegò appena verso di lei.
La sua mano si sollevò con lentezza, aperta, e le sfiorò la guancia destra con il dorso delle dita. Un tocco morbido, preciso. Nessun secondo fine. Solo calore. Presenza.
La voce scese di un tono, quasi un sussurro.
«Comunque… oggi sei bellissima.»
Lei alzò lo sguardo, sorpresa.
«Se fossi un uomo che ha ricevuto un invito da te, e tu mi accogliessi così… ne sarei onorato.
E non solo.»
La guardò un altro istante, poi ritrasse lentamente la mano, lasciandole sul viso una traccia sottile di verità non detta.
«Ora fammi una cortesia.»
Si sollevò un po’ sul divano, la voce tornò salda ma dolce.
«Vai davanti allo specchio. Guardati. Ammirati. Amati.
Non per me.
Perché tu sei lì, ed è ora che tu lo veda davvero.»
Alessia si alzò lentamente, le gambe tese sotto la minigonna, i tacchi che toccarono il parquet con due colpi netti. Non disse nulla. Appoggiò il calice sul tavolino e si voltò, dirigendosi verso lo specchio del corridoio, quello che dava luce alla parete da anni, ma che da mesi non era più stato interrogato davvero.
La casa era silenziosa. Le luci basse. I suoi passi risuonavano pieni.
Si fermò davanti alla cornice. Lo specchio la accolse intera.
Si osservò. Dritta, composta. La coda alta le slanciava il viso, i tratti più definiti dal trucco curato. Le labbra rosse non chiedevano nulla. Affermavano.
La giacca era tirata giusta in vita, il seno sollevato, rotondo, messo in scena con fermezza dal bustino. Le gambe nude, forti, ben piantate. Il tanga sotto la minigonna era invisibile, ma lei sapeva che c’era. E questa volta non le sembrava inadeguato. Le sembrava scelto.
Si girò di lato. Poi ancora. Aprì leggermente la giacca, ma senza sfilarla. Solo per vedersi nel profilo del bustino. Vide il ventre, piano. La linea netta dei fianchi. Il gioco di ombre lungo le cosce. Vide una donna che non aveva più voglia di nascondersi.
Poi, mentre stava per girarsi ancora, lo vide.
Marco.
Riflesso nello specchio, seduto sul divano. Non si era spostato, non aveva detto nulla. Ma la guardava. Lo sguardo fermo. Nessuna espressione. Nessun desiderio. Solo attenzione. Presenza piena.
Incrociò i suoi occhi nel riflesso. Per un istante esitò. Poi parlò, con la voce bassa ma ferma, quasi stupita di sentire quelle parole uscire da sé.
«E quando dici che non saresti solo onorato se mi vestissi così per te cosa vuol dire?»
Il riflesso di Marco non si mosse. Rimase lì. Ma il suo sguardo si fece appena più vivo, più diretto. La risposta stava arrivando.
l riflesso nello specchio rimase immobile. Marco non sorrise. Non si irrigidì. Non cercò una frase d'effetto né una deviazione.
Per un istante lungo, il suo sguardo rimase fisso in quello di Alessia, attraverso la superficie lucida.
Poi, lentamente, abbassò gli occhi.
Non verso il telefono, non verso il bicchiere. Verso se stesso. Come se, per un attimo, qualcosa gli si fosse aperto dentro, oltre ogni controllo.
Fu un gesto lieve, quasi impercettibile. Ma per Alessia, fu più potente di qualunque risposta.
Quel silenzio non era vuoto. Era pieno di verità trattenute.
Lei restò immobile, gli occhi ancora sul vetro. Il petto sollevato dal respiro lento. Le dita giunte sul bordo della giacca. Il riflesso davanti a sé non le restituiva più una donna in cerca di approvazione, ma un corpo vivo, che iniziava a occupare spazio.
Una voce dentro, per la prima volta, non disse: "Non sei abbastanza".
Rimase lì, in piedi, davanti allo specchio. Le mani ora si muovevano lentamente, sistemando la linea della giacca, sfiorando le anche, tirando un filo immaginario dal bustino come per perfezionare un disegno.
Si vedeva bella, sì. Oggettivamente bella. Ma non era questo il punto.
Inspirò a fondo, poi si girò lentamente verso Marco. Non si era mosso. Non le parlava. La aspettava.
Tornò al centro della stanza, ancora in piedi, le mani unite davanti a sé.
«Lo so che sono bella così…» disse con voce calma, quasi morbida. «Ma io non uscirei mai conciata così. Non mi ci sento dentro. Non mi vedo. Non sono io.
Marta, sì. Lei ci riesce. Cammina nei suoi vestiti come se li avesse creati su misura con un pensiero.
Io invece… sto recitando una parte. Come se stessi indossando un costume. Capisci?»
Marco la guardò con attenzione, gli occhi tornati pieni. Era di nuovo lui. Solido. Sicuro. Il leggero cedimento di prima svanito in una frazione.
Inclinò appena la testa, poi annuì.
«Certo, Alessia.
Siamo solo all’inizio.»
La sua voce era tornata ferma, ma non dura. Solo giusta. Una mano che si tende, senza afferrare.
Il profumo della cena si mescolava con quello del prosecco appena versato e con la fragranza dolce delle rose gialle ancora adagiate sul mobile d’ingresso.
Alessia e Marco sedevano uno di fronte all’altra, la tavola apparecchiata con cura ma senza eccessi. Una tovaglia pulita, un paio di candele basse, le stoviglie buone che tirava fuori solo per occasioni importanti. Stavolta, lo aveva deciso: doveva essere importante.
Marco parlava con una scioltezza disarmante. Sapeva raccontare storie senza voler impressionare. Conduceva i ricordi con ironia e una strana grazia, come se nulla fosse troppo serio, e tutto invece meritasse un sorriso.
Le raccontò di quando, bambino, cercò di impadronirsi del motorino del fratello maggiore e finì dentro a un cespuglio di rose, con la faccia graffiata e una scusa che non stava in piedi. Di quando al servizio militare si finse stonato per evitare la fanfara e fu assegnato al magazzino — “il paradiso dell’inutilità”, come lo chiamava lui.
E poi del suo lavoro, che amava e odiava a giornate alterne, ma che almeno gli aveva insegnato due cose: a vestirsi bene anche per sbagliare, e a riconoscere il valore delle pause lunghe.
Alessia rideva. Ma non di quella risata timida, accomodante. Una risata vera, quella che prende alla gola e scioglie le spalle.
E fu proprio allora che si accorse: la schiena era dritta, le scapole rilassate, il petto leggermente sollevato, come le aveva insegnato. Non era rigida. Era presente. C’era. Nel suo corpo, nel suo spazio.
Lo guardò, mentre lui si versava un altro po’ di vino e finiva l’ennesima battuta con un’aria fiera e tenera insieme.
Allora fece qualcosa. Con naturalezza, abbassò lo sguardo sul bottone unico della giacca, all’altezza del seno.
Allungò le dita, lo slacciò.
Non fece gesti teatrali. Lo fece per sé. Per sentire l’aria sulla pelle, per lasciare che il bustino mostrasse la forma piena del suo petto, il suo modo di esserci.
Alzò gli occhi e lo guardò. Lui stava parlando — di qualcosa, non importava più cosa — ma la voce ebbe un microscopico inceppamento. Un attimo. Una frazione.
Lo sguardo invece non cedette. Si fermò su di lei.
Anzi, la guardò. Sul serio.
Con un’intensità nuova. Non da uomo che desidera, ma da uomo che vede.
Alessia si sentì accendersi, ma non di imbarazzo. Di vita.
«Vado a incipriarmi il naso» disse con un sorriso accennato, alzandosi da tavola con una grazia quasi nuova.
Marco annuì, le lasciò il gesto senza commenti, mentre lei scompariva nel corridoio. Entrata in bagno, chiuse piano la porta e si lasciò cadere seduta sul bordo della vasca. Aveva bevuto molto — acqua e vino — e il corpo chiedeva una pausa. Ma fu quando si alzò, sistemando la gonna, che sentì qualcosa che non provava da tempo.
Era bagnata.
Un’umidità calda, viva, che non aveva nulla a che vedere con il vino, né con l’effetto di una bella serata. Era desiderio. Piacere. Aveva riso, si era sentita guardata, centrata. E ora… eccitata.
Quell’uomo le stava entrando nella testa.
Mentre si sistemava, con un gesto preciso si passò il rossetto sulle labbra, che si era leggermente sbavato durante la cena. Le osservò allo specchio: rosse, ben delineate, ancora segnate dal sorriso. La giacca era aperta, il bustino esaltava ogni linea del suo décolleté. Non si richiuse. No, stavolta no. Uscì così.
In cucina preparò con calma la macchinetta del caffè, godendosi il silenzio e quella strana consapevolezza nuova. Quando sentì i passi leggeri alle sue spalle, non si voltò subito. Lo lasciò arrivare.
Marco si fermò sulla soglia, appoggiandosi piano allo stipite. La osservò in silenzio, per qualche secondo. Poi Alessia, con un sorriso lento, un po’ sfrontato e un po’ sincero, disse:
«Non abbiamo mai parlato del tuo compenso, Marco. Il tuo lavoro è appena iniziato, ma stai investendo parecchie energie nella mia rinascita…»
Lui non rispose subito.
La fissò. I suoi occhi, grigio-verdi, avevano assunto un’intensità nuova, un fuoco calmo ma penetrante. Sembravano spogliarla. Non del bustino o del tanga, ma delle sue paure, dei suoi strati più profondi.
Poi, con voce bassa, ferma, pronunciò:
«Ne parleremo quando avremo finito il tuo percorso, Alessia. Ora pensiamo solo a te.»
Poi il silenzio. Solo il borbottare del caffè in sottofondo.
Il caffè fu bevuto in silenzio, con naturalezza, seduti di nuovo al tavolo come due vecchi amici che si conoscevano da sempre. Nessun brindisi, nessuna dichiarazione, solo il calore aromatico della bevanda a riempire gli ultimi istanti della serata.
Marco si alzò per primo. Rimise la tazzina nel lavandino, ringraziò con un cenno gentile e si avviò verso la porta con la consueta calma. Alessia lo seguì, i passi lenti, come se volesse prolungare ancora un po’ quella strana magia che si era creata. Quando furono sull’uscio, fu lei a rompere il silenzio.
«Qual è il prossimo passo?» chiese, con un filo di voce.
Marco si voltò appena, senza bisogno di pensarci.
«Cominciare a volerti bene. A riconoscerti. Ad amarti. A non avere più bisogno dell’approvazione degli altri per sentirti viva.»
Poi fece per aprire, ma qualcosa la spinse avanti. Alessia gli si parò davanti, lo toccò con dolcezza sul braccio e lo costrinse a girarsi. Lo guardò negli occhi, dal basso verso l’alto. I suoi occhi verdi sembravano cercare una risposta che nemmeno lei conosceva. E fu allora che parlò, con una voce più morbida, come intrisa di velluto e incertezza.
«Perché non ti fermi a dormire?»
Non c’era malizia, né seduzione. Solo un desiderio puro, forse di compagnia, forse di protezione. Forse, semplicemente, di non sentirsi sola.
Marco sorrise. Non un sorriso ironico, ma tenero, autentico. Le accarezzò il volto con maggiore intensità rispetto alle altre volte, lasciando che le dita scorressero sulla pelle con rispetto e verità. Poi le prese la mano, la portò alle labbra e vi posò un bacio lungo, morbido, più sentito.
«Quando sarai pronta. Se mi vorrai perché lo desideri… e non perché io ti faccio sentire donna e femmina.»
Poi uscì. Chiuse piano la porta dietro di sé.
E lasciò Alessia da sola, con il cuore che batteva piano e i pensieri che, per la prima volta da molto tempo, non facevano male.
Andò a dormire con mille dubbi e domande che per quel giorno erano rimaste senza risposta, lo avrebbe davvero voluto nel suo letto? Avrebbe davvero fatto l’amore con lui? O stava solo cercando un apprezzamento ulteriore, un nuovo gradino da salire nel suo ego. Si addormentò con la mente in subbuglio.
Dormì poco. O forse fu solo un dormiveglia lieve, quel tipo di sonno in cui i pensieri si travestono da immagini. E fu lì, in quel confine sottile tra realtà e sogno, che accadde.
Era in piedi, in una stanza immensa dalle pareti color crema, senza finestre. La luce arrivava dall’alto, diffusa, morbida. Indossava un abito lungo di seta nera, aderente come una seconda pelle, senza spalline, che le lasciava la schiena scoperta e seguiva ogni curva come se fosse disegnato su di lei. Ai piedi, un paio di décolleté dal tacco altissimo, lucidi, instabili, ma in sogno non cadeva mai.
Intorno a lei, sedute in poltrone disposte in cerchio, c’erano altre donne. Non le conosceva, eppure le sembravano familiari. Ognuna di loro la guardava in silenzio, come se attendessero qualcosa.
Poi si accorse di non essere sola. Dietro di lei, a pochi passi, un uomo: elegante, sicuro, il viso sfocato ma gli occhi incredibilmente nitidi. Verdi. La osservava con calma, senza muoversi, eppure sembrava dirle tutto. Non la toccava, non si avvicinava, ma era lì. Presente. Forte. Come una promessa.
Alessia si voltò verso lo specchio che improvvisamente comparve davanti a lei. Per la prima volta, si vide. Completamente. Vide il corpo tornato vivo, lo sguardo acceso, il seno alto, fiero. Le gambe forti, le spalle dritte. Non era perfetta. Ma era bellissima. Era… sé stessa.
Sentì un fremito tra le cosce. Non di vergogna, non di bisogno. Di potere. Di riscoperta. Di presenza.
Una delle donne si alzò, le si avvicinò, le sussurrò all’orecchio:
«Non serve essere perfetta. Serve solo che tu sia tua.»
E tutto scomparve.
Alessia si svegliò di soprassalto, con le lenzuola aggrovigliate addosso e ancora addosso la sensazione calda e pulsante del sogno. Si mise a sedere sul letto, fissando il vuoto. Aveva sognato se stessa, bella, sicura, desiderata… ma soprattutto viva. Era una visione che la turbava, perché troppo lontana da quella che sentiva di essere. Eppure, una parte di lei ne bramava la verità.
Afferrò il telefono dal comodino. Era ancora presto, ma non le importava. Trovò il contatto. Marta.
«Pronto?»
La voce assonnata e roca dell’amica arrivò dopo il secondo squillo.
«Scusami… sono io. Lo so che è presto ma… ho bisogno di parlare con te. Urgente.»
Un sospiro dall’altro capo. «Dimmi tutto.»
«Ieri sera è venuto da me. Marco. Gli ho cucinato, abbiamo parlato. Mi ha guardata. Ma guardata davvero. E poi, quando l’ho invitato a restare… se n’è andato. Ha detto che dovrà fermarsi solo quando sarò io a volerlo, davvero, non per bisogno. Marta… non ce la faccio più. Dimmi la verità. Qual è il prezzo?»
Dall’altro capo, silenzio.
«Marta?»
«Non è un prezzo in soldi, te l’ho detto.»
«Allora in cosa? In tempo? In energia? Cosa ha voluto da te? Cosa vorrà da me?»
La voce di Marta arrivò lenta. «Non posso dirtelo.»
«Perché no?» Alessia si alzò dal letto e cominciò a camminare nella stanza. «Perché continui a tenermi fuori? Credi che non sia abbastanza forte? Mi hai mandato da lui! E ora ho diritto di sapere. Ho bisogno di sapere.»
Un altro silenzio. Poi Marta parlò. Piano. Crudele nella sua sincerità.
«Perché me ne sono innamorata, Alessia. Perdutamente. Ero sposata, eppure… ho vissuto con lui una storia parallela. Una storia vera. Una storia che non somigliava a nulla che avessi mai vissuto prima.»
Alessia si fermò. Le tremava la mano.
«Con Marco?» sussurrò.
«Sì. Non è durata. Non doveva durare. Lui… non vuole amore. Non può permetterselo. Ma io… io ho pagato quel prezzo. E ancora oggi, certe notti, sento il suo profumo accanto al mio cuscino.»
Alessia rimase in silenzio. Aveva freddo, all’improvviso. E il battito del cuore era accelerato come se stesse correndo.
«Perché non me l’hai detto prima?» riuscì a chiedere.
«Perché volevo che lo vivessi con occhi tuoi. Non con i miei ricordi. Lui ti può cambiare, Alessia. Ma a quale prezzo… dovrai scoprirlo da sola.»
Appena chiusa la chiamata, Alessia restò immobile per un istante, col telefono ancora in mano. Sentiva il cuore batterle nelle tempie, come se ogni parola di Marta le fosse entrata sotto pelle.
Non ci pensò due volte. Aprì la conversazione con Marco. Le mani tremavano appena mentre digitava.
"Marco, buongiorno. Avrei bisogno di vederti. Il prima possibile. Oggi, se puoi. Fammi sapere tu quando e dove. Ti prego."
Lo rilesse una volta sola, poi lo inviò.
Non scrisse altro. Non aggiunse spiegazioni né domande. Sapeva che lui avrebbe capito tutto, o almeno abbastanza. Si lasciò cadere sul divano, rannicchiandosi su se stessa. E ora non poteva far altro che aspettare.
Marco si alzò lentamente, senza dire una parola, e le andò incontro. Non fece gesti bruschi, non si impose. Le si avvicinò con passo lento, poi le aprì le braccia come a chiedere permesso. Alessia esitò un istante, poi si lasciò andare, affondando il viso contro il suo petto. Lui la avvolse con fermezza e dolcezza, le mani appoggiate sulle scapole, il mento posato delicatamente sui suoi capelli. La sentì tremare, poi lentamente il respiro si fece più regolare, meno affannoso.
Rimasero così per un tempo indefinito, sospesi in un silenzio che non era vuoto ma pieno di senso. Quando sentì che il battito del cuore di lei si era acquietato, che il corpo si era fatto meno teso, Marco si scostò appena per guardarla negli occhi. Non c’era rabbia in lui, solo quella calma profonda e ferma che lo contraddistingueva.
«Io non ti ho mai cercata, Alessia,» cominciò con voce bassa ma nitida. «Sei tu che mi hai scritto. Tu che mi hai voluto incontrare. Io non ti ho mai chiesto nulla, non ti ho imposto niente. Ho solo evidenziato quello che vedevo. Ti ho detto la verità.»
Lei cercò di abbassare lo sguardo, ma lui glielo tenne con dolce fermezza.
«Io non ti ho mai chiesto di scopare, anzi... ti ho rifiutata quando hai cercato di trattenermi. Non ti ho sfiorata con malizia, non ti ho manipolata. E non ti chiedo di innamorarti di me. Io non lo farò. Non ne ho il diritto. Né l’intenzione.»
Le accarezzò una guancia con un gesto lento, poi fece un mezzo sorriso triste.
«Quindi, mia piccola confusa amica, rifletti. Guardati dentro. Capisci cosa vuoi davvero. E un giorno, solo se sarai pronta… chiamami.»
Poi si voltò, senza aggiungere altro. Camminò verso la porta con la stessa calma con cui era entrato, la aprì e uscì, chiudendosela alle spalle.
Alessia rimase lì, in piedi, in mezzo al soggiorno. Immobile.
Lo lasciò andare. Non c’erano stati messaggi né altri segnali. Nessuna chiamata, nessuna scusa. Solo silenzio. E lei lo lasciò sedimentare dentro di sé, come una pietra sul fondo.
Le giornate tornarono uguali, forse ancora più grigie di prima. I capelli, tornati disordinati, sembravano rispecchiare fedelmente quello che aveva dentro. Si lasciò andare senza neanche accorgersene. Di nuovo. Quasi con sollievo.
Poi, una sera, dopo alcune settimane, il telefono squillò. Era Marta.
«Birra?»
Una sola parola, e Alessia capì. Si trovarono, come al solito, davanti al solito calice ambrato. Le gambe accavallate sotto il tavolo, la giacca poggiata sullo schienale della sedia, le risate ancora capaci di riaffiorare tra una battuta e l’altra. Era un momento sospeso, piacevole. Ma durò poco.
«E Marco?» chiese Marta con una finta leggerezza.
Alessia posò il bicchiere sul tavolo. Lo guardò ruotare tra le dita. Poi alzò gli occhi.
«L’ho allontanato.»
«Cosa?»
«È venuto da me. Gli ho detto delle cose orribili. Che voleva solo portarmi a letto. Che ti stava usando. Che era un bastardo.»
Marta la fissò, sbigottita. Le sopracciglia arcuate, le labbra socchiuse. Poi sorrise amaramente.
«E lui?»
«Mi ha abbracciata. Mi ha detto che non mi ha mai cercata, che non mi ha mai chiesto nulla. E poi se n’è andato. Basta. Fine.»
Marta scosse il capo, incredula. Poi si piegò un po’ in avanti sul tavolo, avvicinandosi.
«Alessia, io… non mi capacito. Ma cosa stai facendo? Cosa hai da perdere? Ti fa paura solo perché ti fa vedere chi sei davvero?»
Alessia si irrigidì. Le labbra strette. Gli occhi lucidi.
«E se alla fine,» proseguì Marta, «ci dovesse scappare anche una scopata, perdonami il francesismo… qual è il problema? Sei libera. Lui è libero. È un uomo affascinante, intelligente. E, lasciatelo dire… ti ha fatta brillare, per un momento. Brillare, Ale. Cosa vuoi di più?»
Alessia abbassò lo sguardo. Sentiva un nodo alla gola. Marta aveva ragione. Ma dentro di lei, quella voce di insicurezza, quella paura sottile, era ancora lì.
Restarono in silenzio. La birra si era scaldata. Le parole avevano lasciato spazio ai pensieri.
Poi Marta tornò a sorridere, amara.
«Sai cosa penso davvero? Che tu abbia una fottuta paura di vivere, Ale.»
E nessuna delle due riuscì a smentirla.
Alessia accusò il colpo senza dire nulla. Tornò a casa camminando lentamente, le mani in tasca, il vento della sera che le scompigliava i capelli ormai lasciati al loro destino. “Paura di vivere”. Tre parole, semplici. Eppure rimbombavano nella sua testa con una forza insostenibile.
Si sdraiò sul letto ancora vestita. Non accese la luce. Guardò il soffitto, invisibile nell’oscurità, per minuti che le sembrarono ore. Poi chiuse gli occhi. E sprofondò.
Il sogno arrivò senza preavviso. Marco era lì, ma non era lui. Il viso era il suo, ma deformato in un sorriso beffardo, crudele. Gli occhi grigio-verdi bruciavano, come fessure di brace, e la voce era la sua, eppure risuonava cavernosa, irreale.
«Sei davvero così prevedibile, Alessia…»
Era vestito come sempre, jeans e camicia, ma le linee del corpo si fondevano con una forma che mutava: ora era un demone elegante, con le mani affusolate e lunghe, ora una figura d’ombra, con un sorriso sempre più largo.
«Non vuoi vivere… vuoi solo sopravvivere. E lamenti il buio, ma spegni tu la luce, ogni volta.»
Lei cercava di rispondere, ma non aveva voce. Sentiva solo la risata di lui — no, non di lui, ma di quell’entità che lo incarnava. Una risata che graffiava le pareti del sogno, che le faceva male alle tempie, al petto, allo stomaco.
Intorno a lei, specchi. Mille versioni di se stessa: trasandata, sola, invecchiata, dimenticata. Tutte la guardavano. Alcune piangevano. Una rideva, con la stessa identica risata del Marco demoniaco.
Poi il sogno si spezzò di colpo. Alessia si svegliò con un sussulto. Il cuore in gola, la fronte sudata, il respiro affannoso.
Accese la luce. Il silenzio della casa era irreale.
Andò in bagno. Si guardò allo specchio. I capelli arruffati, il trucco colato, gli occhi gonfi di sonno.
Ma si fissò. A lungo.
E sussurrò, con voce rotta ma ferma:
«Forse ha ragione. Forse ho davvero paura.»
Erano le cinque del mattino. Non aveva dormito. La stanza era immersa in quel buio lattiginoso che precede l’alba, ma Alessia non se ne accorgeva. Le pupille fisse sullo schermo del telefono, i pensieri in un vortice.
Aveva tentato di distrarsi, di razionalizzare. Aveva rivisto mentalmente ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo. Ma niente bastava. La frase di Marta continuava a rimbombare nella sua testa, come un’eco ostinata: “Paura di vivere.”
Senza più pensare, scrisse:
“Marco, per favore, rispondimi. Devo vederti. Oggi. Ora. Quando vuoi. Ma per favore, non dirmi di no.”
Premette invio. Il messaggio volò via. Rimase immobile, il telefono in mano, lo sguardo perso.
Trascorsero cinque minuti. Poi dieci.
Il telefono restava muto. Nessun suono, nessuna vibrazione.
Riaprì la chat. Spunta singola. Non l’aveva nemmeno visualizzato.
Si sedette sul letto, le ginocchia raccolte al petto. Lo schermo illuminava ancora la stanza. Il silenzio di Marco non era solo un’assenza: era una risposta. Una delle più dure da accettare.
Il messaggio era arrivato come una sentenza:
“Dopo tutto questo tempo mi chiedi urgenza di vedermi? Non ti sembra di esagerare un po'? Non sono un tuo dipendente e, dopo la caterva di insulti che mi hai scaricato addosso, ritieniti fortunata se non sei finita direttamente nello spam. Quale urgenza ci può essere dopo tutte queste settimane?”
Alessia era sbiancata. Aveva tentato di chiamarlo, ma il telefono risultava spento. Con un nodo in gola, aveva scritto un altro messaggio: “Possiamo incontrarci per favore?”
La risposta era arrivata venti minuti dopo, fredda e secca come una lama di vetro:
“Tra mezz’ora. Al parco, vicino alla fontana.”
Si preparò in fretta, incapace di pensare a come vestirsi, a come sistemarsi, a cosa dire. Arrivò con il fiatone e il cuore in tumulto. Lui era già lì, seduto sulla panchina con le gambe leggermente divaricate, il busto proteso in avanti e le mani giunte. Lo sguardo fisso davanti a sé, verso la fontana, verso il nulla. Non si girò nemmeno quando la vide arrivare.
Alessia si sedette in silenzio. Avrebbe voluto parlargli, spiegare, piangere magari, ma il peso delle sue parole di giorni prima le gravava addosso come catene.
Dopo un lungo silenzio, lui parlò. La voce bassa, controllata, più lucida che mai.
«Sai cosa mi ha dato più fastidio, Alessia? Non gli insulti. Non i sospetti. Ma l’accusa più meschina: quella di averti manipolata. Di averti usata. Di voler solo portarti a letto. Di non vedere in te nulla oltre un corpo in crisi.»
Si voltò lentamente, posando lo sguardo su di lei.
«Ti sei mai chiesta come mi sono sentito? Dopo averti accompagnata, supportata, aver rifiutato con rispetto il tuo invito più esplicito… vengo trattato come l’ennesimo uomo da cui difendersi. Ti sei mai chiesta perché ho fatto tutto questo?»
La guardava con calma, ma ogni parola colpiva come un martello ben piazzato. Non c’era odio, non c’era desiderio di ferire: solo la limpida esposizione di un dolore lucido e dignitoso.
«E poi sparisci. Mi cancelli. E ora mi scrivi “urgente”? Urgente, Alessia?»
Tacque. Lo sguardo tornò a perdersi nella fontana.
Alessia si sentiva piccola, minuscola accanto a lui. Non per la postura — lei era seduta con le mani in grembo, le gambe strette, le spalle incassate — ma per quel tono calmo, implacabile, che non lasciava appigli.
Deglutì a fatica. Avrebbe voluto abbracciarlo, inginocchiarsi, chiedergli perdono. Ma sapeva che non avrebbe avuto senso, non in quel momento. E allora parlò, con la voce più ferma che riuscì a raccogliere.
«Hai ragione… su tutto. Sono scappata. Mi sono sentita nuda, fragile, inadeguata. E invece di affrontare quelle paure… ti ho accusato di avermele create tu. Come se il problema non fossi io. Come se fossi tu il carnefice e io la poverina confusa.»
Fece un piccolo respiro. Lui era immobile, ma ascoltava.
«La verità è che mi stavi aiutando davvero. Ma non ero pronta. Vedevo cambiamenti sul mio corpo, nella mia testa… e invece di gioirne, ne ho avuto paura. Marta me lo aveva detto. Ma io...»
Abbassò gli occhi, le mani le tremavano.
«Io... non lo so se sono qui per chiederti di ricominciare, o solo per dirti che mi dispiace. So solo che, da quando te ne sei andato, tutto è tornato grigio. Ma non è colpa tua, lo so. È colpa mia. Però volevo dirtelo in faccia. Meriti almeno questo.»
Un lungo silenzio. Lui non parlò. Non si mosse.
Seduti l’uno accanto all’altra sulla panchina, ma divisi da un vuoto che sembrava enorme, Alessia cercava il coraggio di iniziare. Ma fu lui a parlare per primo, con lo sguardo fisso davanti a sé, la voce ferma, tagliente come una lama affilata che non aveva bisogno di urlare per far male.
«Se non sai tu cosa vuoi, Alessia…» cominciò, senza voltarsi, «…perché mi hai scritto?»
Lei si girò verso di lui, ma il suo profilo restava immobile, indurito da qualcosa che non riusciva a penetrare.
«Hai sentito il bisogno di alleggerirti la coscienza? Di cancellare tutto con un messaggio, come se nulla fosse successo?»
Il tono era calmo, quasi piatto, ma proprio per questo tremendo.
«Hai aspettato settimane. E poi, improvvisamente, urgenza. Dopo tutto quello che mi hai detto. Dopo gli insulti. Dopo avermi accusato di averti manipolata, di voler solo portarti a letto, come se io fossi uno qualunque…»
Finalmente si girò verso di lei. Lo sguardo era penetrante, tagliente, acceso da una collera che aveva imparato a non esplodere, ma non per questo era meno viva.
«Io non ti ho mai chiesto niente. Sei stata tu a cercarmi. Sei stata tu a spogliarti — non solo davanti allo specchio. Sei stata tu a voler vedere fin dove potevi arrivare… e quando hai visto davvero te stessa, ti sei spaventata. E hai colpito l’unico che non ti aveva mai giudicata.»
Alessia sentiva un nodo alla gola che cresceva a ogni parola. Ma Marco non le lasciava il tempo di reagire.
«Ora sono qui. Mi hai chiamato tu. Quindi dimmi… cosa vuoi da me adesso? Sul serio.»
Marco si alzò lentamente, lasciando scivolare una mano lungo i pantaloni per lisciare un’ombra inesistente. Si voltò appena verso di lei, come se si aspettasse qualcosa, ma non arrivò nulla. Nessuna parola. Nessun gesto.
Guardò la fontana per un istante, l’acqua che gorgogliava con indifferente continuità. Poi, senza aggiungere altro, si allontanò lungo il vialetto. Il rumore dei suoi passi fu assorbito dal fruscio delle foglie e dal rumore lontano di un’altalena che cigolava.
Alessia rimase lì, immobile sulla panchina. Le dita tremavano appena mentre prendeva il telefono, cercando uno spiraglio, una crepa, un punto da cui ricominciare. Scrisse lentamente, con le mani che faticavano a toccare le lettere giuste.
“Ho paura.”
Il messaggio volò via come un sussurro. Non passarono che pochi secondi. Il telefono vibrò. La risposta, una lama fredda e amara, apparve sullo schermo.
“Anch’io. Ogni volta che vi aiuto a risbocciare perdo una parte di me. Ma a voi questo non interessa. L’importante per voi è il risultato.”
Le dita le scivolarono lungo il bordo del telefono. Rimase a fissare quelle parole. Una dichiarazione, un’accusa, un congedo. Dentro le righe, l’eco di una stanchezza che non aveva mai immaginato. E la consapevolezza, improvvisa e lancinante, che forse per la prima volta nella vita non era solo lei ad avere qualcosa da perdere.

Fine?
scritto il
2025-07-22
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