Elena dal fotografo
di
Ironwriter2025
genere
esibizionismo
Questo racconto è di fantasia, ma ispirato a una stupenda donna reale.
Il vapore della pasta si era già dissolto nell’aria, lasciando la cucina tiepida e un po’ umida. Elena era appoggiata allo stipite della porta, un piede nudo contro il parquet, lo smartphone tra le mani, i pollici fermi sullo schermo. Aveva appena pubblicato una foto sul suo profilo: un autoscatto in vestaglia, scollatura discreta ma invitante, luce calda del tramonto che le accarezzava il volto. E i commenti iniziavano già ad arrivare.
“Che classe…”
“Incredibilmente elegante e sexy…”
“La tua bellezza matura è ipnotica.”
Non rispondeva. Ma li leggeva tutti. E ogni parola era come una goccia di benzina su qualcosa che stava bruciando da settimane.
Alle sue spalle, Giorgio versava il vino nei bicchieri.
— Hai postato di nuovo?
Non c’era rabbia nella voce. Ma neanche indifferenza.
Solo quel tono in mezzo, fatto di controllo trattenuto e tensione sulle labbra.
Lei non si voltò.
— Sì. Mi piace. Mi piace come mi guardano. Mi piace vedere che piaccio ancora.
Lui la osservò in silenzio. L’aveva sempre desiderata così: viva, fiera, femmina. Ma adesso quello stesso fuoco sembrava non appartenergli più. O almeno non solo a lui.
— Non ti basta come ti guardo io?
La domanda era semplice. Ma pesava.
Lei si voltò lentamente, lasciando che la vestaglia le si aprisse un po’ sul petto.
— Tu mi guardi sempre, amore. E lo adoro. Ma il tuo sguardo è pieno d’amore. A volte ho voglia di uno sguardo più… sporco. Di occhi che non mi conoscono, che mi desiderano senza sapere nulla di me.
Giorgio si sedette al tavolo, lo sguardo fisso nel bicchiere.
— E per questo vai da un fotografo sconosciuto? Per avere quegli occhi?
— No. Vado da un fotografo per avere me. Voglio rivedermi da fuori. In uno scatto studiato, non rubato.
Si avvicinò, lo raggiunse alle spalle e gli appoggiò le mani sulle spalle.
— E poi li pubblico. E li commentano. E io mi sento… libera. Non colpevole. Solo mia.
Giorgio sollevò gli occhi verso di lei, poi si alzò.
La prese per i fianchi e la spinse piano contro il frigorifero, fissandola da vicino.
— Ma tu non sei solo tua, Elena. Sei anche mia. Da vent’anni.
Le sfiorò le labbra con la bocca, senza baciarla.
— E ogni volta che uno di quei cretini ti scrive qualcosa… io vorrei gridarlo al mondo: lei è mia, stronzi.
Lei sorrise.
— Ma non puoi.
— Lo so. Ma lo penso. Ogni volta.
Il silenzio li avvolse.
Poi lei sussurrò:
— Ti va di aiutarmi a scegliere i vestiti per lo shooting?
Lui la baciò finalmente, con forza, spingendola ancora di più contro il frigo.
— Sì. Ma solo se dopo mi lasci scattare io… qualche foto che non pubblicherai mai.
Il messaggio arrivò alle 14:17, mentre Elena era seduta al tavolino del solito bar, con le gambe accavallate e lo sguardo perso oltre il bordo del cappuccino ormai tiepido.
“Buongiorno Elena. Confermo per domani alle 15 in studio. Consiglio di portare con sé 3 o 4 cambi: qualcosa in cui si sente pienamente a suo agio, e qualcosa che, se le va, possa osare un po’ di più. Nulla di volgare, ovviamente. Ma la sensualità è una cosa seria.”
Fece una pausa di lettura.
Il messaggio proseguiva:
“Per ogni evenienza, meglio avere con sé anche qualche capo intimo. Anche se non è detto che lo useremo. Se vuole, posso farle trovare in studio una make-up artist per il trucco: è molto brava, ha lavorato in TV. Mi faccia sapere.”
Elena sorrise, bevve un sorso e digitò senza esitazione:
“Perfetto, confermo per domani. Accetto volentieri anche la truccatrice, grazie. Per quanto riguarda gli abiti… mi sto organizzando proprio ora.”
Poi chiuse il telefono, lo posò sulla borsa, e si alzò.
Non sarebbe andata a prendere i vestiti che aveva scelto con Giorgio. Quelli erano stati pensati per rassicurare, per restare dentro il perimetro.
Adesso ne servivano altri.
Abiti che parlassero a un altro sguardo.
Camminò lungo la via dello shopping con un passo diverso dal solito. Indossava un abito morbido e corto, appena scostato dalle cosce ad ogni passo. I capelli raccolti in uno chignon disordinato, il viso truccato solo con un velo di matita e gloss. Ma chi la incrociava si voltava. Qualcosa in lei emanava intenzione.
Entrò in una boutique, non troppo elegante, ma selezionata.
Si avvicinò a una commessa giovane, occhi scuri e sorriso professionale.
— Cerco qualcosa di… fotografico.
— Fotografico?
— Che sia me… ma anche un po’ di più.
La commessa la squadrò, la capì, e la guidò oltre.
Il momento era arrivato, prese la borsa con gli abiti e si diresse all’appuntamento.
La porta a vetri dello studio si aprì con un lieve scatto secco.
Un profumo tenue di legno e incenso le avvolse il respiro non appena varcò la soglia. Le pareti erano color avorio, le luci soffuse, filtrate da pannelli traslucidi. In sottofondo, una musica jazz appena percettibile. Un ambiente curato, intimo, dove ogni dettaglio sembrava pensato per farla sentire… al centro.
— Elena?
La voce venne da sinistra, morbida, bassa.
L’uomo che la stava aspettando aveva esattamente il tono che immaginava. Capelli brizzolati, corti, barba ordinata, occhi piccoli ma penetranti dietro lenti tonde sottili. La camicia nera sbottonata sul collo, i jeans sdruciti e puliti di chi non ha bisogno di impressionare, ma solo di vedere.
— Benvenuta. Lo studio è tutto per te oggi.
Le fece un cenno verso un piccolo corridoio laterale.
Una donna giovane le venne incontro con un sorriso luminoso.
— Piacere, sono Chiara. Sarò la tua truccatrice. Ma prima… un po’ di comfort.
La condusse in un camerino raccolto, specchi retroilluminati, una sedia imbottita color tortora, e un appendiabiti d’ottone con un solo accappatoio bianco piegato con cura.
Chiara le porse l’accappatoio.
— Elena, sei già una donna bellissima. Ma dopo i miei trattamenti… — le fece l’occhiolino — sarai una Dea.
Poi abbassò appena il tono.
— Ti consiglio di spogliarti e di indossarlo, così il trucco non rovina nulla. Dopo, con calma, sceglieremo cosa indossare per i primi scatti.
Fece un passo indietro, sorridendo.
— Quando sei pronta, io ti aspetto di là.
La porta si chiuse piano.
Il silenzio, adesso, era solo suo.
Elena guardò l’accappatoio appeso.
Poi lo specchio.
Poi le sue mani. Tremavano appena.
Si morse il labbro.
E cominciò a spogliarsi.
L’accappatoio era morbido, spesso, con il colletto che sfiorava la clavicola e le maniche troppo lunghe che le coprivano appena le mani. Lo strinse attorno alla vita con un nodo doppio, poi si specchiò. Sotto non indossava nulla, e la sensazione del cotone sulla pelle nuda le diede un fremito quasi infantile. Un misto di pudore e potere.
Aprì appena il davanti, lasciando una linea di pelle nuda visibile fino all’attaccatura del seno. Non per provocare — non ancora — ma per ricordare a sé stessa quanto le piacesse sentirsi esposta nel modo giusto. Vista. Non solo guardata.
Si voltò verso la porta e chiamò, con voce ferma ma controllata:
— Chiara… sono pronta.
La truccatrice entrò pochi istanti dopo, portando con sé un trolley scuro e una sedia pieghevole da studio. Appena la vide, le sorrise.
— Così dev’essere una Dea prima di scendere tra i mortali, eh?
Poi si fece seria, accendendo la luce dello specchio.
— Hai una pelle bellissima. Lavoreremo di leggerezza. Ti va di fidarti?
Elena annuì, sedendosi. L’accappatoio si aprì leggermente sulle cosce, ma lei non lo richiuse. Non ce n’era bisogno.
Chiara cominciò a lavorare.
Una base invisibile, solo un tocco di primer per uniformare, poi un correttore appena sfumato agli angoli degli occhi.
Un’ombra calda sotto lo zigomo, per scolpire con grazia.
Sugli occhi, una matita marrone intensa che seguiva la curva naturale, allungata verso l’esterno, sfumata con dita esperte. Nessuna linea marcata, solo profondità.
Le ciglia vennero incurvate, pettinate, valorizzate con un mascara leggero.
Poi, il tocco finale: un rossetto color ciliegia spento, steso con il pennello solo al centro delle labbra, sfumato delicatamente verso l’esterno per dare volume, naturalezza, mordente.
Chiara fece un passo indietro, osservandola.
— Ecco. Non sei truccata. Sei tua. Solo… con un’intenzione diversa.
Elena si guardò allo specchio.
E per un istante… non si riconobbe.
Ma le piacque moltissimo.
Lo specchio rifletteva una donna che non si era mai vista così.
Elena si alzò lentamente, senza fretta, con movimenti morbidi e pieni. L’accappatoio le scivolò dalle spalle con un solo gesto, silenzioso, e ricadde ai suoi piedi come un sipario che si apre. Rimase nuda un istante davanti alla sua stessa immagine, osservandosi senza più alcun giudizio, solo curiosità e desiderio. Non per ciò che vedeva, ma per ciò che stava diventando.
La pelle era levigata, appena lucida sotto le luci dello specchio, il trucco impeccabile, dosato, elegante e insinuante.
Poi abbassò lo sguardo verso la borsa.
E scelse.
Prima l’intimo.
Un reggiseno push-up volumizzante, perfettamente aderente, che alzava e modellava il seno con una precisione quasi chirurgica. Quando lo allacciò dietro la schiena e si voltò di lato, sorrise: il décolleté era pieno, alto, definito. Sensuale, ma non ostentato. Perfetto.
Poi il tanga.
Blu elettrico, lucido, a V sgambato. La stoffa brillante catturava la luce dello specchio come un riflesso d’acqua notturna. Lo tirò su lentamente, sentendo la tensione elastica posarsi sui fianchi. La linea del tanga spariva tra le curve, lasciando scoperta gran parte della pelle, e questo le piaceva.
Infine, le calze.
Autoreggenti, nere, con la riga posteriore cucita con grazia. Le infilò una per volta, tirandole su con attenzione, lisciando il tessuto sul polpaccio, sulla coscia, fino a sentire l’aderenza perfetta sotto le dita. Si girò di spalle per guardarsi: la riga sottile correva diritta lungo le gambe, precisa, elegante, dominante.
Si voltò di nuovo.
Lo specchio ora restituiva una donna consapevole.
Sotto gli abiti ancora da indossare, Elena era già la protagonista di quello shooting.
Nel camerino lo specchio rifletteva una donna che non aspettava più conferme.
Elena lasciò cadere l’accappatoio con un gesto lento, senza fretta. Rimase nuda per un attimo, poi si chinò con grazia a prendere l’intimo che aveva scelto con cura la sera prima. Il reggiseno push-up blu elettrico modellava il seno alla perfezione, sollevandolo e scolpendolo senza esagerazioni, esaltandone la forma piena e armoniosa. Il tanga coordinato, lucido, sgambato, aderiva come vernice al suo corpo asciutto, lasciando scoperta gran parte della pelle.
Poi infilò le autoreggenti.
Nere, velate, con la riga posteriore.
Le tirò su con lentezza, le dita che lisciavano il tessuto sulla pelle come se stesse accarezzando se stessa. Una volta fissate, si girò e controllò la linea allo specchio: perfetta. Verticale. Impeccabile.
Si prese un respiro profondo.
Poi scelse.
Dal borsone tirò fuori il tailleur.
La giacca, nera, avvitata, in tessuto elasticizzato, con un solo bottone da chiudere al centro del petto. La indossò lentamente, lasciando che le spalle si accomodassero nella struttura rigida, mentre il seno si sollevava appena, spinto dal reggiseno e incorniciato dal taglio netto del revers. Non c’era nessuna camicia sotto. Solo lei.
Poi la gonna.
Nera anch’essa, taglio a tubino, aderente fino a disegnare la curva precisa dei fianchi. Si fermava a metà coscia. Sul lato sinistro, una zip lunga e sottile correva dall’orlo fino all’alto del fianco. Chiusa, era una promessa. Aperta, sarebbe diventata una dichiarazione.
Si voltò, guardandosi di spalle. Il tanga blu si intuiva appena sotto la gonna, come un sussurro nascosto. Le autoreggenti finivano appena sotto, disegnando la gamba come seta viva.
Poi si chinò per le scarpe.
Décolleté nere lucide, tacco dieci. Le indossò senza sedersi, tenendosi in equilibrio, come se volesse ricordare a sé stessa quanto fosse naturale stare in alto.
Ora era pronta.
Totalmente vestita.
Eppure nuda sotto la superficie, sotto lo sguardo, sotto ogni possibile fotografia.
Si sistemò i capelli, lisciandoli dietro un orecchio.
Poi aprì la porta del camerino.
La luce esterna era più calda, come se sapesse cosa stava per entrare.
Elena fece un passo nel corridoio.
E lo sentì.
La voce di lui, bassa, calma, piena di attesa.
— Vieni, Elena.
Adesso ti voglio vedere.
Appena varcò la soglia della sala posa, Elena si sentì attraversata da un’onda sottile di disagio.
Non paura. Solo… esposizione.
Lo spazio era ampio, ma accogliente. Fondali neutri, pannelli luminosi disposti come portali, un tappeto tecnico color antracite su cui poggiava un semplice sgabello nero. In fondo, la macchina fotografica montata su treppiede. E lui, appena dietro, che regolava le luci.
Quando si voltò verso di lei, Elena sentì lo sguardo attraversarla.
— Madonna santa… — disse piano, come se lo stesse dicendo a sé stesso.
Poi alzò lo sguardo.
— Elena, sei semplicemente splendida.
Lei fece un mezzo sorriso teso, abbassando lo sguardo.
— Tranquilla — continuò lui, con una voce che sembrava fatta apposta per calmarla. — È normale essere nervosi. Lo sarei anch’io se fossi al tuo posto. Ma non devi fare nulla. Nessuna posa strana, nessuna espressione studiata.
Voglio solo che tu ci sia. Che stia in piedi. Che respiri. E il resto verrà.
Elena annuì, con un respiro lungo.
Poi lo guardò.
— Così, semplicemente?
— Semplicemente. Ma non banalmente.
Le fece cenno di avvicinarsi al fondale.
Lei ci andò a passi lenti, sentendo ogni centimetro delle scarpe nere sul pavimento. Il tailleur le fasciava il corpo come un involucro consapevole. Era elegante, sensuale, perfetta. Ma dentro… il cuore batteva forte.
— Ok, guardami — disse lui. — Mani lungo i fianchi. Spalle rilassate.
Click.
— Ruota appena il busto verso destra. Brava. Lo sguardo sempre a me.
Click.
— Ora solleva appena il mento. Perfetto.
Click.
— Lascia una gamba leggermente avanti. Non troppo. Sì, così.
Click.
— Prova a incrociare le braccia. Ma senza stringere. Lascia spazio.
Click.
— Sciogli le braccia. Porta una mano alla vita.
Click.
— Ora ruota le spalle. Non cambiare espressione.
Click.
— Fingi di camminare, un passo lento verso la camera.
Click.
Click.
— Stop. Ferma. Guarda oltre me. Non pensare a nulla.
Click.
— Ora guarda dentro l’obiettivo. Proprio dentro.
Click.
Silenzio.
Poi, lui abbassò la macchina.
— Respira, Elena.
E lei si rese conto solo in quel momento che lo stava trattenendo.
— I primi dieci li abbiamo. Ma è solo l’inizio.
La sua voce era più bassa ora.
— C’è qualcosa in te che sta arrivando… e io voglio esserci quando succede.
Lui restò in silenzio per un momento, osservando le anteprima sul display.
— I primi sono belli. Sinceri. Ma tu puoi molto di più.
Lei si avvicinò, curiosa.
Lui le mostrò uno degli scatti. Lei stava in piedi, una mano sul fianco, lo sguardo dritto in camera. Ma non era rigida. Non era impacciata.
Era… viva.
— Sembra che tu sappia perfettamente chi sei — disse lui.
Poi alzò lo sguardo. — Lo sai?
Elena lo guardò.
E per la prima volta, sorrise davvero.
— No. Ma mi piace cercarlo.
— Allora cominciamo a cercare sul serio.
Tornò dietro la macchina.
— Stavolta siediti. Di lato. Sul bordo dello sgabello.
Lei lo fece, con grazia.
— Gamba sopra l’altra, ma morbida. La mano destra appoggiata dietro, sulla seduta. La sinistra sulla coscia.
Lei eseguì. La gonna si sollevò appena, lasciando intravedere più coscia di quanto avesse previsto.
Il fotografo non disse nulla.
Ma si prese un secondo in più a regolare la luce.
— Così va benissimo. Guardami.
Click.
— Ora, lascia che la giacca si apra un po’.
Elena esitò. Poi slacciò l’unico bottone, lasciando che il seno spinto dal push-up si mostrasse appena.
Non troppo.
Basta che si intuisca.
Click.
— Ora inclina leggermente la testa. Accenna un sorriso. Non per me. Per te.
Click.
— Ora appoggia entrambi i gomiti sulle ginocchia. Lasciati andare in avanti. Apri la giacca un po’ di più.
— Così?
— Così è meraviglioso.
Click.
Click.
Click.
Lei stava iniziando a sciogliersi. Ma non nel corpo: nella testa.
— Posso farti una proposta? — chiese lui.
— Dimmi.
— Proviamo un’altra posa. Più diretta. Più tua.
Scendi dallo sgabello. Mettiti in piedi. Una mano sulla zip laterale della gonna. Solo appoggiata.
Non devi aprirla.
Ma devi farmi credere che potresti.
Il silenzio nello studio era spesso come velluto.
La luce cadeva morbida sul corpo di Elena, disegnandone ogni curva con rispetto e desiderio. Era lì, in piedi, al centro della scena, con la giacca del tailleur slacciata, aperta quel tanto che bastava a incorniciare il seno sollevato dal push-up blu elettrico, lucido, deciso. Nessuna camicia sotto, nessun compromesso. Solo lei.
Lo sguardo del fotografo era immobile. Non scattava.
Osservava.
Attendeva.
E capiva.
Elena si voltò appena, con lentezza. La stoffa della gonna nera seguì il movimento dei fianchi, segnandone le linee precise.
Poi abbassò lo sguardo.
E senza che nessuno le dicesse nulla, fece scivolare la mano lungo la coscia sinistra, fino a sfiorare la base della zip.
Il suono del metallo che si sollevava fu l’unico rumore nella sala.
Elena aveva abbassato lo sguardo verso la zip della gonna, e con due dita la stava lentamente aprendo dal fondo, tirando verso l’alto, un centimetro alla volta. Non c’era esitazione. C’era ritmo. Consapevolezza. La stoffa si separava piano, come se obbedisse a un ordine invisibile.
Lui, dietro l’obiettivo, si bloccò per un istante.
Poi la alzò.
E iniziò a scattare.
Click.
Un primo lembo di calza nera comparve. La seta che avvolgeva la coscia era tirata, tesa, perfetta.
Click.
La zip salì ancora. Apparve la balza in pizzo, larga, scura, ricamata. Un disegno deciso, sensuale, che raccontava più di mille parole.
Click. Click.
Il bordo della balza terminava, lasciando spazio alla pelle viva, calda, che brillava appena sotto le luci. La gonna era ormai aperta fino a metà dell’interno coscia. Un’apertura precisa. Voluta. Teatrale.
Click.
Lui continuava a scattare, in silenzio. Nessuna parola. Nessun comando. Solo il suono ritmico e meccanico della fotocamera che registrava il gesto.
Click. Click. Click.
Elena alzò lo sguardo verso la lente, ma non fermò il movimento.
Sollevò ancora la zip, finché lo spacco fu completo.
La calza si vedeva intera, dalla linea della gonna fino al bordo della balza.
E poi… quel piccolo triangolo di pelle nuda.
Lì dove la calza finiva.
Lì dove cominciava lei.
Il fotografo abbassò appena la macchina, senza distogliere lo sguardo.
Era senza fiato.
Elena lo vide.
E ne fu eccitata.
Molto più di quanto si fosse mai aspettata.
L’ultimo scatto lasciò nell’aria un silenzio denso, immobile.
Lui abbassò lentamente la macchina, ma non disse nulla. Lo sguardo restava fisso su di lei, come se non stesse più aspettando una posa… ma una decisione.
Elena restò ferma per un istante. Sentiva il battito nelle orecchie, il tessuto della gonna che premeva sulle cosce, il seno sollevato dal reggiseno che seguiva il ritmo lento del respiro.
Poi, senza preavviso, si mosse.
Sollevò una mano, afferrò il bordo della giacca, e la lasciò scivolare giù, senza fretta. La trattenne solo su una spalla, inclinando leggermente il busto, come se stesse mostrando qualcosa che non era stata invitata a mostrare, ma che voleva offrire comunque.
Il reggiseno blu elettrico, lucido, risaltava sotto la luce. Il seno, pieno e disegnato dal tessuto, sembrava tendersi verso di lui, come se aspettasse lo scatto più ancora dello sguardo.
Non c’era sfida, né provocazione.
C’era solo presenza.
Lei era lì. E voleva che lui la vedesse per com’era adesso.
Lui sollevò la macchina, ma prima di scattare disse, con voce più bassa del solito, quasi un respiro:
— Eccoti finalmente, Elena.
Poi premette l’otturatore.
E in quell’istante, ogni cosa fu vera.
La giacca pendeva da una spalla, come un segno lasciato lì per ricordarle che fino a poco fa era ancora una donna vestita. Adesso no.
Adesso era qualcos’altro.
La pelle nuda del braccio brillava sotto la luce, mentre il seno spinto dal reggiseno blu elettrico sembrava più alto, più pieno, quasi impaziente. Lo spacco della gonna era ancora aperto, salito fino a rivelare con precisione chirurgica la balza dell’autoreggente, il bordo dentellato in pizzo nero e un accenno di pelle viva appena sopra.
Lui non parlava.
Scattava.
Lei sentiva ogni click come una carezza distante, ma precisa.
E con ogni scatto, il desiderio saliva.
Il corpo cominciava a rispondere da solo, il respiro un po’ più corto, le cosce leggermente tese, il calore tra le gambe che non era più solo anticipazione: era presenza.
Poi la voce arrivò, ferma, bassa, carica.
— Lascia andare la giacca.
Lei non rispose.
Non doveva.
Le dita si mossero con naturalezza, sciolsero la tensione della spalla, e la giacca scivolò lungo il braccio, cadendo a terra con un suono sordo. Ora era in piedi, con il busto nudo fino al reggiseno, lo spacco aperto sul fianco, la schiena dritta, lo sguardo fisso in macchina. Sapeva di essere perfetta. Ma voleva essere di più.
Scattò ancora. Una raffica breve. Un respiro.
Poi lui la guardò.
Le disse solo:
— Girati.
Il comando la colpì come un fremito. C’era timore, ma era un timore eccitante, quasi erotico. Obbedì. Lentamente. Il suono dei tacchi sul pavimento era netto, pieno. La schiena si offrì alla luce, il reggiseno la stringeva sotto le scapole, la zip della gonna saliva dritta lungo la curva dei fianchi, chiusa fino alla vita.
— Ora slacciala.
Elena trattenne il fiato.
Sentiva la pelle calda, il cuore in gola, il sesso stretto dentro il tanga lucido.
Portò le mani indietro. Cercò la zip. La trovò.
Appena la toccò, lui scattò.
Il primo movimento fece cedere la tensione della stoffa.
La gonna cominciò a perdere aderenza.
Un altro colpo secco dell’otturatore.
Il tessuto scivolò.
Scese sui fianchi, poi sulle cosce, rivelando la curva delle natiche, la parte superiore delle autoreggenti, il bordo lucido del tanga blu.
Ancora scatti. Lui non le lasciava tregua.
Quando la gonna raggiunse le ginocchia, Elena lasciò fare alla gravità.
La sentì cadere lentamente, poi toccare terra.
Non si mosse. Non si voltò.
Restò lì, in piedi, vestita solo del reggiseno, del tanga e delle calze.
Il corpo pulsava. Il desiderio era reale.
La mente lucida, ma arresa.
Lei lo sentiva.
Lui la stava possedendo.
Con la lente. Con la luce. Con lo sguardo.
E lei, in quel momento, voleva solo restare lì, ancora un istante, esattamente così.
Il rumore degli scatti si era fatto più irregolare.
Elena non aveva bisogno di guardarlo per sapere che qualcosa in lui era cambiato.
Il respiro era più profondo, meno tecnico. La voce non arrivava più. Solo silenzi più lunghi, più intensi.
Poi ci fu un istante in cui non sentì nulla. Nessun click. Nessuna luce.
Solo una pausa.
E quella pausa parlava chiaro.
Lui era eccitato.
Lei non sorrise, ma lo avvertì dentro il ventre, in quella zona viva che batteva tra le gambe. Sentiva la stoffa del tanga premere proprio lì, aderire alla pelle calda e umida, segnare la curva tesa della vulva. Era completamente vestita e completamente nuda allo stesso tempo.
Non si voltò subito. Fece un respiro lento, profondo, e poi lasciò che il busto si inclinasse appena in avanti. Le scapole si aprirono, la schiena si inarcò. Il gesto era naturale, misurato, ma bastava. Sapeva esattamente come le cadeva il reggiseno sul dorso, come la luce colpiva la balza delle autoreggenti, e soprattutto sapeva cosa voleva mostrargli adesso.
Portò le mani sui fianchi. I pollici cercarono il bordo alto del tanga blu, lucido, teso. Lo agganciarono. E poi, con un movimento lento ma deciso, lo sollevarono verso l’alto. Il tessuto le penetrò leggermente tra le labbra, le tese, le disegnò. La forma precisa della sua eccitazione prese vita sotto i suoi stessi occhi, e in quell’istante lo sentì scattare di nuovo.
Non fu un singolo click. Fu una raffica, breve e ravvicinata, come se volesse catturare ogni vibrazione, ogni piccolo cedimento della carne, ogni segno lasciato dal tessuto sulla pelle tesa. Lei restò ferma, ma dentro stava esplodendo. Il desiderio non era più un’onda. Era un punto fisso, acceso, pulsante.
Sapeva di averlo in pugno.
E non voleva ancora lasciarlo andare.
Il silenzio si era fatto denso, quasi solido.
Elena restava immobile nella sua posa, ancora di spalle, con il tanga blu lucido teso tra le natiche, le autoreggenti ben visibili sotto la luce e la schiena che respirava piano. Sentiva il desiderio salire, stratificato, rotondo, come una marea lenta. Era ancora in posizione, ma ormai dentro di sé sapeva di essere pronta a tutto. O quasi.
Dietro di lei, il suono della fotocamera si era interrotto. Non c’erano più scatti, solo silenzio, e poi il suono misurato dei suoi passi sul pavimento. Non le fu necessario voltarsi: sentiva che si era avvicinato, e il calore del suo sguardo ora era fisico, come se potesse toccarla con la sola intenzione.
Quando parlò, la voce fu tranquilla, perfettamente calma, ma così definitiva che sembrò infrangere tutto ciò che c’era stato prima.
Le disse che con quell’outfit avevano finito.
Elena trattenne il fiato per un istante. La frase, in sé, era semplice, neutra, ma il modo in cui l’aveva pronunciata cancellava ogni zona sicura. Poi arrivò il resto, e fu come un passaggio. Non una proposta. Non una domanda. Solo un confine superato con naturalezza.
Adesso potevano passare a qualcosa di più audace.
Lei non si mosse. Sapeva cosa significava quella frase, e sentì il suo corpo reagire ancora prima che la mente potesse formulare una risposta. Il calore tra le gambe si intensificò, le mani sfiorarono le cosce nel tentativo di restare composta. Avrebbe potuto voltarsi, chiedergli cosa intendesse, fingere una curiosità che non aveva. Ma non lo fece.
Rimase lì, il respiro corto, le labbra appena socchiuse, pronta. Non per compiacere. Ma per entrare davvero dentro quel gioco che ormai non le sembrava più pericoloso, ma inevitabile.
Se avete commenti, suggerimenti e critiche potete lasciarli qua sotto o scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
Il vapore della pasta si era già dissolto nell’aria, lasciando la cucina tiepida e un po’ umida. Elena era appoggiata allo stipite della porta, un piede nudo contro il parquet, lo smartphone tra le mani, i pollici fermi sullo schermo. Aveva appena pubblicato una foto sul suo profilo: un autoscatto in vestaglia, scollatura discreta ma invitante, luce calda del tramonto che le accarezzava il volto. E i commenti iniziavano già ad arrivare.
“Che classe…”
“Incredibilmente elegante e sexy…”
“La tua bellezza matura è ipnotica.”
Non rispondeva. Ma li leggeva tutti. E ogni parola era come una goccia di benzina su qualcosa che stava bruciando da settimane.
Alle sue spalle, Giorgio versava il vino nei bicchieri.
— Hai postato di nuovo?
Non c’era rabbia nella voce. Ma neanche indifferenza.
Solo quel tono in mezzo, fatto di controllo trattenuto e tensione sulle labbra.
Lei non si voltò.
— Sì. Mi piace. Mi piace come mi guardano. Mi piace vedere che piaccio ancora.
Lui la osservò in silenzio. L’aveva sempre desiderata così: viva, fiera, femmina. Ma adesso quello stesso fuoco sembrava non appartenergli più. O almeno non solo a lui.
— Non ti basta come ti guardo io?
La domanda era semplice. Ma pesava.
Lei si voltò lentamente, lasciando che la vestaglia le si aprisse un po’ sul petto.
— Tu mi guardi sempre, amore. E lo adoro. Ma il tuo sguardo è pieno d’amore. A volte ho voglia di uno sguardo più… sporco. Di occhi che non mi conoscono, che mi desiderano senza sapere nulla di me.
Giorgio si sedette al tavolo, lo sguardo fisso nel bicchiere.
— E per questo vai da un fotografo sconosciuto? Per avere quegli occhi?
— No. Vado da un fotografo per avere me. Voglio rivedermi da fuori. In uno scatto studiato, non rubato.
Si avvicinò, lo raggiunse alle spalle e gli appoggiò le mani sulle spalle.
— E poi li pubblico. E li commentano. E io mi sento… libera. Non colpevole. Solo mia.
Giorgio sollevò gli occhi verso di lei, poi si alzò.
La prese per i fianchi e la spinse piano contro il frigorifero, fissandola da vicino.
— Ma tu non sei solo tua, Elena. Sei anche mia. Da vent’anni.
Le sfiorò le labbra con la bocca, senza baciarla.
— E ogni volta che uno di quei cretini ti scrive qualcosa… io vorrei gridarlo al mondo: lei è mia, stronzi.
Lei sorrise.
— Ma non puoi.
— Lo so. Ma lo penso. Ogni volta.
Il silenzio li avvolse.
Poi lei sussurrò:
— Ti va di aiutarmi a scegliere i vestiti per lo shooting?
Lui la baciò finalmente, con forza, spingendola ancora di più contro il frigo.
— Sì. Ma solo se dopo mi lasci scattare io… qualche foto che non pubblicherai mai.
Il messaggio arrivò alle 14:17, mentre Elena era seduta al tavolino del solito bar, con le gambe accavallate e lo sguardo perso oltre il bordo del cappuccino ormai tiepido.
“Buongiorno Elena. Confermo per domani alle 15 in studio. Consiglio di portare con sé 3 o 4 cambi: qualcosa in cui si sente pienamente a suo agio, e qualcosa che, se le va, possa osare un po’ di più. Nulla di volgare, ovviamente. Ma la sensualità è una cosa seria.”
Fece una pausa di lettura.
Il messaggio proseguiva:
“Per ogni evenienza, meglio avere con sé anche qualche capo intimo. Anche se non è detto che lo useremo. Se vuole, posso farle trovare in studio una make-up artist per il trucco: è molto brava, ha lavorato in TV. Mi faccia sapere.”
Elena sorrise, bevve un sorso e digitò senza esitazione:
“Perfetto, confermo per domani. Accetto volentieri anche la truccatrice, grazie. Per quanto riguarda gli abiti… mi sto organizzando proprio ora.”
Poi chiuse il telefono, lo posò sulla borsa, e si alzò.
Non sarebbe andata a prendere i vestiti che aveva scelto con Giorgio. Quelli erano stati pensati per rassicurare, per restare dentro il perimetro.
Adesso ne servivano altri.
Abiti che parlassero a un altro sguardo.
Camminò lungo la via dello shopping con un passo diverso dal solito. Indossava un abito morbido e corto, appena scostato dalle cosce ad ogni passo. I capelli raccolti in uno chignon disordinato, il viso truccato solo con un velo di matita e gloss. Ma chi la incrociava si voltava. Qualcosa in lei emanava intenzione.
Entrò in una boutique, non troppo elegante, ma selezionata.
Si avvicinò a una commessa giovane, occhi scuri e sorriso professionale.
— Cerco qualcosa di… fotografico.
— Fotografico?
— Che sia me… ma anche un po’ di più.
La commessa la squadrò, la capì, e la guidò oltre.
Il momento era arrivato, prese la borsa con gli abiti e si diresse all’appuntamento.
La porta a vetri dello studio si aprì con un lieve scatto secco.
Un profumo tenue di legno e incenso le avvolse il respiro non appena varcò la soglia. Le pareti erano color avorio, le luci soffuse, filtrate da pannelli traslucidi. In sottofondo, una musica jazz appena percettibile. Un ambiente curato, intimo, dove ogni dettaglio sembrava pensato per farla sentire… al centro.
— Elena?
La voce venne da sinistra, morbida, bassa.
L’uomo che la stava aspettando aveva esattamente il tono che immaginava. Capelli brizzolati, corti, barba ordinata, occhi piccoli ma penetranti dietro lenti tonde sottili. La camicia nera sbottonata sul collo, i jeans sdruciti e puliti di chi non ha bisogno di impressionare, ma solo di vedere.
— Benvenuta. Lo studio è tutto per te oggi.
Le fece un cenno verso un piccolo corridoio laterale.
Una donna giovane le venne incontro con un sorriso luminoso.
— Piacere, sono Chiara. Sarò la tua truccatrice. Ma prima… un po’ di comfort.
La condusse in un camerino raccolto, specchi retroilluminati, una sedia imbottita color tortora, e un appendiabiti d’ottone con un solo accappatoio bianco piegato con cura.
Chiara le porse l’accappatoio.
— Elena, sei già una donna bellissima. Ma dopo i miei trattamenti… — le fece l’occhiolino — sarai una Dea.
Poi abbassò appena il tono.
— Ti consiglio di spogliarti e di indossarlo, così il trucco non rovina nulla. Dopo, con calma, sceglieremo cosa indossare per i primi scatti.
Fece un passo indietro, sorridendo.
— Quando sei pronta, io ti aspetto di là.
La porta si chiuse piano.
Il silenzio, adesso, era solo suo.
Elena guardò l’accappatoio appeso.
Poi lo specchio.
Poi le sue mani. Tremavano appena.
Si morse il labbro.
E cominciò a spogliarsi.
L’accappatoio era morbido, spesso, con il colletto che sfiorava la clavicola e le maniche troppo lunghe che le coprivano appena le mani. Lo strinse attorno alla vita con un nodo doppio, poi si specchiò. Sotto non indossava nulla, e la sensazione del cotone sulla pelle nuda le diede un fremito quasi infantile. Un misto di pudore e potere.
Aprì appena il davanti, lasciando una linea di pelle nuda visibile fino all’attaccatura del seno. Non per provocare — non ancora — ma per ricordare a sé stessa quanto le piacesse sentirsi esposta nel modo giusto. Vista. Non solo guardata.
Si voltò verso la porta e chiamò, con voce ferma ma controllata:
— Chiara… sono pronta.
La truccatrice entrò pochi istanti dopo, portando con sé un trolley scuro e una sedia pieghevole da studio. Appena la vide, le sorrise.
— Così dev’essere una Dea prima di scendere tra i mortali, eh?
Poi si fece seria, accendendo la luce dello specchio.
— Hai una pelle bellissima. Lavoreremo di leggerezza. Ti va di fidarti?
Elena annuì, sedendosi. L’accappatoio si aprì leggermente sulle cosce, ma lei non lo richiuse. Non ce n’era bisogno.
Chiara cominciò a lavorare.
Una base invisibile, solo un tocco di primer per uniformare, poi un correttore appena sfumato agli angoli degli occhi.
Un’ombra calda sotto lo zigomo, per scolpire con grazia.
Sugli occhi, una matita marrone intensa che seguiva la curva naturale, allungata verso l’esterno, sfumata con dita esperte. Nessuna linea marcata, solo profondità.
Le ciglia vennero incurvate, pettinate, valorizzate con un mascara leggero.
Poi, il tocco finale: un rossetto color ciliegia spento, steso con il pennello solo al centro delle labbra, sfumato delicatamente verso l’esterno per dare volume, naturalezza, mordente.
Chiara fece un passo indietro, osservandola.
— Ecco. Non sei truccata. Sei tua. Solo… con un’intenzione diversa.
Elena si guardò allo specchio.
E per un istante… non si riconobbe.
Ma le piacque moltissimo.
Lo specchio rifletteva una donna che non si era mai vista così.
Elena si alzò lentamente, senza fretta, con movimenti morbidi e pieni. L’accappatoio le scivolò dalle spalle con un solo gesto, silenzioso, e ricadde ai suoi piedi come un sipario che si apre. Rimase nuda un istante davanti alla sua stessa immagine, osservandosi senza più alcun giudizio, solo curiosità e desiderio. Non per ciò che vedeva, ma per ciò che stava diventando.
La pelle era levigata, appena lucida sotto le luci dello specchio, il trucco impeccabile, dosato, elegante e insinuante.
Poi abbassò lo sguardo verso la borsa.
E scelse.
Prima l’intimo.
Un reggiseno push-up volumizzante, perfettamente aderente, che alzava e modellava il seno con una precisione quasi chirurgica. Quando lo allacciò dietro la schiena e si voltò di lato, sorrise: il décolleté era pieno, alto, definito. Sensuale, ma non ostentato. Perfetto.
Poi il tanga.
Blu elettrico, lucido, a V sgambato. La stoffa brillante catturava la luce dello specchio come un riflesso d’acqua notturna. Lo tirò su lentamente, sentendo la tensione elastica posarsi sui fianchi. La linea del tanga spariva tra le curve, lasciando scoperta gran parte della pelle, e questo le piaceva.
Infine, le calze.
Autoreggenti, nere, con la riga posteriore cucita con grazia. Le infilò una per volta, tirandole su con attenzione, lisciando il tessuto sul polpaccio, sulla coscia, fino a sentire l’aderenza perfetta sotto le dita. Si girò di spalle per guardarsi: la riga sottile correva diritta lungo le gambe, precisa, elegante, dominante.
Si voltò di nuovo.
Lo specchio ora restituiva una donna consapevole.
Sotto gli abiti ancora da indossare, Elena era già la protagonista di quello shooting.
Nel camerino lo specchio rifletteva una donna che non aspettava più conferme.
Elena lasciò cadere l’accappatoio con un gesto lento, senza fretta. Rimase nuda per un attimo, poi si chinò con grazia a prendere l’intimo che aveva scelto con cura la sera prima. Il reggiseno push-up blu elettrico modellava il seno alla perfezione, sollevandolo e scolpendolo senza esagerazioni, esaltandone la forma piena e armoniosa. Il tanga coordinato, lucido, sgambato, aderiva come vernice al suo corpo asciutto, lasciando scoperta gran parte della pelle.
Poi infilò le autoreggenti.
Nere, velate, con la riga posteriore.
Le tirò su con lentezza, le dita che lisciavano il tessuto sulla pelle come se stesse accarezzando se stessa. Una volta fissate, si girò e controllò la linea allo specchio: perfetta. Verticale. Impeccabile.
Si prese un respiro profondo.
Poi scelse.
Dal borsone tirò fuori il tailleur.
La giacca, nera, avvitata, in tessuto elasticizzato, con un solo bottone da chiudere al centro del petto. La indossò lentamente, lasciando che le spalle si accomodassero nella struttura rigida, mentre il seno si sollevava appena, spinto dal reggiseno e incorniciato dal taglio netto del revers. Non c’era nessuna camicia sotto. Solo lei.
Poi la gonna.
Nera anch’essa, taglio a tubino, aderente fino a disegnare la curva precisa dei fianchi. Si fermava a metà coscia. Sul lato sinistro, una zip lunga e sottile correva dall’orlo fino all’alto del fianco. Chiusa, era una promessa. Aperta, sarebbe diventata una dichiarazione.
Si voltò, guardandosi di spalle. Il tanga blu si intuiva appena sotto la gonna, come un sussurro nascosto. Le autoreggenti finivano appena sotto, disegnando la gamba come seta viva.
Poi si chinò per le scarpe.
Décolleté nere lucide, tacco dieci. Le indossò senza sedersi, tenendosi in equilibrio, come se volesse ricordare a sé stessa quanto fosse naturale stare in alto.
Ora era pronta.
Totalmente vestita.
Eppure nuda sotto la superficie, sotto lo sguardo, sotto ogni possibile fotografia.
Si sistemò i capelli, lisciandoli dietro un orecchio.
Poi aprì la porta del camerino.
La luce esterna era più calda, come se sapesse cosa stava per entrare.
Elena fece un passo nel corridoio.
E lo sentì.
La voce di lui, bassa, calma, piena di attesa.
— Vieni, Elena.
Adesso ti voglio vedere.
Appena varcò la soglia della sala posa, Elena si sentì attraversata da un’onda sottile di disagio.
Non paura. Solo… esposizione.
Lo spazio era ampio, ma accogliente. Fondali neutri, pannelli luminosi disposti come portali, un tappeto tecnico color antracite su cui poggiava un semplice sgabello nero. In fondo, la macchina fotografica montata su treppiede. E lui, appena dietro, che regolava le luci.
Quando si voltò verso di lei, Elena sentì lo sguardo attraversarla.
— Madonna santa… — disse piano, come se lo stesse dicendo a sé stesso.
Poi alzò lo sguardo.
— Elena, sei semplicemente splendida.
Lei fece un mezzo sorriso teso, abbassando lo sguardo.
— Tranquilla — continuò lui, con una voce che sembrava fatta apposta per calmarla. — È normale essere nervosi. Lo sarei anch’io se fossi al tuo posto. Ma non devi fare nulla. Nessuna posa strana, nessuna espressione studiata.
Voglio solo che tu ci sia. Che stia in piedi. Che respiri. E il resto verrà.
Elena annuì, con un respiro lungo.
Poi lo guardò.
— Così, semplicemente?
— Semplicemente. Ma non banalmente.
Le fece cenno di avvicinarsi al fondale.
Lei ci andò a passi lenti, sentendo ogni centimetro delle scarpe nere sul pavimento. Il tailleur le fasciava il corpo come un involucro consapevole. Era elegante, sensuale, perfetta. Ma dentro… il cuore batteva forte.
— Ok, guardami — disse lui. — Mani lungo i fianchi. Spalle rilassate.
Click.
— Ruota appena il busto verso destra. Brava. Lo sguardo sempre a me.
Click.
— Ora solleva appena il mento. Perfetto.
Click.
— Lascia una gamba leggermente avanti. Non troppo. Sì, così.
Click.
— Prova a incrociare le braccia. Ma senza stringere. Lascia spazio.
Click.
— Sciogli le braccia. Porta una mano alla vita.
Click.
— Ora ruota le spalle. Non cambiare espressione.
Click.
— Fingi di camminare, un passo lento verso la camera.
Click.
Click.
— Stop. Ferma. Guarda oltre me. Non pensare a nulla.
Click.
— Ora guarda dentro l’obiettivo. Proprio dentro.
Click.
Silenzio.
Poi, lui abbassò la macchina.
— Respira, Elena.
E lei si rese conto solo in quel momento che lo stava trattenendo.
— I primi dieci li abbiamo. Ma è solo l’inizio.
La sua voce era più bassa ora.
— C’è qualcosa in te che sta arrivando… e io voglio esserci quando succede.
Lui restò in silenzio per un momento, osservando le anteprima sul display.
— I primi sono belli. Sinceri. Ma tu puoi molto di più.
Lei si avvicinò, curiosa.
Lui le mostrò uno degli scatti. Lei stava in piedi, una mano sul fianco, lo sguardo dritto in camera. Ma non era rigida. Non era impacciata.
Era… viva.
— Sembra che tu sappia perfettamente chi sei — disse lui.
Poi alzò lo sguardo. — Lo sai?
Elena lo guardò.
E per la prima volta, sorrise davvero.
— No. Ma mi piace cercarlo.
— Allora cominciamo a cercare sul serio.
Tornò dietro la macchina.
— Stavolta siediti. Di lato. Sul bordo dello sgabello.
Lei lo fece, con grazia.
— Gamba sopra l’altra, ma morbida. La mano destra appoggiata dietro, sulla seduta. La sinistra sulla coscia.
Lei eseguì. La gonna si sollevò appena, lasciando intravedere più coscia di quanto avesse previsto.
Il fotografo non disse nulla.
Ma si prese un secondo in più a regolare la luce.
— Così va benissimo. Guardami.
Click.
— Ora, lascia che la giacca si apra un po’.
Elena esitò. Poi slacciò l’unico bottone, lasciando che il seno spinto dal push-up si mostrasse appena.
Non troppo.
Basta che si intuisca.
Click.
— Ora inclina leggermente la testa. Accenna un sorriso. Non per me. Per te.
Click.
— Ora appoggia entrambi i gomiti sulle ginocchia. Lasciati andare in avanti. Apri la giacca un po’ di più.
— Così?
— Così è meraviglioso.
Click.
Click.
Click.
Lei stava iniziando a sciogliersi. Ma non nel corpo: nella testa.
— Posso farti una proposta? — chiese lui.
— Dimmi.
— Proviamo un’altra posa. Più diretta. Più tua.
Scendi dallo sgabello. Mettiti in piedi. Una mano sulla zip laterale della gonna. Solo appoggiata.
Non devi aprirla.
Ma devi farmi credere che potresti.
Il silenzio nello studio era spesso come velluto.
La luce cadeva morbida sul corpo di Elena, disegnandone ogni curva con rispetto e desiderio. Era lì, in piedi, al centro della scena, con la giacca del tailleur slacciata, aperta quel tanto che bastava a incorniciare il seno sollevato dal push-up blu elettrico, lucido, deciso. Nessuna camicia sotto, nessun compromesso. Solo lei.
Lo sguardo del fotografo era immobile. Non scattava.
Osservava.
Attendeva.
E capiva.
Elena si voltò appena, con lentezza. La stoffa della gonna nera seguì il movimento dei fianchi, segnandone le linee precise.
Poi abbassò lo sguardo.
E senza che nessuno le dicesse nulla, fece scivolare la mano lungo la coscia sinistra, fino a sfiorare la base della zip.
Il suono del metallo che si sollevava fu l’unico rumore nella sala.
Elena aveva abbassato lo sguardo verso la zip della gonna, e con due dita la stava lentamente aprendo dal fondo, tirando verso l’alto, un centimetro alla volta. Non c’era esitazione. C’era ritmo. Consapevolezza. La stoffa si separava piano, come se obbedisse a un ordine invisibile.
Lui, dietro l’obiettivo, si bloccò per un istante.
Poi la alzò.
E iniziò a scattare.
Click.
Un primo lembo di calza nera comparve. La seta che avvolgeva la coscia era tirata, tesa, perfetta.
Click.
La zip salì ancora. Apparve la balza in pizzo, larga, scura, ricamata. Un disegno deciso, sensuale, che raccontava più di mille parole.
Click. Click.
Il bordo della balza terminava, lasciando spazio alla pelle viva, calda, che brillava appena sotto le luci. La gonna era ormai aperta fino a metà dell’interno coscia. Un’apertura precisa. Voluta. Teatrale.
Click.
Lui continuava a scattare, in silenzio. Nessuna parola. Nessun comando. Solo il suono ritmico e meccanico della fotocamera che registrava il gesto.
Click. Click. Click.
Elena alzò lo sguardo verso la lente, ma non fermò il movimento.
Sollevò ancora la zip, finché lo spacco fu completo.
La calza si vedeva intera, dalla linea della gonna fino al bordo della balza.
E poi… quel piccolo triangolo di pelle nuda.
Lì dove la calza finiva.
Lì dove cominciava lei.
Il fotografo abbassò appena la macchina, senza distogliere lo sguardo.
Era senza fiato.
Elena lo vide.
E ne fu eccitata.
Molto più di quanto si fosse mai aspettata.
L’ultimo scatto lasciò nell’aria un silenzio denso, immobile.
Lui abbassò lentamente la macchina, ma non disse nulla. Lo sguardo restava fisso su di lei, come se non stesse più aspettando una posa… ma una decisione.
Elena restò ferma per un istante. Sentiva il battito nelle orecchie, il tessuto della gonna che premeva sulle cosce, il seno sollevato dal reggiseno che seguiva il ritmo lento del respiro.
Poi, senza preavviso, si mosse.
Sollevò una mano, afferrò il bordo della giacca, e la lasciò scivolare giù, senza fretta. La trattenne solo su una spalla, inclinando leggermente il busto, come se stesse mostrando qualcosa che non era stata invitata a mostrare, ma che voleva offrire comunque.
Il reggiseno blu elettrico, lucido, risaltava sotto la luce. Il seno, pieno e disegnato dal tessuto, sembrava tendersi verso di lui, come se aspettasse lo scatto più ancora dello sguardo.
Non c’era sfida, né provocazione.
C’era solo presenza.
Lei era lì. E voleva che lui la vedesse per com’era adesso.
Lui sollevò la macchina, ma prima di scattare disse, con voce più bassa del solito, quasi un respiro:
— Eccoti finalmente, Elena.
Poi premette l’otturatore.
E in quell’istante, ogni cosa fu vera.
La giacca pendeva da una spalla, come un segno lasciato lì per ricordarle che fino a poco fa era ancora una donna vestita. Adesso no.
Adesso era qualcos’altro.
La pelle nuda del braccio brillava sotto la luce, mentre il seno spinto dal reggiseno blu elettrico sembrava più alto, più pieno, quasi impaziente. Lo spacco della gonna era ancora aperto, salito fino a rivelare con precisione chirurgica la balza dell’autoreggente, il bordo dentellato in pizzo nero e un accenno di pelle viva appena sopra.
Lui non parlava.
Scattava.
Lei sentiva ogni click come una carezza distante, ma precisa.
E con ogni scatto, il desiderio saliva.
Il corpo cominciava a rispondere da solo, il respiro un po’ più corto, le cosce leggermente tese, il calore tra le gambe che non era più solo anticipazione: era presenza.
Poi la voce arrivò, ferma, bassa, carica.
— Lascia andare la giacca.
Lei non rispose.
Non doveva.
Le dita si mossero con naturalezza, sciolsero la tensione della spalla, e la giacca scivolò lungo il braccio, cadendo a terra con un suono sordo. Ora era in piedi, con il busto nudo fino al reggiseno, lo spacco aperto sul fianco, la schiena dritta, lo sguardo fisso in macchina. Sapeva di essere perfetta. Ma voleva essere di più.
Scattò ancora. Una raffica breve. Un respiro.
Poi lui la guardò.
Le disse solo:
— Girati.
Il comando la colpì come un fremito. C’era timore, ma era un timore eccitante, quasi erotico. Obbedì. Lentamente. Il suono dei tacchi sul pavimento era netto, pieno. La schiena si offrì alla luce, il reggiseno la stringeva sotto le scapole, la zip della gonna saliva dritta lungo la curva dei fianchi, chiusa fino alla vita.
— Ora slacciala.
Elena trattenne il fiato.
Sentiva la pelle calda, il cuore in gola, il sesso stretto dentro il tanga lucido.
Portò le mani indietro. Cercò la zip. La trovò.
Appena la toccò, lui scattò.
Il primo movimento fece cedere la tensione della stoffa.
La gonna cominciò a perdere aderenza.
Un altro colpo secco dell’otturatore.
Il tessuto scivolò.
Scese sui fianchi, poi sulle cosce, rivelando la curva delle natiche, la parte superiore delle autoreggenti, il bordo lucido del tanga blu.
Ancora scatti. Lui non le lasciava tregua.
Quando la gonna raggiunse le ginocchia, Elena lasciò fare alla gravità.
La sentì cadere lentamente, poi toccare terra.
Non si mosse. Non si voltò.
Restò lì, in piedi, vestita solo del reggiseno, del tanga e delle calze.
Il corpo pulsava. Il desiderio era reale.
La mente lucida, ma arresa.
Lei lo sentiva.
Lui la stava possedendo.
Con la lente. Con la luce. Con lo sguardo.
E lei, in quel momento, voleva solo restare lì, ancora un istante, esattamente così.
Il rumore degli scatti si era fatto più irregolare.
Elena non aveva bisogno di guardarlo per sapere che qualcosa in lui era cambiato.
Il respiro era più profondo, meno tecnico. La voce non arrivava più. Solo silenzi più lunghi, più intensi.
Poi ci fu un istante in cui non sentì nulla. Nessun click. Nessuna luce.
Solo una pausa.
E quella pausa parlava chiaro.
Lui era eccitato.
Lei non sorrise, ma lo avvertì dentro il ventre, in quella zona viva che batteva tra le gambe. Sentiva la stoffa del tanga premere proprio lì, aderire alla pelle calda e umida, segnare la curva tesa della vulva. Era completamente vestita e completamente nuda allo stesso tempo.
Non si voltò subito. Fece un respiro lento, profondo, e poi lasciò che il busto si inclinasse appena in avanti. Le scapole si aprirono, la schiena si inarcò. Il gesto era naturale, misurato, ma bastava. Sapeva esattamente come le cadeva il reggiseno sul dorso, come la luce colpiva la balza delle autoreggenti, e soprattutto sapeva cosa voleva mostrargli adesso.
Portò le mani sui fianchi. I pollici cercarono il bordo alto del tanga blu, lucido, teso. Lo agganciarono. E poi, con un movimento lento ma deciso, lo sollevarono verso l’alto. Il tessuto le penetrò leggermente tra le labbra, le tese, le disegnò. La forma precisa della sua eccitazione prese vita sotto i suoi stessi occhi, e in quell’istante lo sentì scattare di nuovo.
Non fu un singolo click. Fu una raffica, breve e ravvicinata, come se volesse catturare ogni vibrazione, ogni piccolo cedimento della carne, ogni segno lasciato dal tessuto sulla pelle tesa. Lei restò ferma, ma dentro stava esplodendo. Il desiderio non era più un’onda. Era un punto fisso, acceso, pulsante.
Sapeva di averlo in pugno.
E non voleva ancora lasciarlo andare.
Il silenzio si era fatto denso, quasi solido.
Elena restava immobile nella sua posa, ancora di spalle, con il tanga blu lucido teso tra le natiche, le autoreggenti ben visibili sotto la luce e la schiena che respirava piano. Sentiva il desiderio salire, stratificato, rotondo, come una marea lenta. Era ancora in posizione, ma ormai dentro di sé sapeva di essere pronta a tutto. O quasi.
Dietro di lei, il suono della fotocamera si era interrotto. Non c’erano più scatti, solo silenzio, e poi il suono misurato dei suoi passi sul pavimento. Non le fu necessario voltarsi: sentiva che si era avvicinato, e il calore del suo sguardo ora era fisico, come se potesse toccarla con la sola intenzione.
Quando parlò, la voce fu tranquilla, perfettamente calma, ma così definitiva che sembrò infrangere tutto ciò che c’era stato prima.
Le disse che con quell’outfit avevano finito.
Elena trattenne il fiato per un istante. La frase, in sé, era semplice, neutra, ma il modo in cui l’aveva pronunciata cancellava ogni zona sicura. Poi arrivò il resto, e fu come un passaggio. Non una proposta. Non una domanda. Solo un confine superato con naturalezza.
Adesso potevano passare a qualcosa di più audace.
Lei non si mosse. Sapeva cosa significava quella frase, e sentì il suo corpo reagire ancora prima che la mente potesse formulare una risposta. Il calore tra le gambe si intensificò, le mani sfiorarono le cosce nel tentativo di restare composta. Avrebbe potuto voltarsi, chiedergli cosa intendesse, fingere una curiosità che non aveva. Ma non lo fece.
Rimase lì, il respiro corto, le labbra appena socchiuse, pronta. Non per compiacere. Ma per entrare davvero dentro quel gioco che ormai non le sembrava più pericoloso, ma inevitabile.
Se avete commenti, suggerimenti e critiche potete lasciarli qua sotto o scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
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