Alessia 5

di
genere
sentimentali

Il primo chiarore filtrava tra le fessure delle tapparelle, tingendo la stanza di un grigio lattiginoso. Marco aprì gli occhi lentamente, il corpo ancora fuso col letto, ma la mente già altrove. Alessia dormiva accanto a lui, rannicchiata sul fianco, i capelli spettinati che le velavano una guancia. Era bellissima in quel disordine naturale, nuda sotto il lenzuolo che le copriva appena i fianchi.
Non voleva svegliarla. Scostò piano le lenzuola, si sedette sul bordo del letto e rimase qualche istante lì, immobile, guardandola. Poi si alzò, raccolse i jeans e la maglietta da terra e uscì in terrazza.
L’aria del mattino era fresca, carica dell’umidità dell’alba. Accese il suo svapo e tirò una lunga boccata, lasciando che il vapore gli scivolasse lento tra le labbra. Gli occhi si persero lontano, oltre i palazzi, oltre i pensieri.
Era andata esattamente come temeva. Lei lo aveva guidato, stuzzicato, provocato fino a strappargli l’anima. Ed era stata bravissima. Gli aveva fatto perdere il controllo, gli aveva chiesto di chiudere gli occhi, poi lo aveva baciato, dominato con grazia, spogliato con sguardi e parole. Gli era salita addosso e lui, come sempre, si era lasciato andare. Si era illuso.
Si rese conto che stava stringendo il bocchino dello svapo con troppa forza. Rilassò la presa e si appoggiò alla ringhiera. Non poteva succedere di nuovo. Non con lei. Alessia era in crisi, fragile, bellissima. Ma anche determinata. Aveva raggiunto il suo obiettivo: sentirsi ancora desiderata. E ora, lo sapeva, sarebbe tornata alla sua vita, più forte, più luminosa. E lui? Lui avrebbe ripreso a non dormirci la notte. A pensare ai suoi messaggi, ai suoi sospiri, ai suoi gesti. Come ogni volta.
Un’altra boccata, più lenta. Un sorso d’aria per soffocare quella fitta al petto.
Non si può essere guida per qualcuno che ti conduce dove tu non sai più tornare.
Un refolo leggero gli sfiorò le braccia nude. Il cielo stava virando lentamente all’azzurro, e la città cominciava a svegliarsi sotto di lui con i primi rumori ovattati. Marco restò appoggiato alla ringhiera, lo sguardo fisso nel vuoto, e il cuore ancorato a ciò che sapeva e non voleva ammettere.
Non era la prima volta che accadeva. Non era la prima donna in crisi che gli chiedeva aiuto. Aveva imparato a riconoscere certe sfumature nello sguardo, certi silenzi, certi sorrisi falsi e vestiti a metà. E lui sapeva come guidarle fuori da quel buio. Sapeva essere gentile, ma fermo. Dolce, ma irremovibile. Le accompagnava fino a quando non avevano più bisogno di lui. E poi spariva, perché era quello il suo compito.
Ne aveva incontrate diverse. Alcune grate, altre confuse, qualcuna persino arrabbiata con sé stessa per essersi lasciata cambiare. Ma nessuna gli era rimasta dentro. Tranne Marta. Con lei era stato diverso. Non si era innamorato, lo sapeva bene, ma c’era stato un tempo in cui si era sorpreso a cercare i suoi messaggi. A sentirsi vuoto se tardavano ad arrivare. Era un’infatuazione sottile, fatta più di complicità che di reale desiderio. Un debole, forse. Ma era bastato poco per capire che il loro rapporto era nato già destinato a finire.
Con Alessia no.
Con Alessia ogni gesto sembrava avere un peso, ogni parola detta o taciuta gli si depositava addosso come sabbia umida. Non era solo attrazione, non solo tenerezza. Era altro. Un disastro annunciato che non riusciva a non desiderare. Lei aveva preso il sopravvento senza chiedergli il permesso. Lo aveva sedotto e condotto, e lui aveva seguito. Con gioia, sì. Ma anche con paura.
Si portò una mano alla fronte, la sfiorò come a voler spostare un pensiero troppo insistente.
E ora? Che doveva fare?
Godersi ciò che veniva, accettare che il ruolo di guida fosse sfumato in qualcosa di più profondo, rischioso, forse doloroso? O troncare adesso, prima che fosse troppo tardi, prima che anche lei — come tutte le altre — si sentisse rinata e libera di andare?
Doveva tornare a fare il maestro. Ma ne era ancora capace?
Dietro di lui, il silenzio della casa sembrava ancora avvolgere Alessia in un sonno tranquillo. Eppure lui sentiva già il rumore della distanza che si preparava a nascere.
La porta del terrazzo si aprì di colpo, senza preavviso. Marco si voltò di scatto, e la vide: nuda, spettinata, con gli occhi ancora gonfi di sonno ma un sorriso aperto che illuminava la sua figura minuta. Aveva addosso solo il suo odore e la sicurezza di chi, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva bella senza doversi nascondere.
«Caffè? Niente caffè?» esclamò sbadigliando, mentre attraversava il terrazzo a piedi nudi. Il seno le ballava libero sotto la luce morbida del mattino, e i fianchi nudi oscillavano a ogni passo. Si avvicinò a Marco come se fosse la cosa più naturale del mondo, passandogli accanto con un tocco veloce sulla schiena.
Si affacciò alla ringhiera, stiracchiandosi tutta, incurante del mondo intorno.
«Che bella giornata…» disse a voce alta, poi si girò e finalmente lo guardò meglio. Il suo sguardo non aveva ancora perso l’ombra del sonno, ma bastò un attimo per notare la tensione sul volto di lui. Non era lì, con lei. Era altrove.
Il sorriso le si affievolì appena, senza svanire del tutto.
«Hei…» disse più piano, avvicinandosi di nuovo. Lo sfiorò sul fianco. «Ti ho svegliato io?»
Marco non rispose subito. Scosse solo la testa, poi si forzò a sorridere, ma non ci riuscì del tutto. Alessia si fece seria.
«Hai un’aria… distante. Cos’hai?»
E in quel momento lo sguardo di lei cambiò. Smise di essere la donna che aveva preso il controllo di tutto, e tornò per un attimo a essere quella che aveva bussato con timidezza nella sua vita, chiedendo aiuto. Ma non disse altro. Aspettava.
Marco la guardò, con il cuore stretto in una morsa.
Dovevo guidarti… pensò. E adesso sei tu che guidi me.
Marco si girò lentamente verso di lei, e per un momento la osservò in silenzio. Era lì, nuda, vera, senza difese. Ma non era la sua nudità a metterlo in difficoltà, quanto quella naturalezza disarmante con cui stava gestendo tutto. Come se fosse già rinata, già libera, e lui… lui fosse rimasto indietro.
«Stanotte è stato bellissimo, Ale,» cominciò, con la voce bassa. «Ma io non sto bene.»
Lei inclinò la testa, il viso si fece più attento. «Che vuoi dire?»
«Che tu mi stai trascinando dove non posso permettermi di andare.» Le parole gli uscivano lente, ma precise. «Io dovevo aiutarti, guidarti. E invece ieri sera sei stata tu a prendermi per mano, a farmi perdere il controllo. E io ti ho lasciata fare. Con gioia, sì… ma adesso ho paura.»
Alessia lo fissava, seria, in silenzio. Non si mosse. Non si strinse le braccia sul petto. Restò esposta. Presente.
«Ho vissuto altre esperienze simili,» continuò lui, «con donne in momenti difficili. Le ho aiutate a rivedersi, a riscoprirsi, e poi sono andate avanti, più forti. E io… sono rimasto lì. Fuori dalle loro vite. Non era amore. Ma ogni volta è stato un piccolo strappo.»
Fece una pausa. Aveva lo sguardo basso, rivolto al pavimento. Quando lo sollevò, lo fece con coraggio.
«Con te è diverso. E questo mi terrorizza. Perché sento che mi stai entrando dentro sul serio. E so anche che, quando avrai trovato di nuovo te stessa, non avrai più bisogno di me. Non sono l’uomo che puoi amare. Sono solo il ponte. E i ponti, quando si attraversano, si lasciano dietro.»
Lo disse tutto d’un fiato, senza enfasi, senza difese. Poi tacque. La guardò, nudo come lei, ma dentro.
Alessia abbassò lo sguardo per un istante. Non perché si vergognasse, ma perché sentì il peso di quella verità su di sé. E per la prima volta da giorni non si sentì solo accolta. Si sentì responsabile.
Per qualche secondo non disse nulla.
Si voltò verso il mare, gli occhi che si perdevano oltre i tetti, nel blu che cominciava a prendere forma tra le prime luci. Il suo corpo si rilassò, ma non per indifferenza — piuttosto per gravità. Era il peso delle parole di Marco che ora le scendeva dentro.
Marco la osservava, trattenendo il respiro. La luce le accarezzava la spalla e scivolava lungo la curva del fianco. Il vento le scompigliava i capelli. E per un attimo lui pensò che se ne sarebbe andata. Che avrebbe detto qualcosa di gentile, forse, ma distante. Un grazie. Un sorriso. E poi fine.
Invece, dopo quel lungo silenzio, si voltò di nuovo verso di lui. Lo guardò senza parlare. Poi, con movimenti lenti, naturali, gli salì in grembo e si sedette a cavalcioni. Le braccia attorno al suo collo, il petto contro il suo. Appoggiò la fronte alla sua.
Non stava seducendo. Non stava provocando. Si stava consegnando.
«Io non lo so cosa succederà, Marco,» mormorò, finalmente. «So solo che stanotte non ho finto. E che ora mi sento viva. E se questa cosa mi è successa con te… allora forse non sei solo un ponte.»
Lo baciò piano sulla guancia, poi si appoggiò di nuovo a lui, la testa nella piega tra spalla e collo.
«Non chiedermi oggi cosa sarò domani. Ma stamattina… io voglio stare qui.»
E per la prima volta, fu lui ad appoggiarsi a lei.
Il vento le sollevava piano i capelli mentre restava appoggiata a lui, la pelle ancora tiepida della notte. Marco le accarezzò lentamente la schiena, poi si scostò appena, la prese tra le mani e la guardò. Non come un uomo che ammira, ma come qualcuno che cerca una verità nel volto dell’altro.
Le si avvicinò e la baciò. Non fu un bacio famelico né distratto. Fu un bacio pieno, lento, profondo. Di quelli che nascono da dentro, che non vogliono impressionare ma restare. Un bacio che diceva: io ci sono. Forse ho paura, ma ci sono.
Lei lo accolse con dolcezza, poi si staccò piano e sorrise. «Rientro, ho freddo,» mormorò, sfiorandogli la guancia con la punta delle dita. Si voltò e sparì nella luce calda della stanza, lasciando dietro di sé solo il suono lieve dei suoi passi sul pavimento.
Marco rimase ancora lì. Si alzò, e si avvicinò alla ringhiera. Davanti a lui, il mare cominciava a brillare. Le prime barche si allontanavano lente verso il largo. Le voci dell’hotel erano ancora ovattate. Solo il respiro del vento e il sapore del sale.
Si passò una mano tra i capelli e chiuse gli occhi.
Si deve rischiare tanto per avere tanto.
Quante volte se l’era detto? Quante volte aveva scelto di non farlo, accontentandosi di essere quello che aggiusta, che accompagna, che resta nell’ombra mentre qualcun altro si prende il futuro?
Ma Alessia… Alessia era diversa. Non aveva un copione. Non stava tornando alla sua vita. La stava scrivendo da capo.
E se ne fosse valsa la pena?
Se questa paura che sentiva fosse solo una scusa? Un’armatura logora che aveva indossato troppe volte? Forse non era Alessia a essere in bilico. Forse era lui. Incapace di concedersi a qualcosa che non può controllare.
Le altre erano donne già impegnate, legate, collocate. Viaggiavano su binari sicuri, e lui era solo una deviazione. Alessia no. Lei era un territorio aperto, pieno di rischi e possibilità. E se invece di accompagnarla… avesse scelto di camminare con lei?
Riaprì gli occhi. Il sole stava salendo.
Dentro, lei probabilmente stava cercando una maglietta, un paio di mutandine, qualcosa da mettere su. Forse si sarebbe messa a cercare del caffè. Forse si sarebbe seduta a gambe incrociate sul letto, aspettandolo.
Marco sospirò piano.
«Rischiamo,» disse a mezza voce, come se parlasse a sé stesso. «Ma stavolta… con te.»
E si voltò per rientrare.
Marco rientrò in camera chiudendosi alle spalle la porta del terrazzo. Indossava i jeans e la maglietta che aveva infilato poco prima, ancora a piedi scalzi, ma con un passo diverso: calmo, determinato, finalmente allineato a ciò che sentiva.
La stanza era silenziosa. Sentì solo il rumore dell’acqua scrosciare nella doccia. Si fermò un istante, inclinò il capo e sorrise appena. Alessia era entrata in bagno senza dire nulla. Tipico. Irrompeva nelle cose come se il mondo fosse il suo — e forse lo era.
Quando l’acqua si spense, lui si sedette sul bordo del letto e attese.
Dopo qualche secondo, la porta del bagno si aprì con un lieve cigolio, e lei comparve nella luce del vapore, avvolta nell’accappatoio bianco dell’hotel. I capelli bagnati le cadevano sulle spalle, le gambe nude lasciavano intuire la pelle ancora umida. Aveva un’aria rilassata, appagata.
Lo vide e sorrise, ma il suo sorriso durò poco.
«Ti pare il caso di infilarti in doccia senza dire niente?» sbottò lui, improvvisamente.
Lei si fermò, basita. «Ma…»
«Che non succeda più,» la interruppe Marco, serissimo.
Lei lo fissò, con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa. Non capiva se fosse arrabbiato o solo teatrale.
Poi lui si alzò in piedi, le si avvicinò e, dopo un attimo di pausa, sciolse la tensione con un sorriso pieno, caldo, quello di chi ha deciso di esserci davvero.
«La doccia… dobbiamo farla insieme.»
Alessia lo fissò ancora per un secondo, poi gli tirò un buffetto sul petto. «Idiota,» sussurrò, stringendolo in un abbraccio lungo, stretto, silenzioso. Il suo viso affondato nel suo collo, le braccia attorno alla sua schiena.
Marco si staccò appena dall’abbraccio, le accarezzò il fianco con un dito e poi, con finta severità, disse: «Comunque, per punizione, la doccia la faccio da solo.»
Alessia lo guardò, divertita. «Ah sì? Punizione?»
«Hai infranto le regole fondamentali della convivenza balneare,» rispose serio, già diretto verso il bagno. «La prossima volta, almeno un invito.»
Lei sorrise, si strinse un po’ di più nell’accappatoio e lo guardò sparire nel vapore lasciato dal getto caldo. Lo sentì canticchiare qualcosa a voce bassa: riconobbe Kashmir. Era tornato Marco.
Mentre lui si lavava in fretta, lei si asciugò con cura. Scelse il costume nero lucido — quello a tanga, aderente, senza vergogna — e lo infilò lentamente, facendolo aderire perfettamente alla pelle. Sopra, tirò fuori dal borsone il vestitino traforato nero, quello indossato al viaggio d’andata. Morbido, corto, con i buchi larghi quanto basta da suggerire, non mostrare. Si guardò allo specchio: le gambe nude, i glutei appena visibili sotto il tessuto traforato, il seno compresso ma in evidenza. Perfetto. Sorrise da sola.
Quando Marco uscì dal bagno si asciugava i capelli con l’asciugamano. Indossava un bermuda da mare beige, largo, e la solita maglietta nera dei Led Zeppelin — scolorita, ma ancora fiera. La guardò, e fece un fischio basso, con un’espressione da uomo che apprezza senza bisogno di esagerare.
«Ah… quindi hai deciso di far venire giù l’intero stabilimento.»
Lei si voltò piano su se stessa, le mani sui fianchi, e rispose: «Magari solo la palazzina accanto. Lo stabilimento mi pare troppo.»
«Umile come sempre,» commentò lui, avvicinandosi e scostandole una ciocca dai capelli bagnati.
Poi, con naturalezza, aggiunse: «Andiamo a fare colazione? Mi sa che oggi ci serve.»
Lei annuì. Nessuno dei due aveva fame vera, ma avevano bisogno di normalità. Di parole leggere. Di mani che si sfiorano mentre si passa il caffè. Di sorrisi senza pensieri.
Scivolarono fuori dalla stanza senza chiudere troppo forte la porta. La giornata era cominciata.
La sala colazioni era al piano terra, affacciata su una terrazza con vista sul mare. Tovaglie bianche, tazzine in ceramica sottile, un odore diffuso di brioches calde e caffè appena macinato. Il chiacchiericcio ovattato degli altri ospiti si mescolava al rumore delle stoviglie, ma per Marco e Alessia sembrava tutto distante, quasi irreale.
Si sedettero in un tavolino d’angolo, all’ombra di un grande ombrellone bianco. Alessia si tolse gli occhiali da sole, lo sguardo libero, luminoso. Il vestitino a rete lasciava intravedere i contorni precisi del costume nero sotto, e più di un uomo si voltò a guardarla, fingendo di cercare qualcosa tra i piatti.
Marco se ne accorse. Ma non disse nulla. Si limitò a riempirle la tazzina con il caffè bollente dalla caraffa, come se quel gesto lo rivendicasse più di qualsiasi frase.
«Stai diventando pericolosa,» le sussurrò, con un tono neutro solo in apparenza.
Lei lo guardò sopra il bordo della tazza. «Vuoi fermarmi?»
«Nemmeno per sogno.»
Il buffet offriva di tutto, ma si limitarono a poco: una brioche vuota per lei, yogurt e frutta per lui. Il vero nutrimento, quel giorno, era l’elettricità tra di loro. Il modo in cui si osservavano. In cui si capivano senza parlarsi.
Alessia giocava con un pezzetto di mollica, mentre lo guardava. «Oggi voglio scendere in spiaggia. Camminare un po’. Vedere se… se riesco a reggere gli sguardi.»
Marco non sorrise. Ma annuì, lentamente. «Va bene. Ma io ti guarderò più degli altri.»
Lei piegò la testa, fingendo di riflettere. «Allora dovrò assicurarmi di esserti all’altezza.»
Lui si alzò per riempire un bicchiere d’acqua. Mentre tornava, incrociò lo sguardo di un uomo seduto poco lontano, che aveva appena distolto gli occhi dalle gambe di Alessia. Nessuna ostilità. Nessuna sfida. Solo un pensiero: adesso la guardano tutti, ma io so com’era ieri sera. E com’è stamattina. E voglio esserci anche domani.
La spiaggia dell’hotel era ancora semi vuota quando arrivarono. Scelsero un ombrellone in seconda fila, abbastanza vicino al mare da sentirne il respiro, abbastanza appartato da non dover abbassare la voce. Marco sistemò i teli sulle due sdraio, mentre Alessia si sfilava il vestitino a rete con un movimento lento, quasi teatrale, lasciando scoperto il costume intero nero. Il tessuto lucido le aderiva alla pelle come una promessa mantenuta. Il taglio sgambato le lasciava scoperti i glutei quasi per intero, rendendo ogni suo passo un piccolo spettacolo.
Quando si stese a pancia in giù, voltando appena il viso verso di lui, Marco si schiarì la voce. «Ti metto la crema?»
«Ti sto aspettando,» rispose lei, senza neppure voltarsi.
Aprì il flacone e versò un po’ di crema fresca tra le mani, poi cominciò a spalmarla sulla sua schiena, con gesti lenti e attenti. Le dita scivolavano lungo la colonna vertebrale, disegnavano traiettorie sui fianchi, salivano sulle spalle. Quando arrivò ai glutei, si fermò un istante. Poi, con naturalezza, li prese tra le mani, stringendoli con una lentezza che non aveva nulla di furtivo.
Alessia sollevò appena lo sguardo da sotto le ciglia. «Ti stai approfittando di me.»
«Sto proteggendo la tua pelle.»
«Ah. Tutto molto professionale.»
Ma non si oppose. Anzi, si voltò piano, mettendosi supina, e gli offrì il ventre, le cosce, il seno disegnato dal costume. Marco ricominciò a spalmare, con la stessa cura, e il suo sguardo indugiava dove le mani non osavano troppo. Lei lo fissava con un sorriso morbido, quasi divertito, lasciandogli spazio.
«Ora tocca a te,» disse poi, sedendosi sulle ginocchia. «Vieni qua, impiegato sexy.»
Marco si lasciò andare sulla sdraio accanto, e lei gli salì accanto con la bottiglia in mano. Versò un po’ di crema e cominciò a spalmarla sul petto, poi sulla pancia, con gesti esagerati e teatrali.
«E questa?» chiese, pizzicandogli un fianco. «Cos’è, la riserva di emergenza?»
«Si chiama esperienza,» borbottò lui, fingendo serietà.
«Io la chiamerei pigrizia. Ma tranquillo… ti farò smaltire tutto a furia di notti in bianco.»
Marco la guardò, sorridendo. Lei rise, si abbassò un istante per posargli un bacio sull’ombelico e poi si sdraiò accanto a lui, con la testa rivolta verso il mare. Le loro mani si cercarono da sole, come due foglie che si toccano sull’acqua.
Il sole filtrava attraverso la tela chiara dell’ombrellone, disegnando riflessi tremolanti sulle loro pelli. Il mare mormorava a pochi metri, bambini giocavano più in là, e l’odore della sabbia calda si mescolava al profumo di crema solare. Alessia stava sdraiata con un braccio piegato dietro la testa, le gambe accavallate, gli occhi socchiusi dietro gli occhiali da sole. Marco le sedeva accanto, gambe larghe, una bottiglietta d’acqua tra le mani.
«Dimmi la verità,» disse lei, senza voltarsi. «Quanti anni ha quella maglietta dei Led Zeppelin?»
Marco la guardò di lato. «Più o meno come te. Ma porta meglio i segni del tempo.»
Lei gli tirò un calcio leggero sulla coscia. «Scemo.»
«Realista.»
«Io almeno cambio. Mi evolvo.»
«La mia maglietta è coerente. È sempre lei. Non si finge qualcun altro.»
Lei rise, si girò su un fianco e lo fissò. «Quindi io mi fingo qualcun altro?»
«No. Tu stai diventando finalmente te stessa.»
Il silenzio che seguì non fu pesante. Solo pieno. Lei allungò una mano e gli accarezzò il ginocchio. «Ti sto piacendo così?»
«Mi piaci perché sei te. Anche quando sei insopportabile.»
Lei sorrise. «Quindi sempre.»
«Praticamente.»
Un gabbiano volò basso davanti a loro, e Marco lo seguì con lo sguardo. Poi indicò la sagoma curva di una signora poco distante, seduta sotto un altro ombrellone. «Secondo te quella ha nascosto il marito sotto la sabbia per farlo stare zitto?»
Alessia si girò e sbirciò, trattenendo una risata. «No. Secondo me gli ha messo gli auricolari e lo ha sintonizzato su Radio Maria. Così dorme e si purifica. Strategia avanzata.»
«La userò con te, se parli troppo.»
«Sei già fortunato che sono in modalità vacanza. In città ti distruggerei.»
Marco si stese di nuovo, il braccio sopra la fronte. «Non vedo l’ora.»
Restarono così. Niente promesse. Nessuna domanda sul domani. Solo respiri che si mescolavano al ritmo del mare, mani che ogni tanto si cercavano, e quel senso raro e prezioso di non dover dimostrare niente a nessuno.
Marco era rimasto solo sotto l’ombrellone per qualche minuto seduto con le gambe allungate, il telefono tra le mani, lo sguardo assente che scorreva distratto qualche notizia o forse una mail — il classico riflesso da uomo che ogni tanto sente il bisogno di rifugiarsi nella normalità.
Lei si fermò a guardarlo un attimo. Quel suo viso rilassato, il profilo tagliato dalla luce, le spalle larghe, le gambe aperte con noncuranza. E fu in quel momento che le venne l’idea.
Appoggiò le granite sul tavolino basso, poi si sedette di fronte a lui, sulla sdraio che avevano lasciato vuota. Non disse nulla. Si mise con la schiena ben dritta, la testa alta, i seni protesi in avanti sotto il costume lucido, e allargò lentamente le gambe, mantenendo le ginocchia piegate. Con le dita, afferrò i bordi del tessuto tra le cosce e lo tirò leggermente verso l’alto, verso l’interno, facendolo aderire completamente al profilo del pube.
Il tessuto, già teso per conto suo, ora si disegnava contro di lei con precisione quasi oscena. Nessuno intorno poteva vedere nulla. Solo lui. Solo Marco.
Poi fece un piccolo rumore con la gola, un finto colpo di tosse appena accennato.
Marco sollevò lo sguardo dal telefono.
Si bloccò.
Gli occhi si posarono su di lei e rimasero lì. Fissi. Per un secondo, non disse nulla. Poi sorrise piano, di quel sorriso che nasce dalle viscere, mescolando desiderio e tenerezza, incredulità e possesso.
«Monella,» mormorò, senza bisogno di altro.
Alessia non si mosse. Tenne la posa per un altro secondo, poi abbassò appena il mento, con uno sguardo tagliente e calmo. «Solo per te.»
Il sole era ormai alto, e la spiaggia si era lentamente popolata. Risate, chiacchiere, lo stridio ritmico delle sdraio che venivano spostate sotto l’ombra, bambini che correvano tra le onde con secchielli troppo grandi per le mani.
Alessia era sdraiata sul fianco, rivolta verso Marco, un braccio sotto la testa, l’altro disteso lungo il fianco. Il costume nero le scolpiva addosso la figura, e ogni tanto il vento le muoveva i capelli sul viso. Marco, con gli occhi semichiusi e le gambe allungate, osservava il mare, ma da un po’ si era accorto di qualcos’altro.
Notava gli sguardi. Discreti, ma continui. Alcuni rapidi, altri più insistenti. Qualche uomo che si voltava mentre tornava dal bagno, qualcun altro che allungava la visuale da dietro gli occhiali da sole. E non solo uomini. C’era attenzione, curiosità, attrazione.
Si voltò lentamente verso di lei.
«Lo stai notando anche tu?» chiese.
Alessia lo guardò, socchiudendo gli occhi per via della luce. «Cosa?»
«Quanti ti guardano. Da un po’. Ti osservano con la coda dell’occhio, qualcuno nemmeno troppo di nascosto.»
Lei restò in silenzio, poi si voltò appena verso il mare. «Sì. Un po’ li ho visti. Ma non so bene che effetto mi faccia.»
Marco annuì. Rimase un momento a riflettere, poi aggiunse, con voce calma: «Quando è stata l’ultima volta che ti è successo?»
«Non lo so. Forse… anni fa. O forse succedeva e io non me ne accorgevo. Mi sentivo invisibile. Mi vestivo per nascondermi, non per essere vista.»
Si voltò verso di lui. «E adesso mi guardano. Ma non mi sento usata. Né giudicata. Mi sento... scelta.»
Marco le sorrise appena. Si tirò su, sedendosi sul bordo della sdraio.
«Vedi Ale… io non ti sto più portando da nessuna parte. Non ti sto spingendo, né guidando. Tu stai camminando da sola. E lo stai facendo benissimo.»
Lei non rispose subito. Solo lo sguardo, più serio, più pieno. Poi si alzò anche lei a sedere, le gambe raccolte, il viso rivolto verso di lui.
«Ma tu ci sei ancora, vero? Anche se non mi guidi più?»
Marco non esitò. Le prese piano una mano, la strinse con dolcezza.
«Ti cammino accanto, Alessia. Non davanti, non dietro. Accanto. E se ti vuoi appoggiare… io sono sempre qui.»
Lei abbassò lo sguardo un istante. Non per debolezza, ma per non farsi travolgere da quella risposta. E quando lo rialzò, nei suoi occhi c’era una luce nuova. Quella di chi ha appena capito di non essere più sola.
Il sole aveva cambiato inclinazione, e con esso anche il ritmo della spiaggia. I bambini erano scomparsi tra le cabine, le famiglie si ritiravano piano, lasciando dietro solo i corpi lenti dei vacanzieri adulti, che si stendevano nell’oro liquido del tardo pomeriggio. L’aria era più morbida, la luce più sensuale.
Alessia era rimasta sdraiata sulla schiena, le mani intrecciate dietro la testa, il viso rivolto verso il cielo. Il suo costume nero assorbiva la luce e la restituiva in riflessi delicati, e la pelle cominciava a prendere quel colore uniforme, caldo, da donna che si appartiene.
Marco le sedeva accanto, le gambe distese e le braccia appoggiate sui braccioli della sdraio. Avevano parlato poco, godendosi il silenzio.
Fu lei a rompere la quiete, con un tono leggero, ma pieno di sottintesi.
«Marco… una cosa.»
«Dimmi.»
«Hai detto che non mi guidi più. Che cammini accanto a me.»
«Sì.»
Lei si voltò di lato, guardandolo. «E se io volessi… esplorare sentieri un po’ più… spinti? Tu mi guideresti lo stesso, o mi fermeresti?»
Lui le restituì uno sguardo serio. «Dipende da cosa intendi.»
Lei fece spallucce. «Vestirmi in modo ancora più audace. Scoprirmi. Espormi. Non per gli altri. Per me. Per vedermi riflessa negli sguardi. Per capire fin dove mi spingo.»
Marco tacque un attimo, cercando le parole. Ma mentre stava per rispondere, si voltò un istante verso la spiaggia, distratto da un richiamo lontano.
Quando tornò a guardarla, Alessia era ancora lì, sdraiata. Ma qualcosa era cambiato.
Aveva abbassato con lentezza il costume, tirandolo sotto i seni. Il pezzo superiore giaceva piegato appena sopra lo stomaco. I seni erano completamente nudi, abbronzati solo in parte, fermi e morbidi sotto la luce, e lei li offriva al sole come fosse la cosa più naturale del mondo.
Marco la fissò, senza parlare. Lei non lo guardava più. Aveva ripreso la posizione di prima, occhi chiusi, respiro lento.
Dopo qualche secondo, sorrise appena, senza voltarsi.
«Se ti stai chiedendo se è un test… la risposta è sì.»
Marco non seppe se ridere, alzarsi o inchinarsi.
«Monella.»
«Solo per te.»
Ma stavolta non era più una battuta. Era una dichiarazione.
Marco la fissò ancora un istante. Il sole le accarezzava il petto nudo, le punte dei seni appena indurite dal fresco del pomeriggio, e lei restava lì, immobile, con la calma sfacciata di chi si è appena scelto. La pelle le brillava di sale e desiderio, ma il suo viso era sereno, quasi assorto.
Fu in quel momento che lui sentì crescere dentro un’urgenza sottile. Non era brama. Era bisogno. Bisogno di toccarla, di sentirla addosso, di farle capire che quel gesto, quella malizia, quel coraggio appena mostrato… non lo spaventavano. Lo chiamavano.
Si alzò senza dire nulla, si chinò su di lei e, con un gesto deciso ma dolce, la sollevò tra le braccia. Lei aprì gli occhi di colpo, sorpresa, e un piccolo sorriso le si accese sulle labbra.
«Marco! Ma che—»
«Zitta. Devo sentire che sei vera.»
Lei si lasciò fare, le braccia attorno al suo collo, le gambe che dondolavano leggere mentre lui la portava, passo dopo passo, verso la riva. I pochi sguardi attorno a loro non esistevano più. C’erano solo il suono delle onde e il battito del cuore che lui sentiva vibrare contro il suo petto.
Arrivati all’acqua, Marco entrò deciso, con l’acqua che gli saliva alle ginocchia, poi ai fianchi. Alessia rabbrividì appena, ma non si lamentò. Quando furono immersi fino alla vita, la lasciò scivolare giù, facendola adagiare tra le sue braccia.
Il costume le era ancora abbassato, ma lì dentro, nell’acqua salata che si muoveva attorno a loro, non aveva più importanza. Il corpo di lei si premeva contro il suo, il viso gli si era avvicinato. Gli occhi chiari lo fissavano da vicino, pieni di vita.
«Hai idea di quanto mi fai impazzire?» sussurrò lui, stringendola sotto l’acqua.
Lei lo baciò sull’angolo della bocca. «Mi piace farti perdere l’equilibrio. Così mi vieni più vicino.»
Lui rise piano, le mani che si muovevano sulla sua schiena bagnata. Si avvicinarono ancora, l’acqua che li cullava, le gambe intrecciate tra la schiuma.
Poi rimasero lì, in silenzio, pelle contro pelle, bocche appena sfiorate, occhi negli occhi.
Leggeri. Veri. Insieme.
L’acqua li avvolgeva calda, spinta da onde morbide che li facevano oscillare l’uno contro l’altra. Alessia si strinse al collo di Marco con naturalezza, e quando lui fece un altro passo verso il largo, lei lo capì subito. Lasciò che l’acqua le coprisse il busto, poi lo fissò, con un sorriso calmo.
«Se fai ancora un passo, non tocco più.»
«Bene,» disse lui, serio, ma con una scintilla negli occhi.
Lei lo sfidò con lo sguardo. E quando l’acqua le salì oltre le spalle, le gambe si staccarono dalla sabbia e si chiusero intorno ai suoi fianchi, come se quel gesto fosse sempre esistito tra loro. Si agganciò a lui con eleganza e forza insieme, il costume ancora tirato sotto il seno, il corpo che aderiva al suo in ogni punto bagnato.
Marco la sostenne senza fatica. Sentì la tensione nei muscoli, il contatto diretto della pelle, e la risposta immediata del suo corpo. Ma non c’era fretta. Solo il piacere pieno di sentirla così vicina, addosso, viva.
Le mani gli scivolarono lungo la schiena, fermandosi sui fianchi, poi risalendo lentamente. Lei lo baciò, stavolta davvero. Un bacio profondo, lento, che non chiedeva nulla ma prometteva tutto. Lo tenne così, le mani tra i capelli di lui, il petto premuto contro il suo, i seni nudi che si schiacciavano sul torace bagnato, il ventre che cominciava ad accendersi.
Le loro bocche si staccarono, ma rimasero vicine, i respiri mescolati, le fronti che si sfioravano.
Le mani di Marco si fermarono sui glutei, stringendoli con attenzione, con desiderio misurato. Alessia gli sussurrò nell’orecchio: «Mi piace così. Essere addosso a te. Sentirti. Piano.»
«Anche a me,» rispose lui, la voce bassa, roca di emozione.
Poi si fermò un istante, sentendo il suo corpo reagire più di quanto volesse, e con un sorriso imbarazzato mormorò: «E adesso… come faccio a uscire dall’acqua così?»
Alessia scoppiò a ridere piano, stringendosi di più. «Ti ci porto io… sulle spalle.»
«Non tentarmi.»
«Troppo tardi.»
E rimasero ancora lì, abbracciati, mentre il mare intorno a loro si muoveva lento, spettatore discreto di qualcosa che stava crescendo — a ritmo perfetto.
Rientrarono in camera senza dire nulla. L’aria condizionata accolse i loro corpi bagnati con una carezza fredda. Alessia si fermò al centro della stanza, gocciolante, con i capelli incollati al viso e il costume che cominciava a pesare sulla pelle.
Si voltò lentamente verso di lui, lo sguardo vivo, scintillante. Poi, senza fretta, portò le mani dietro la schiena e abbassò il costume. Prima lo fece scivolare sui fianchi, poi lungo le gambe. Lo lasciò cadere in silenzio ai suoi piedi, e restò lì, nuda, con l’acqua che le colava lungo il corpo, gli occhi puntati su di lui.
«Visto che sennò ti offendi…» sussurrò, con un sorriso che era già una promessa.
«Vieni a fare la doccia?»
Marco non rispose. Si limitò a seguirla.
La raggiunse quando lei era già sotto il getto, il viso rivolto verso l’alto, le braccia aperte come a farsi attraversare da quel momento. Entrò accanto a lei, e il vetro si chiuse dietro di loro con un suono attutito. Il rumore dell’acqua riempì tutto il silenzio.
Le mani di Marco la cercarono subito, ma con lentezza. Le sfiorò le spalle, poi la schiena, disegnandone la curva con i polpastrelli. Alessia si voltò verso di lui, gli prese il viso tra le mani, e lo baciò. Un bacio profondo, senza bisogno di prove. Solo verità.
Poi fu lui a chinarsi, a far scorrere il sapone sulle sue braccia, sul ventre, sui fianchi. La lavava come se la stesse riscrivendo, come se ogni gesto fosse una preghiera. E quando arrivò tra le gambe, non lo fece per eccitarla. Lo fece per accoglierla. Lei gli aprì piano le cosce, si lasciò lavare, respirando piano, occhi chiusi, labbra socchiuse.
Quando fu il suo turno, prese il docciaschiuma e cominciò a lavarlo, partendo dalle spalle, scendendo lungo il petto. Gli accarezzò la pancia con dolcezza, poi il sesso, che accolse tra le mani senza malizia. Solo gratitudine.
Si guardarono negli occhi.
Poi Marco la prese per i fianchi, la sollevò contro la parete liscia e bagnata, e lei lo accolse dentro di sé come se fosse sempre stato lì. Nessuna resistenza. Nessuna esitazione. Solo l’unione perfetta di due corpi che si erano aspettati a lungo.
Si mossero piano. L’acqua scorreva su di loro, ma sembrava non toccarli. Erano sospesi, persi in un ritmo fatto di respiri profondi e mani intrecciate. Marco la baciava ovunque riuscisse: il collo, le guance, le palpebre chiuse. Lei gli sussurrava parole che non erano parole, solo suoni spezzati tra un fremito e l’altro.
Non fu violento. Non fu neppure lento. Fu giusto. Un incastro esatto tra due anime che avevano smesso di fingere.
Quando lei venne, si aggrappò a lui con tutto il corpo, stringendosi mentre il piacere le attraversava la schiena come una scossa dolce. E lui venne poco dopo, il volto premuto contro il suo, il fiato che si mescolava al vapore.
Rimasero abbracciati a lungo, sotto il getto dell’acqua che li lavava, ma non portava via nulla. Non c’era più bisogno di dire niente.
Avevano fatto l’Amore. E qualcosa dentro di loro, da quel momento, era cambiato per sempre.

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scritto il
2025-07-25
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