Insieme... Cap. 9

di
genere
trio

La casa era in silenzio. Era quasi sera. Le luci basse. La borsa con i documenti dell’intervento appoggiata all’ingresso. Evelina mise musica piano. Io presi tre bicchieri. Tu ti toccavi piano il petto, ancora stupita di sentire il tuo corpo rispondere con dolcezza. Ti sedemmo tra noi. Sul tappeto, davanti al divano. Nude, o quasi. Solo un foulard al collo. Solo pelle. Evelina versò il vino. Rosso, morbido. La bottiglia aperta piano. I suoni lievi. “Per te,” disse, porgendoti il calice. “Per noi,” aggiunsi. Tu li prendesti entrambi. Li guardasti. Poi ci fissasti negli occhi. “Perché il mio corpo è mio. Ma è anche vostro. Perché mi avete custodita, e ora mi lasciate splendere.” Toccammo i bicchieri. Un tintinnio basso. Poi bevemmo. Io mi avvicinai. Ti baciai la spalla. Evelina le labbra. Poi le nostre bocche si trovarono. Tre. In mezzo al tappeto. Un bacio unico. Lento. Fuso. Vero. E quando ci stendemmo, la tua testa sul mio petto, le mani di Evelina sul tuo ventre, il tuo sorriso… diceva tutto. Eri arrivata. E non eri più sola.

Eravamo a cena. Un pasto leggero. Pochi sorrisi. Tu stanca. Ma viva. Poi Evelina si alzò. Andò a chiudere tutte le luci. Lasciò accesa solo quella della camera. Una lampada bassa, calda. Si girò verso di te. Ti fissò negli occhi. “Oggi non ti voglio dolce. Ti voglio mia.” Tu non rispondesti. Ma il tuo respiro cambiò. Lei si avvicinò. Ti prese per il mento. Ti costrinse ad alzare il viso. “Oggi non ti accarezzerò. Ti comanderò. E voglio vederti cedere. Fino in fondo.” Fece un cenno. “Inginocchiati. Spogliati. Resta solo con il collare.” Tu obbedisti. Lenta. Precisa. Poi ti legò i polsi con la seta. Ti fece stare in piedi, gambe divaricate, le braccia alzate dietro la testa. “Non parlerai. Non chiederai. Se ti chiedo di restare ferma, resterai ferma. Se ti voglio aperta, ti aprirai.” Io ero sul letto. Nuda. In silenzio. La osservavo prenderti. La sua lingua fu lenta, ma decisa. Le dita più forti. Più scure. Ti accarezzò il cazzo, ma solo per tenerti tesa. Non per darti piacere. “Se vieni senza il mio permesso,” disse, “dormirai fuori dal letto. Nuda. Con le mani legate.” Tu ansimavi. Ma obbedivi. E io… vedevo in te una donna piena di fuoco trattenuto. Quando finalmente ti concesse il primo orgasmo, eri in lacrime. Per il rilascio. Per la potenza. Lei ti baciò. Ti sciolse. Ti strinse a sé. “Solo chi sa cedere così… merita di essere tenuta davvero.”

Il letto era sfatto. Lenzuola umide. Cuscini spostati. L’odore del nostro piacere nell’aria. Io ero seduta sul bordo. Nuda, spettinata, con le cosce ancora lucide di te. Tu in piedi, davanti allo specchio, con addosso solo il collare nero. Il sesso già a metà. Non duro per bisogno. Ma per disponibilità. Evelina era lì. Nuda. In piedi. Lo sguardo fermo. In mano, una scatola scura. “Stanotte…” disse. La voce bassa, decisa. “…voglio entrare in te. Senza parole. Solo con il mio ritmo. Il mio desiderio.” Tu deglutisti. Ti voltasti verso di lei. I seni morbidi, appena tesi. Il tuo cazzo che pulsava, non per sfida… ma per sottomissione consapevole. Evelina aprì la scatola. Estrasse lo strapon. Nero. Sottile. Lucido. Elegante, ma implacabile. Lo indossò con lentezza. Ogni cinghia stretta sulla pelle. Ogni gesto, una dichiarazione. Poi si sedette sul bordo della poltrona. Allargò le gambe. Ti guardò. “Vieni qui.” Tu ti avvicinasti. Lenta. Obbediente. Ti salisti a cavallo sulle sue cosce. Ti sistemasti sopra di lei, il bacino contro la base del dildo. Lei ti prese le cosce. Ti massaggiò piano. Ti accarezzò i seni, la nuca, la bocca. Poi abbassò la voce. “Voglio che lo prendi con lentezza. Che ti lasci andare. Che mi senta dentro… come se fossi sempre stata lì.” Io mi avvicinai da dietro. Mi stesi contro di te, il mio seno sulla tua schiena, il mio ventre contro le tue natiche. Ti avvolsi le anche con le mani. E ti sussurrai: “Sei pronta, amore mio. Fallo per te.” Ti abbassasti. Guidata. Calda. Bagnata. Quando il primo centimetro entrò, ansimasti. Il tuo corpo si tese. Ma non per paura. Per resa. Evelina ti prese i fianchi. Ti guidò. Ti fece scendere. Tutta. Fino in fondo. Io ti baciavo il collo, mentre lei cominciava a muoversi. Lenta. Profonda. Il bacino contro il tuo. I colpi regolari, ma pieni. Ogni spinta… più dentro. Ogni suono… più tuo. “Apriti,” ti disse. “Fammi sentire come cedi.” Tu gemesti. Un gemito basso, gutturale, che spaccava la gola. Mi stringesti le mani sui polsi. E io… io ti parlavo nell’orecchio, tra un bacio e un morso. “Ti sta scopando come meriti. Forte. Lento. Vero.” Evelina prese ritmo. Ti penetrava con autorità. Il dildo che affondava, ti riempiva, ti allargava. La sua mano sulla tua nuca. La sua bocca aperta sul tuo seno. Io leccavo le tue spalle. Ti infilavo due dita in bocca. Tu le succhiavi. Avevi bisogno di qualcosa da trattenere… mentre tutto il resto di te si lasciava andare. E quando venisti — quando venisti con il suo nome tra i denti, e il mio respiro che ti inondava il petto — non ci fu violenza. Non ci fu vergogna. Ci fu solo verità. Ti stringemmo. Io da dietro. Lei da sotto. E nel tuo corpo bagnato, spalancato, sazio… c’era scritta una cosa sola: Adesso sì. Adesso sono donna. E non mi porto più via.

Il tuo corpo, Elena, era ancora tremante. Sdraiata sul fianco, il seno che si muoveva con il respiro. Il cazzo riposato tra le cosce. Le labbra aperte, ma mute. Evelina si tolse lo strapon con lentezza. Lo posò sul lenzuolo. Poi si voltò verso di me. “È tuo, ora.” Io lo raccolsi. Lo indossai. Senza parole. Solo con lo sguardo fisso su di lei. Si mise a quattro zampe. Fiera. Bellissima. Ma disponibile. Tu, Elena, sollevasti appena la testa. Ci guardavi. Le mani sul ventre. Le gambe ancora divaricate. Un fremito. Mi posizionai dietro Evelina. Le accarezzai i fianchi. Poi le presi i capelli. Li sollevai. E sussurrai: “Posso?” Lei annuì. Senza voltarsi. Entrai in lei con decisione. Ma senza fretta. I miei movimenti calmi. Profondi. Guidati. Il suono del suo piacere era diverso. Più ruvido. Ma autentico. Tu gemesti piano. Non per gelosia. Perché vederla così… ti faceva sentire parte di lei. Ogni colpo che le davo, era anche per te. Ogni ansimo che lei lasciava andare, ti attraversava il ventre. Quando lei venne, si voltò verso di te. Ancora in ginocchio. Con il seno che saliva e scendeva. E disse solo: “Non smettere mai di amarmi. Elena.”

Il corpo di Evelina ancora caldo, disteso tra noi. Io sul fianco, le dita intrecciate alle tue. Tu, Elena, la guardavi. Come se stessi ancora cercando di capire dove eri arrivata stanotte. Lei si sollevò piano. Ti raggiunse. Ti prese il viso con entrambe le mani. “Non voglio che tu pensi di essere solo quella che riceve. Stanotte mi hai vista. Mi hai accolta. Mi hai tenuta.” Fece un respiro. “Ora ti voglio segnare. Non per possesso. Per gratitudine.” Prese dal cassetto un rossetto scuro. Lo aprì. E con il pollice sollevò la tua guancia. Poi, lentamente, scrisse una lettera piccola sul tuo seno sinistro. Una E. Curva. Morbida. Sottile. “Resterà finché non la laverai. Ma dentro, non andrà mai via.” Ti baciò lì. Lunga. Fermandosi. Respirando te. Io vi guardai. Poi mi avvicinai. E dissi solo: “Adesso siete pari. Adesso siamo complete.” E ci stendemmo così. Tre corpi. Tre storie. Una sola notte che non avrà bisogno di essere ripetuta per restare per sempre.

La moka borbottava. Il profumo del caffè riempiva la cucina. Eri seduta sullo sgabello, Elena, con la camicia sbottonata, i seni ancora fasciati, ma visibili. Vivi. Evelina preparava le fette biscottate. Io ti versavo il latte. Ridevamo piano. Di niente. Di tutto. “Io non riuscirò mai più a dormire senza voi due,” dicesti. Evelina ti baciò la spalla. “Non te lo permetteremo.” Poi fu il momento di vestirsi. Io andai al lavoro. Con addosso ancora l’odore della notte. La pelle viva. Verso metà mattina, mi chiamarono in reception. C’era lei. La collega. Giacca elegante. Occhi svegli. Un sorriso appena accennato. “Posso parlarti un momento?” chiese. Io annuii. La guidai verso la saletta interna. Chiusi la porta. Lei mi guardò. Poi disse: “Lo so. L’ho capito da un po’. E non sono venuta per giudicare. Voglio solo… capire se c’è spazio anche per me, in questo modo nuovo di amare.” La saletta era silenziosa. Lei seduta di fronte a me. Le mani incrociate. Le gambe dritte. Il viso calmo. Ma dentro… qualcosa cercava. Io non le sorrisi subito. La guardai. “Spazio per te?” ripetei. “Dipende. Per cosa esattamente?” Lei abbassò lo sguardo. Poi rispose: “Per capire. Per imparare. Per sentire… senza maschere.” Annuii. Poi incrociai le braccia. “E vuoi noi come scuola? Vuoi lei come esempio? O vuoi solo sfiorare qualcosa che ti eccita ma che non sei pronta a vivere?” Lei deglutì. Poi alzò lo sguardo. “Voglio sapere se l’amore può davvero funzionare fuori dalle regole che ci hanno insegnato.” Mi ammorbidii. Appoggiai le mani sul tavolo. “Allora ascolta. Noi non siamo un gioco. Non siamo un esperimento. Elena ha cambiato la pelle, ma non per voi. Per se stessa.” Feci una pausa. “E se un giorno dovessimo aprirci a qualcun altro, non sarà per riempire uno spazio. Ma perché quella persona saprà stare dentro i nostri silenzi con rispetto.” Lei annuì. Seria. Sincera. “Posso restare vicina, senza forzare niente?” “Puoi restare se impari a guardare senza desiderare di portare via.” Lei sorrise. “Allora resto. E imparo.”
Stavi pelando le patate. Io versavo il vino. Evelina era ancora in bagno, la musica arrivava leggera dalla stanza. Ti voltasti. Mi guardasti. Lo sguardo curioso. “Allora? Com’era questa visita a sorpresa?” Sorrisi piano. Appoggiai il bicchiere. “Era lei. Diretta. Ma… rispettosa.” Tu smettesti di tagliare. “Cosa voleva?” “Capire,” dissi. “Non giudicare. Solo capire.” Ti avvicinasti. Poggiasti la mano sul mio fianco. “E tu?” “Sono stata chiara. Che qui dentro non si entra per gioco. Che se vuole stare vicina, deve imparare a guardare… senza voler cambiare niente.” Tu annuisti. Poi sussurrasti: “C’è una parte di me che vorrebbe vederla da vicino. Ma solo se… lei è disposta a riconoscerci davvero.” Ti presi il viso tra le mani. “Non sei gelosa?” Scuotesti piano la testa. “No. Ma non sono nemmeno disposta a farmi spiegare chi sono da chi è ancora incerta su se stessa.” In quel momento, Evelina entrò. Ascoltò le ultime parole. Si avvicinò. Ci baciò entrambe sulla guancia. “Avete già deciso?” Io e te ci guardammo. Poi, insieme: “Lasciamo la porta socchiusa. Ma solo un passo alla volta.”
Il mattino era fresco. Ti accompagnai al lavoro con un bacio sulla guancia. Eri bellissima, Elena. Tacco 10, tailleur chiaro, occhi decisi, ma gentili. Entrasti nell’atelier. Io ti guardai da fuori. Come se stessi lasciando una parte di me lì con te. La giornata scivolò via. E quando tornasti, eri… diversa. Stanca. Sorridente. Ma distratta. “Com’è andata?” ti chiesi. “Bene,” dicesti. “Molti complimenti. Un po’ di sguardi strani. Ma mi sentivo… viva.” Annuii. Ma qualcosa in me… pizzicava. “Ti sei sentita sola, oggi?” chiesi, forse troppo piano. Tu ti voltasti. “No. Mi sono sentita… vista.” Sorrisi. Ma dentro, qualcosa tremò. Quella notte, a letto, tu ti addormentasti abbracciata a Evelina. Io mi voltai verso la finestra. Non per gelosia. Ma per quella strana paura di non sapere più dove stavo in mezzo a voi due.
Era quasi mezzogiorno. L’atelier era calmo. La luce entrava dalle vetrate. Tu stavi sistemando un abito lungo su un manichino. Le dita precise, il corpo dritto. E il seno ancora teso sotto la camicetta. Lui entrò. Elegante. Tono pacato. Occhi attenti, ma mai invadenti. Parlò con la responsabile. Poi ti venne incontro. Ti chiese aiuto per un regalo. Tu annuisti. Lo guidasti tra le stoffe. Gli mostrasti i tagli. Le texture. I colori. E lui ti ascoltava. Non come si ascolta una commessa. Ma come si ascolta una donna che sa cosa dice. Poi, nel silenzio, disse piano: “Lei ha una grazia rara. E… uno sguardo che non si dimentica.” Tu arrossisti appena. Sorridesti. Ma il cuore ti saltò un battito. “Grazie,” dicesti. Null’altro. Ma quando uscì, lasciandoti una cartolina del suo studio di fotografia “se un giorno volesse farsi ritrarre”… qualcosa ti restò tra le dita. E tra le gambe. Tornasti a casa in silenzio. Parlasti poco. Non perché nascondessi. Ma perché… ancora non avevi capito tutto ciò che avevi provato.
Il piatto era ancora pieno. Il cucchiaio a lato. Tu lo fissavi senza toccarlo. Il bicchiere di vino appena sfiorato. Io ti osservavo. Ero a disagio. Ma non dicevo nulla. Evelina invece si alzò. Venne dietro di te. Ti accarezzò le spalle. Poi, piano: “Cos’hai portato a casa addosso, Elena?” Tu non rispondesti. Chiudesti solo gli occhi un istante. Poi parlasti. “Uno sguardo. Che non era invasivo. Non era volgare. Ma… era preciso.” Evelina si sedette accanto a te. Non arrabbiata. Non gelosa. “Ti ha fatta sentire desiderata?” Tu annuisti. Con un filo di voce. “Sì. Ma non come carne. Come… presenza. Come se mi vedesse intera. E con desiderio. Senza dover spiegare nulla.” Io mi avvicinai. Ti presi la mano. “Ti ha toccata?” “No. Solo con gli occhi.” Evelina parlò ancora. Decisa. Dolce. “Allora non è uno scandalo. È solo vita che ti attraversa.” Fece una pausa. “Ma voglio una cosa da te: non lasciarmi mai immaginare. Se qualcuno ti entra dentro, anche solo con lo sguardo… dimmi che lo senti.” Tu la fissasti. Poi le baciasti la mano. “Ve lo dirò sempre. Perché non c’è nulla che valga la vostra verità
Il campanello suonò alle 11. Tu eri al bancone, con un libro di tessuti aperto. Alzasti lo sguardo. Lo vedesti. Lui. Stesso passo. Stessa eleganza. Stesso sguardo diretto. Ti salutò con un cenno. Poi si avvicinò. “Non voglio disturbarti,” disse. “Ma ieri, dopo essere uscito… non riuscivo a togliermi dalla mente una cosa.” Tu lo fissasti, seria. “Cosa?” Lui si fermò. Poi: “Il modo in cui eri in piedi. Forte, ma non rigida. Presente, ma non sfacciata. Ho ritratto centinaia di corpi… ma in lei ho visto una storia che non conosco.” Prese dal taschino un biglietto da visita. “Vorrei farle un ritratto. Nudo o vestita. Come preferisce. In studio. Senza pressioni. Solo io, la luce, e… lei.” Tu non dicesti nulla. Guardasti il biglietto. Poi lui. “Sapete cosa sono?” “Sì,” rispose lui. “E non è per questo che voglio ritrarla. Ma per come lo porta con sé.” Ti lasciò il biglietto. Poi uscì. Senza voltarsi. E tu… rimanesti lì. Con la pelle accesa. E la testa piena
Il portone si chiuse alle tue spalle. Entrasti piano. Le scarpe in mano. Il volto stanco. Ma acceso. Io ero sul divano. Evelina in cucina. Ci guardammo. Poi parlasti, senza giri: “È tornato. Mi ha chiesto di posare per lui. Nuda o come voglio. Solo… io e la luce.” Silenzio. Poi io: “E tu cosa hai provato?” “Potere,” dicesti. “Paura. E voglia.” Evelina uscì dalla cucina. Si avvicinò. Ti guardò seria. “Vuoi farlo?” Tu deglutisti. “Non lo so. Per questo ve lo sto dicendo.” Lei si avvicinò ancora. Ti prese il mento tra le dita. “Allora fallo. Ma con una condizione.” “Quale?” Fece un passo indietro. Lo sguardo duro. Calmo. “Voglio essere lì. Seduta. Silenziosa. A guardarti. Non per controllarti. Ma perché voglio vedere se, anche davanti a lui, resti nostra.” Tu restasti immobile. Io sorrisi piano. Perché sapevo che quella era la prova più intima d’amore che potesse offrirti.
Lo studio era chiaro. Pochi oggetti. Pareti nude. Un fondale bianco. Ti spogliasti lentamente. Con Evelina che ti osservava da una poltrona, gambe accavallate, mani ferme sul ginocchio. Lui sistemava le luci. Silenzioso. Presente. Poi ti fece segno. Tu ti avvicinasti. Nuda. Il seno nuovo. Il sesso rilassato. La pelle viva. Ti fece sedere. Scattò. Poi ti fece alzare. Ti fece voltare. Scattò ancora. La sua voce era bassa. Mai invadente. Ma a un certo punto… ti guardò. E non scattò. Disse solo: “Posso chiederti una cosa?” Tu annuisti. “Ti manca sentire uno sguardo maschile che non ti chiede nulla, ma ti desidera lo stesso?” Tu non rispondesti subito. Poi dicesti: “Forse. Solo per sapere se so ancora sedurre senza nascondermi.” Lui fece un passo. Non ti toccò. Ti guardò negli occhi. E fu lì che successe: una corrente. Un battito. Un istante di attrazione silenziosa. Viva. Tu non ti muovesti. Non lo baciasti. Ma dentro… qualcosa vibrò forte. Evelina si alzò. Si avvicinò piano. Ti passò accanto. Non disse nulla. Ti coprì le spalle con un foulard. Poi ti guardò e sussurrò solo: “Lo hai sentito anche tu. Vero?” Tu annuisti. Con gli occhi lucidi. “Ma non l’ho lasciato entrare.” E lei rispose: “Lo so. E proprio per questo… ti amo ancora di più.”
La porta si aprì. Entraste piano. Io ero sul divano. Il libro in mano, ma non stavo leggendo davvero. Alzai lo sguardo. Tu eri bella. Nuda sotto il cappotto. Gli occhi bassi. Ma pieni. Mi alzai. Ti raggiunsi. E prima che potessi chiedere, dicesti piano: “Non è successo nulla. Ma ho sentito qualcosa.” Evelina si mise accanto a te. Ti prese la mano. Non parlò. Poi ti voltasti verso di me. Mi guardasti dritta. E sussurrasti: “Entrerà solo se voi due deciderete per me. Io vi appartengo. A lei… Signora. E a te, Elisa.” Il silenzio fu lungo. Pesante. Ma dolce. Io mi avvicinai. Ti presi il volto tra le mani. Ti baciai piano. Poi guardai Evelina. “Non dobbiamo decidere ora. Ma sapere che ci chiedi il permesso… ci lega a te più di ogni promessa.” Evelina si chinò. Ti baciò sulla nuca. “Sapere che ci metti prima del tuo desiderio… è la forma più bella di potere che tu ci stia regalando.”
L’acqua cominciò a scorrere. La porta del bagno si chiuse piano. Io rimasi in piedi. Le mani sulle braccia. Lo sguardo nel vuoto. Evelina si avvicinò. Si sedette sul divano. Mi fece un cenno. Mi sedetti accanto a lei. Ci guardammo. Nessuna finzione. Poi parlai: “Se non fossi stata tu con lei oggi, non so se avrei retto.” Evelina inclinò il capo. “Lo so. Per questo ho voluto esserci. Per tutte e due.” Fece una pausa. “Ma ora dobbiamo chiederci una cosa vera, Elisa. Tu… saresti pronta a condividere anche quello? L’idea che Elena possa essere desiderata da un uomo e sentirsi viva senza perdere noi?” Inspirai. Poi risposi, a voce bassissima: “Se quel desiderio la nutre, e se noi restiamo il suo centro… sì. Ma solo se saremo sempre noi a guidare il confine.” Evelina annuì. Poi si avvicinò. Mi prese la mano. “Io non voglio perderla nella libertà. Ma nemmeno trattenerla nella sicurezza.” Silenzio. Poi dissi: “Ti fidi di me?” Lei rispose subito. “Sì. E se un giorno Elena vorrà far entrare anche il suo corpo, io vorrò esserci. Ma solo se ci sarai anche tu.” La doccia si spense. Il silenzio tornò. E capimmo che la risposta, in fondo, non doveva arrivare subito.
Il giorno dopo. Tu esci dall’atelier con le spalle rilassate, i tacchi lenti sul marciapiede. Lo vedesti subito. Appoggiato a un palo. Giacca scura, occhi chiari. Tra le mani… una cartellina sottile. Non parlò. Ti fece solo un cenno. Tu ti avvicinasti. Non con timore. Ma con attenzione. “All’interno,” disse, “ci sono le stampe. Ne ho scelte sei. Solo quelle dove tu… non stavi recitando.” Tu lo fissasti. Poi prendesti la cartellina. L’apristi. Sfogliasti. La prima: tu seduta, il corpo rilassato, ma gli occhi tesi verso la luce. La seconda: il seno leggermente curvo, il cazzo morbido tra le cosce, come parte della stessa verità. La terza: il profilo, come una statua che respira. Arrivata alla quarta, fermasti il respiro. Non per il nudo. Ma per lo sguardo che lui aveva catturato. Il tuo. Quello di un istante in cui avevi smesso di proteggerti. Chiudesti la cartellina. Lenta. Precisa. Poi lo guardasti. “Perché me le hai portate?” Lui rispose solo: “Perché tu sappia quanto sei già indimenticabile.” Poi fece un passo indietro. Non ti toccò. Non chiese nulla. Ti lasciò solo la possibilità di tornare a guardarti con i suoi occhi. E tu restasti lì, con la cartellina tra le mani… e il cuore che batteva un po’ più forte. Fece tre passi. Verso la strada. Lentamente. Poi si fermò. Ti voltasti appena. Il cuore fermo in gola. Lui si girò. I suoi occhi… più intensi di prima. Fece due passi verso di te. Non rapidi. Ma sicuri. Poi si fermò davanti a te. A distanza giusta. Senza invadere. Ma senza maschere. “So che sei legata. Si vede. Ma se mai un giorno avrai bisogno di vedere come sei quando nessuno ti guarda con affetto… ma solo con desiderio puro… io sarò qui.” Ti guardò un secondo ancora. Poi aggiunse: “Non per rubarti. Non per portarti via. Solo per restituirti una parte di te che forse non hai ancora esplorato.” E poi… se ne andò davvero. Senza voltarsi più. Tu restasti lì. Con la cartellina tra le mani. E qualcosa tra le gambe che pulsava lento. Vivo. Silenzioso. Ma non era il tuo sesso. Solo qualcosa di più profondo.
Il marciapiede era ancora tiepido. Lui si era appena allontanato. E tu stavi per girare l’angolo, quando la vedi. Evelina. Dall’altra parte della strada. Fermata a un’edicola, ma senza un giornale in mano. Gli occhi fissi su di te. Non ti avvicini. Non fai scenate. Ti volti. Te ne vai. Ma qualcosa dentro… si è incrinato. Ore dopo – a casa Eri in camera. La cartellina sul letto. Io stavo sistemando la tavola. Evelina rientrò poco dopo. Come se nulla fosse. Tu uscisti dalla stanza in silenzio. Ci guardasti entrambe. Poi, con voce ferma: “Mi hai seguita.” Lei si bloccò. Tu continuasti: “Hai avuto paura. Non del fotografo. Di me.” Evelina si fece seria. “Temevo solo che…” “Che cosa? Che dimenticassi chi sono? Che tradissi senza neanche saperlo?” Le parole erano calme. Ma pesanti. Ti avvicinasti. Posasti la cartellina sul tavolo. Guardandola negli occhi. “Io vi ho dato tutto. Ho scelto di appartenervi. Ma non posso farlo se ogni mio passo è seguito da un’ombra.” Io rimasi in silenzio. Perché sapevo che in quelle parole c’era la verità più importante della notte. Evelina abbassò lo sguardo. Poi sussurrò: “Hai ragione.” Tu aggiungesti solo: “O mi lasci essere libera… o finiremo per rovinarci senza mai averci davvero.”
La porta della camera si chiuse piano. Le luci basse. Le coperte ancora intatte. Ti spogliasti lentamente. La camicetta, il reggiseno, gli autoreggenti. Non guardasti lo specchio. Non cercasti il tuo riflesso. Ti infilasti a letto. In silenzio. Il viso contro il cuscino. Poi… le prime lacrime. Lente. Silenziose. Come acqua da dentro. Non era solo dolore. Era delusione. Era stanchezza. Era quel vuoto che si crea quando chi ami non crede fino in fondo in te. Non volevi che ti sentissimo. Ma io, dall’altra stanza, ti sentii lo stesso. Evelina restò immobile. Forse più ferita da sé stessa che da te. E io… venni verso di te. Senza parlare. Senza toccarti ancora. Mi sedetti accanto al letto. E dissi solo: “Se vuoi… sto qui. Anche se non mi dici niente.” Scena
Ti voltasti appena, quando mi avvicinai. Le lacrime ancora bagnavano il cuscino. Il petto nudo, scosso da respiri corti. Mi stesi accanto a te. Non parlai. Ti accarezzai solo piano i capelli. Poi il fianco. Poi la mano. Tu la stringesti. Forte. Poi, a voce bassissima: “Tu non hai mai perso la mia fiducia. Mai.” Il cuore mi tremò. Ti baciai la fronte. “Lo so,” dissi. E dopo un silenzio lungo, aggiungesti: “Evelina… ha osato troppo. Ha oltrepassato qualcosa. E io… non so se posso riaprirle quella porta domani.” Non ti risposi subito. Mi limitai a stringerti. Il mio corpo caldo sul tuo. Poi, solo dopo un respiro: “Allora non forzeremo nulla. Lei lo capirà. E se vorrà ricostruire… dovrà iniziare dal silenzio che hai lasciato qui stanotte.” Rimanemmo così. In silenzio. In un abbraccio che non voleva sistemare. Solo esserci. E fu l’unica cosa giusta, quella notte.
La luce entrava appena dalle tende. La cucina era silenziosa. Evelina era lì. Seduta. Con una tazza tra le mani. Tu scendesti in vestaglia. I capelli raccolti. Il viso serio. Ma calmo. Lei si alzò, come per dire qualcosa. Tu alzasti una mano. “Lasciami parlare.” Si fermò. Annuì. Si sedette di nuovo. Tu restasti in piedi. Fiera. Ferita. Presente. “Non ho intenzione di tradire nessuna delle due. Mai. Non è il mio modo. Non è ciò che sono.” Fece per rispondere. Tu la fermasti di nuovo. “Vi avevo detto che vi avrei rivelato tutto. Che ogni passo sarebbe stato con il vostro consenso. E lo avrei fatto. Ma non mi è stato dato il tempo. Mi hai seguita.” Le parole pesavano. Ma non colpivano. Tracciavano confini. “Io vi appartengo. A te. A Elisa. Ma non posso farlo se mi guardate con paura. O con controllo.” Poi ti sedesti. Fronte contro fronte. “Se vuoi davvero tenermi, dovrai imparare a lasciarmi spazio. Non perché io voglia andare via… ma perché voglio restare liberamente.” Evelina abbassò lo sguardo. Poi disse piano: “Hai ragione. E adesso… ascolterò in silenzio. Fino a quando non sentirai che posso meritarlo di nuovo.”

P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.

A presto.
Tanya.

tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )

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scritto il
2025-08-28
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