Sofia e Martina P.1
di
SofiaMariani
genere
saffico
Mi chiamo Sofia, ho diciannove anni e la mia vita, almeno dall'esterno, è una linea retta. Studio, esco con le amiche, cerco di tenere a bada i casini che ogni tanto l'università mi lancia addosso. Ma il mio vero mondo, quello che pulsa sotto la pelle, vive di dettagli che nessuno vede. Come la curva esatta della mia schiena quando mi inarco, o il modo in cui i miei capelli, castano cioccolato con riflessi presi dal sole estivo, mi solleticano le scapole. Sono alta, me lo dicono tutti, e le mie gambe sembrano fatte apposta per le gonne corte che lasciano poco all'immaginazione. Il mio corpo è un segreto che mi piace custodire: snello, ma con i muscoli delle cosce definiti da ore di squat, e un culo che la mia migliore amica definisce "scolpito da un dio greco con un debole per le chitarre". Un culo a mandolino, alto e sodo, che sento presente e potente a ogni passo.
Ma tutto questo svanisce, si riduce a un rumore di fondo, tre volte a settimana. Lunedì, mercoledì e venerdì. I giorni della palestra. I giorni di Martina.
Probabilmente lei non sa nemmeno che esisto. Siamo come due pianeti nella stessa galassia, ma su orbite diverse. Lei è sempre lì, nella sala pesi, concentrata, con le cuffiette bianche nelle orecchie e un'espressione che tiene il mondo a distanza. Conosco il suo nome solo perché una volta, vicino agli armadietti, l'ho sentita parlare al telefono con un ragazzo. Rideva, e il suono della sua risata mi ha colpito allo stomaco come un pugno. Da quel giorno, ho archiviato la pratica: a Martina piacciono gli uomini. Fine della storia. Una storia mai iniziata.
Eppure non riesco a smettere di guardarla. È un'ossessione silenziosa, la mia. Martina è un'opera d'arte in movimento. Alta quasi quanto me, con una vita stretta da cui partono due gambe toniche e chilometriche. E poi c'è il suo culo. Un capolavoro di rotondità e perfezione che sfida la gravità e la mia sanità mentale. Di solito indossa leggings grigi o neri, che aderiscono a ogni sua curva come una seconda pelle.
Oggi ha scelto quelli neri. E oggi c'è qualcosa di diverso.
Sono sulla panca per gli addominali, ma i miei occhi sono calamitati sulla sua figura, a una decina di metri da me, impegnata nello stacco da terra. La osservo mentre si piega, il bacino che si spinge all'indietro, la schiena dritta. E in quel momento, il tessuto nero dei leggings, teso al limite, cambia. Diventa un velo sottile, quasi trasparente sotto le luci al neon della palestra. Il mio respiro si blocca in gola. Non c'è il segno di un perizoma, non l'ombra di una cucitura. Niente. La pelle nuda, la curva perfetta delle sue natiche, la piccola ombra della sua fessura. È un'epifania erotica così potente che sento una scossa di calore partirmi dal basso ventre e irradiarsi in tutto il corpo. La mia figa pulsa, si bagna all-istante, e devo stringere le cosce per contenere quella sensazione travolgente.
Rimango pietrificata, lo sguardo fisso su di lei, su quel dettaglio proibito che mi sta mandando in estasi. Lei finisce la sua serie, si rialza, e si sposta nell'area stretching. Si appoggia a una colonna, allungando i femorali. Si china in avanti, lentamente, offrendomi di nuovo quella visione celestiale. Il suo culo è perfettamente all'altezza dei miei occhi. È troppo, non riesco a distogliere lo sguardo, è come se fossi in trance.
E poi, accade l'impossibile.
Mentre è ancora chinata, la sua testa si gira di scatto, come se avesse sentito il peso del mio sguardo su di lei. I suoi occhi scuri incrociano i miei. Il panico mi gela il sangue. Mi ha beccata. Finita. Ora penserà che sono una maniaca. Vorrei sprofondare, scomparire, teletrasportarmi su Marte. Ma invece di un'espressione infastidita o disgustata, le sue labbra si aprono in un sorriso lento, quasi impercettibile. Un sorriso complice.
Poi, fulmineo, il suo occhio destro si chiude in un occhiolino sfacciato.
Il mio viso prende fuoco. Sento le guance diventare due fornaci, un'ondata di calore mi colora fino alla radice dei capelli. Di scatto, mi giro dall'altra parte, il cuore che martella nel petto come un tamburo impazzito, fissando un punto vuoto sulla parete di fronte a me come se fosse la cosa più interessante del mondo.
Il mio cervello era ancora in cortocircuito, un loop infinito di un sorriso e un occhiolino, mentre cercavo di fare la cosa più normale del mondo: una doccia. L'acqua calda sulla pelle non riusciva a spegnere il fuoco che avevo sulle guance. Con la mente annebbiata, uscii dal box doccia avvolta in un asciugamano, l'aria del spogliatoio umida e carica di profumo di bagnoschiuma. Stavo infilando maldestramente le cose nella mia borsa, cercando solo di scappare prima di fare altre figure imbarazzanti, quando una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.
«Ehi.»
Era lei. Martina. Mi voltai di scatto, stringendo l'asciugamano al petto come uno scudo. Aveva i capelli scuri e bagnati che le ricadevano sulle spalle, un profumo fresco di pulito e indossava una semplice tuta grigia che, in qualche modo, riusciva a renderla ancora più bella.
«Ciao» riuscii a mormorare, la mia voce un sussurro.
«Scusa per prima... non volevo metterti in imbarazzo» disse, e il suo sorriso ora era più dolce, meno sfacciato. «È che ti vedo sempre qui, così concentrata. Mi chiamo Martina, comunque.»
Il mio cuore perse un battito. Sapeva della mia esistenza. Mi vedeva. «Sofia» risposi, sorpresa di essere riuscita a formulare una parola intera. Non riuscivo a dire altro, la timidezza mi aveva incollato la lingua al palato, sentivo solo il bisogno di memorizzare ogni dettaglio del suo viso da vicino.
Lei annuì, come se il mio nome le piacesse. «Beh, Sofia, io ora scappo. Spero di vederti mercoledì, mi sembra che facciamo gli stessi giorni. Magari ci possiamo anche allenare insieme.»
Quella frase fu un'esplosione nel mio cervello. Allenarci insieme? Io e lei? Riuscii solo ad annuire con la testa, un movimento quasi spastico. Lei mi sorrise un'ultima volta e si allontanò, lasciandomi lì, in piedi in mezzo allo spogliatoio, con il cuore in gola e le gambe molli.
Il tragitto verso casa fu un sogno a occhi aperti. Non ricordo le strade, i semafori, nulla. Ricordo solo le sue parole che mi rimbombavano in testa. Quando entrai nel mio appartamento, il silenzio mi accolse come un complice. La borsa della palestra mi scivolò dalla spalla e atterrò con un tonfo sordo a terra, davanti al letto. Non mi tolsi nemmeno le scarpe. Mi lanciai sul materasso, il viso sprofondato nel cuscino, e lasciai che l'ondata di emozione mi travolgesse.
Poi, lentamente, il desiderio prese il posto dello shock. La memoria del suo occhiolino, del suo sorriso, e soprattutto di quel culo perfetto fasciato dal nero quasi trasparente, divenne un bisogno fisico, un prurito sotto la pelle. La mia mano scivolò quasi da sola tra le mie gambe, sopra i jeans. Sentivo già il calore, l'umidità che premeva contro il tessuto. Mi sfilai i vestiti con foga, rimanendo nuda sul letto, esposta all'aria fresca della stanza.
La mia mano tornò sulla mia figa. Iniziai a masturbare il clitoride, con movimenti lenti e circolari, chiudendo gli occhi. L'immagine di Martina era lì, nitidissima. Il suo sorriso, il suo culo che si tendeva durante lo stacco. Immaginai le mie dita che affondavano in quella perfezione, le mie labbra sulla sua pelle. Poi feci scivolare due dita dentro di me, già fradicia di desiderio. Erano accolte da un calore liquido e stretto. Inarcavo la schiena a ogni spinta, le lenzuola che si stropicciavano sotto di me, gemendo il suo nome nel silenzio. Pensavo a lei, a quanto sarebbe stato incredibile avere la sua figa tutta per me, leccarla, sentirla bagnarsi per me.
Ma non bastava. Il piacere era intenso, ma la mia mente voleva di più. Voleva l'elettricità, la scossa che mi aveva dato lei con un solo sguardo. Allungai una mano verso il comodino e presi il vibratore che avevo comprato qualche giorno fa e non avevo ancora avuto il coraggio di usare. Era liscio, di silicone viola, e quando lo accesi, un ronzio basso e profondo riempì la stanza.
Lo appoggiai sul clitoride.
Fu come un fulmine. Una sensazione bellissima, totalizzante, che non avevo mai provato. Non era come le mie dita. Era una vibrazione concentrata, un milione di piccole onde d'urto che partivano da quel singolo punto e si irradiavano in tutto il mio bacino, facendo tremare ogni fibra di me. Il piacere era così intenso da togliere il fiato. Le mie gambe iniziarono a tremare senza controllo, scosse da spasmi che non potevo fermare. Per reazione, le strinsi forte, cercando di contenere quell'energia che minacciava di farmi esplodere. Una mano si spostò sul mio seno, massaggiando un capezzolo già duro e dolente, mentre l'altra stringeva con forza il vibratore contro la mia figa bagnata, spingendolo contro di me come se volessi che diventasse parte del mio corpo.
Il culmine arrivò come un'onda anomala. Sentii la pressione crescere nel basso ventre, un nodo di puro piacere che si stringeva sempre di più fino a quando non potei più trattenerlo. Il mio corpo si inarcò un'ultima volta, la schiena staccata dal letto, e poi l'orgasmo mi travolse. Squirtai, un fiotto caldo e liberatorio che bagnò le lenzuola, mentre un grido soffocato mi moriva sulle labbra. Il mio corpo intero fu scosso da un tremito violento che durò diversi secondi, lasciandomi completamente svuotata, ansimante, con le gambe ancora deboli e vibranti, persa nel ricordo di un semplice occhiolino.
Il racconto segue.
Spero che vi piaccia , commentate cosi capisco se vi interessa, e nel caso continuo.
Ma tutto questo svanisce, si riduce a un rumore di fondo, tre volte a settimana. Lunedì, mercoledì e venerdì. I giorni della palestra. I giorni di Martina.
Probabilmente lei non sa nemmeno che esisto. Siamo come due pianeti nella stessa galassia, ma su orbite diverse. Lei è sempre lì, nella sala pesi, concentrata, con le cuffiette bianche nelle orecchie e un'espressione che tiene il mondo a distanza. Conosco il suo nome solo perché una volta, vicino agli armadietti, l'ho sentita parlare al telefono con un ragazzo. Rideva, e il suono della sua risata mi ha colpito allo stomaco come un pugno. Da quel giorno, ho archiviato la pratica: a Martina piacciono gli uomini. Fine della storia. Una storia mai iniziata.
Eppure non riesco a smettere di guardarla. È un'ossessione silenziosa, la mia. Martina è un'opera d'arte in movimento. Alta quasi quanto me, con una vita stretta da cui partono due gambe toniche e chilometriche. E poi c'è il suo culo. Un capolavoro di rotondità e perfezione che sfida la gravità e la mia sanità mentale. Di solito indossa leggings grigi o neri, che aderiscono a ogni sua curva come una seconda pelle.
Oggi ha scelto quelli neri. E oggi c'è qualcosa di diverso.
Sono sulla panca per gli addominali, ma i miei occhi sono calamitati sulla sua figura, a una decina di metri da me, impegnata nello stacco da terra. La osservo mentre si piega, il bacino che si spinge all'indietro, la schiena dritta. E in quel momento, il tessuto nero dei leggings, teso al limite, cambia. Diventa un velo sottile, quasi trasparente sotto le luci al neon della palestra. Il mio respiro si blocca in gola. Non c'è il segno di un perizoma, non l'ombra di una cucitura. Niente. La pelle nuda, la curva perfetta delle sue natiche, la piccola ombra della sua fessura. È un'epifania erotica così potente che sento una scossa di calore partirmi dal basso ventre e irradiarsi in tutto il corpo. La mia figa pulsa, si bagna all-istante, e devo stringere le cosce per contenere quella sensazione travolgente.
Rimango pietrificata, lo sguardo fisso su di lei, su quel dettaglio proibito che mi sta mandando in estasi. Lei finisce la sua serie, si rialza, e si sposta nell'area stretching. Si appoggia a una colonna, allungando i femorali. Si china in avanti, lentamente, offrendomi di nuovo quella visione celestiale. Il suo culo è perfettamente all'altezza dei miei occhi. È troppo, non riesco a distogliere lo sguardo, è come se fossi in trance.
E poi, accade l'impossibile.
Mentre è ancora chinata, la sua testa si gira di scatto, come se avesse sentito il peso del mio sguardo su di lei. I suoi occhi scuri incrociano i miei. Il panico mi gela il sangue. Mi ha beccata. Finita. Ora penserà che sono una maniaca. Vorrei sprofondare, scomparire, teletrasportarmi su Marte. Ma invece di un'espressione infastidita o disgustata, le sue labbra si aprono in un sorriso lento, quasi impercettibile. Un sorriso complice.
Poi, fulmineo, il suo occhio destro si chiude in un occhiolino sfacciato.
Il mio viso prende fuoco. Sento le guance diventare due fornaci, un'ondata di calore mi colora fino alla radice dei capelli. Di scatto, mi giro dall'altra parte, il cuore che martella nel petto come un tamburo impazzito, fissando un punto vuoto sulla parete di fronte a me come se fosse la cosa più interessante del mondo.
Il mio cervello era ancora in cortocircuito, un loop infinito di un sorriso e un occhiolino, mentre cercavo di fare la cosa più normale del mondo: una doccia. L'acqua calda sulla pelle non riusciva a spegnere il fuoco che avevo sulle guance. Con la mente annebbiata, uscii dal box doccia avvolta in un asciugamano, l'aria del spogliatoio umida e carica di profumo di bagnoschiuma. Stavo infilando maldestramente le cose nella mia borsa, cercando solo di scappare prima di fare altre figure imbarazzanti, quando una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.
«Ehi.»
Era lei. Martina. Mi voltai di scatto, stringendo l'asciugamano al petto come uno scudo. Aveva i capelli scuri e bagnati che le ricadevano sulle spalle, un profumo fresco di pulito e indossava una semplice tuta grigia che, in qualche modo, riusciva a renderla ancora più bella.
«Ciao» riuscii a mormorare, la mia voce un sussurro.
«Scusa per prima... non volevo metterti in imbarazzo» disse, e il suo sorriso ora era più dolce, meno sfacciato. «È che ti vedo sempre qui, così concentrata. Mi chiamo Martina, comunque.»
Il mio cuore perse un battito. Sapeva della mia esistenza. Mi vedeva. «Sofia» risposi, sorpresa di essere riuscita a formulare una parola intera. Non riuscivo a dire altro, la timidezza mi aveva incollato la lingua al palato, sentivo solo il bisogno di memorizzare ogni dettaglio del suo viso da vicino.
Lei annuì, come se il mio nome le piacesse. «Beh, Sofia, io ora scappo. Spero di vederti mercoledì, mi sembra che facciamo gli stessi giorni. Magari ci possiamo anche allenare insieme.»
Quella frase fu un'esplosione nel mio cervello. Allenarci insieme? Io e lei? Riuscii solo ad annuire con la testa, un movimento quasi spastico. Lei mi sorrise un'ultima volta e si allontanò, lasciandomi lì, in piedi in mezzo allo spogliatoio, con il cuore in gola e le gambe molli.
Il tragitto verso casa fu un sogno a occhi aperti. Non ricordo le strade, i semafori, nulla. Ricordo solo le sue parole che mi rimbombavano in testa. Quando entrai nel mio appartamento, il silenzio mi accolse come un complice. La borsa della palestra mi scivolò dalla spalla e atterrò con un tonfo sordo a terra, davanti al letto. Non mi tolsi nemmeno le scarpe. Mi lanciai sul materasso, il viso sprofondato nel cuscino, e lasciai che l'ondata di emozione mi travolgesse.
Poi, lentamente, il desiderio prese il posto dello shock. La memoria del suo occhiolino, del suo sorriso, e soprattutto di quel culo perfetto fasciato dal nero quasi trasparente, divenne un bisogno fisico, un prurito sotto la pelle. La mia mano scivolò quasi da sola tra le mie gambe, sopra i jeans. Sentivo già il calore, l'umidità che premeva contro il tessuto. Mi sfilai i vestiti con foga, rimanendo nuda sul letto, esposta all'aria fresca della stanza.
La mia mano tornò sulla mia figa. Iniziai a masturbare il clitoride, con movimenti lenti e circolari, chiudendo gli occhi. L'immagine di Martina era lì, nitidissima. Il suo sorriso, il suo culo che si tendeva durante lo stacco. Immaginai le mie dita che affondavano in quella perfezione, le mie labbra sulla sua pelle. Poi feci scivolare due dita dentro di me, già fradicia di desiderio. Erano accolte da un calore liquido e stretto. Inarcavo la schiena a ogni spinta, le lenzuola che si stropicciavano sotto di me, gemendo il suo nome nel silenzio. Pensavo a lei, a quanto sarebbe stato incredibile avere la sua figa tutta per me, leccarla, sentirla bagnarsi per me.
Ma non bastava. Il piacere era intenso, ma la mia mente voleva di più. Voleva l'elettricità, la scossa che mi aveva dato lei con un solo sguardo. Allungai una mano verso il comodino e presi il vibratore che avevo comprato qualche giorno fa e non avevo ancora avuto il coraggio di usare. Era liscio, di silicone viola, e quando lo accesi, un ronzio basso e profondo riempì la stanza.
Lo appoggiai sul clitoride.
Fu come un fulmine. Una sensazione bellissima, totalizzante, che non avevo mai provato. Non era come le mie dita. Era una vibrazione concentrata, un milione di piccole onde d'urto che partivano da quel singolo punto e si irradiavano in tutto il mio bacino, facendo tremare ogni fibra di me. Il piacere era così intenso da togliere il fiato. Le mie gambe iniziarono a tremare senza controllo, scosse da spasmi che non potevo fermare. Per reazione, le strinsi forte, cercando di contenere quell'energia che minacciava di farmi esplodere. Una mano si spostò sul mio seno, massaggiando un capezzolo già duro e dolente, mentre l'altra stringeva con forza il vibratore contro la mia figa bagnata, spingendolo contro di me come se volessi che diventasse parte del mio corpo.
Il culmine arrivò come un'onda anomala. Sentii la pressione crescere nel basso ventre, un nodo di puro piacere che si stringeva sempre di più fino a quando non potei più trattenerlo. Il mio corpo si inarcò un'ultima volta, la schiena staccata dal letto, e poi l'orgasmo mi travolse. Squirtai, un fiotto caldo e liberatorio che bagnò le lenzuola, mentre un grido soffocato mi moriva sulle labbra. Il mio corpo intero fu scosso da un tremito violento che durò diversi secondi, lasciandomi completamente svuotata, ansimante, con le gambe ancora deboli e vibranti, persa nel ricordo di un semplice occhiolino.
Il racconto segue.
Spero che vi piaccia , commentate cosi capisco se vi interessa, e nel caso continuo.
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