Lo sconto
di
Ripe (with decay)
genere
trio
Esiste nell’immaginario collettivo una scena che si ripete inalterata forse da millenni: quella della donna che si concede all’uomo bruto la cui sola vista basta a inondarla di ormoni.
È un leitmotiv da film di serie B buono per fare scorrere i minuti in un momento di stasi creativa della sceneggiatura e non deludere troppo gli spettatori. Rammento un film con una caduta di stile del genere, e neppure mediocre, forse con Jeff Bridges come interprete (non ne sono sicuro) del bruto dal fisico scolpito. Apparteneva ad una banda ed in quel frangente fingevano di essere operai alle prese con la ristrutturazione di una villetta. La proprietaria, o una vicina, lo scorgeva e fattasi alla finestra lo invitava inequivocabilmente a farle la festa.
Sembra quasi che basti il frastuono di un martelletto, il cigolio di una chiave inglese, per mandare in estasi una donna. Se lavoraste in edilizia ne sentireste di cotte e di crude, da chiedersi come sia stato possibile nei decenni tirar su edifici con tutta questa manovalanza occupata a copulare a più non posso durante l’orario e sul luogo di lavoro. Posso rassicurarvi: la stragrande maggioranza di queste storie sono cazzabubbole, e chi le racconta con il tempo ha finito per confondere fantasia e realtà.
Ma a volte accadono.
Vi voglio raccontare una storia – la nostra storia, mia e del mio socio – che è capitata qualche anno fa, quando eravamo più giovani e più fessi. A ripensarci, uno giurerebbe di non ripetere in nessun caso mai un errore del genere. Ma finiteci dentro, e ogni buona intenzione andrà a farsi benedire.
Ristrutturiamo interni. Chiavi in mano, come si suol dire. E ci facciamo pagare. Con il tempo la nostra clientela si è raffinata, installiamo montacarichi solo in zone bene. Ci occupiamo di tutto: il mio socio di impianti, io di opere murarie e finiture. Ma poi ci diamo una mano a fare tutto, utilizzando artigiani alla bisogna. Guadagniamo. Paghiamo fior di tasse, ma finché il conto è pieno non disturba poi così tanto come si dice.
Eravamo tornati in un appartamento per fare un ultimo giro, emettere fattura di saldo e incassare. L’appartamento era abitato. Inutile specificare da chi. Giovane coppia: lui al lavoro, lei a casa a fare da anfitriona; lui un ragazzo alla mano, con cui ci si dava del tu, lei non meno affabile. Ed era una discreta fighetta, con un corpo tutto da gustare. C’era caldo e girava con pantaloncini inguinali, una maglietta che sembrava tolta ad una bambola. Ci cadeva l’occhio sopra, al punto che un lavoro di due tre orette si stava prolungando all’infinito.
Quella casa l’avevamo rivoltata come un calzino. Aveva soffitti alti, le stanze in parte soppalcate, e i soppalchi uniti come un unico piano ammezzato. Eravamo là sopra e la ragazza si era seduta sul divano sotto il nostro punto di osservazione dandoci la schiena, le gambe affusolate tirate su. Guardava il cellulare. I piedi nudi bastavano già ad alzare ulteriormente la temperatura. Poi si era messa a giocare a fare ginnastica. Alternativamente allontanava le ginocchia, le avvicinava. Era arrivata al punto da aprirle come una che si appresti ad essere fottuta. Buttata giù sullo schienale non ci sfuggì il particolare delle tette nude sotto quello straccetto che si era messa addosso.
Scendemmo. Dovevamo risolvere un piccolo problema in cucina causato dai montatori. “Venite, vi faccio vedere”. Il socio mi diede un colpetto col gomito. E sì, era una frase di sicuro effetto. Precedendoci sculettava magnificamente. Il problema riguardava l’attacco dell’acqua della lavastoviglie. Ci chinammo tutti e tre, e perdio, quando si mise a smorzacandela vedemmo che non aveva niente là sotto, che era nuda come l’aveva fatta sua madre. Risolto il guaio, pronti ad andare, ci fermammo a prendere il caffè e a scambiare quattro chiacchiere. Che voce! Da tirare scemi. Ci chiese se volevamo un ammazzacaffè. Ne prendemmo a bizzeffe, noi e lei. E quasi senza accorgercene la stavamo chiavando in allegria sulla penisola della cucina. Ho perso il conto di quante volte ho sborrato dentro di lei. L’abbiamo scopata in tutte le posizioni. E la troietta non si tirò mai indietro. Gemeva e urlava. Eravamo troppo ubriachi per decifrare le sue parole.
Passò un po' di tempo. I proprietari non si decidevano a dare il via per la fattura – si trattava di ventimila euro. Spazientito, il mio socio lo sentì per telefono. Era in vivavoce. “Oh certo, la fattura” rispose. Poi aggiunse: “Potete fare un passo qui in casa oggi stesso?”. Non ci mancano i soldi come ho detto, e guadagniamo bene. Ma ci gettammo a capofitto verso quella porta, a sentire cosa aveva da dirci, perché i soldi sono soldi e fanno gola a tutti.
Trovammo il ragazzone tutto sorrisi e complimenti. “Volete un caffè?”. Prendemmo il caffè. Poi si parlò ancora del più e del meno, finché lui di punto in bianco non si diresse al frigo per tirarne fuori alcune bottiglie di superalcolici. “Ammazzacaffè?”.
Non fu piacevole il tono con cui lo disse. Presi un mirto, il mio socio un limoncello. Poi tirò fuori della grappa. “Su su, non fate complimenti”. Fu come ingerire olio di ricino. “E gradite anche un bel whisky?”. Era scozzese. L’esatta sequenza, anche se solo allora, da sobri, riuscimmo a ricordare. “Venite, voglio mostrarvi una cosa”. Non andò chissà dove. Si spostò quel tanto che bastava per indicare, con la mano che reggeva il bicchiere, una minuscola telecamera. “Sapete, appena finito il trasloco abbiamo subìto un tentativo di furto. E allora siamo corsi ai ripari, facendo installare un sistema di sicurezza. Ci sono telecamere ovunque, molto discrete, alcune virtualmente invisibili. Non ve n’eravate accorti?”.
Non ce n’eravamo accorti, no. Il cliente si spostò verso il portatile da lavoro e ci mostrò le registrazioni di quella feconda giornata, quella per cui rischiavamo di incappare in una bella imputazione per stupro. A rivederci in azione, fossimo stati attori, avremmo potuto congratularci a vicenda per l’ottima interpretazione. Oh, anche la cara mogliettina aveva finto bene. E come gridava! Sembrava davvero la vittima di un rapporto non consenziente. “No, vi prego basta, vi prego” con voce rotta dal pianto che noi sbronzi avevamo preso per incitamento a proseguire all'infinito.
Posammo i bicchieri. Io, stavo per vomitare. “Che cosa vuole?”.
Il nostro caro amico batté con forza le mani, passando la lingua sulle labbra. “Bè, mi pare chiaro. Quant’era il saldo? Ah sì? Facciamo che sia zero, oppure procedo penalmente contro di voi, e poi voglio vedere quando sarà il vostro prossimo appalto”.
Evitammo anche solo di accennare all’episodio tra di noi. Fino a ieri.
Siamo andati a supervisionare un altro lavoro per presentare il preventivo. La casa deve essere ristrutturata in due tranche. Quando siamo entrati in una delle camere c’era lei. “Beatrice, fai spazio ai signori”. Sono sicuro che non si chiamava Beatrice. E non faceva la sguattera.
Abbiamo aspettato che finisse il turno. “Lo vuoi un caffè?” le abbiamo ringhiato contro. “E un ammazzacaffè? O preferisci che ammazziamo te”.
“Lavoravo in casa loro a fare le pulizie. Mi ha chiesto di incastrarvi e se riuscivo mi avrebbe pagata bene”.
“Quanto bene?”.
Mostrò le dita della mano aperta. “Mila?”. Annuì. Non potei trattenere un fischio.
“Brutta puttana” le ha urlato il mio socio, “ti servano per il funerale”.
“Fanculo” replicò. “Chi li ha mai visti quei soldi tutti insieme in un volta? Di amatori come voi invece…” e mentre se ne andava si voltò mostrandoci i medi. Uno per ciascuno. “Ho dovuto proprio fingere per far sembrare che qualcosa mi stesse entrando tra le gambe”.
L’abbiamo seguita svanire tra la folla. Ci siamo guardati in faccia. “Caffè?” ho chiesto al mio socio. Battuta! Ci siamo messi a ridere. Tutto sommato, ha apprezzato. Ma rispondendo aveva per davvero gli occhi iniettati di sangue. “Basta caffè, grazie”.
L’ho sempre detto: mai accettare quello che i clienti ti offrono, perché te lo faranno pagare caro più tardi.
È un leitmotiv da film di serie B buono per fare scorrere i minuti in un momento di stasi creativa della sceneggiatura e non deludere troppo gli spettatori. Rammento un film con una caduta di stile del genere, e neppure mediocre, forse con Jeff Bridges come interprete (non ne sono sicuro) del bruto dal fisico scolpito. Apparteneva ad una banda ed in quel frangente fingevano di essere operai alle prese con la ristrutturazione di una villetta. La proprietaria, o una vicina, lo scorgeva e fattasi alla finestra lo invitava inequivocabilmente a farle la festa.
Sembra quasi che basti il frastuono di un martelletto, il cigolio di una chiave inglese, per mandare in estasi una donna. Se lavoraste in edilizia ne sentireste di cotte e di crude, da chiedersi come sia stato possibile nei decenni tirar su edifici con tutta questa manovalanza occupata a copulare a più non posso durante l’orario e sul luogo di lavoro. Posso rassicurarvi: la stragrande maggioranza di queste storie sono cazzabubbole, e chi le racconta con il tempo ha finito per confondere fantasia e realtà.
Ma a volte accadono.
Vi voglio raccontare una storia – la nostra storia, mia e del mio socio – che è capitata qualche anno fa, quando eravamo più giovani e più fessi. A ripensarci, uno giurerebbe di non ripetere in nessun caso mai un errore del genere. Ma finiteci dentro, e ogni buona intenzione andrà a farsi benedire.
Ristrutturiamo interni. Chiavi in mano, come si suol dire. E ci facciamo pagare. Con il tempo la nostra clientela si è raffinata, installiamo montacarichi solo in zone bene. Ci occupiamo di tutto: il mio socio di impianti, io di opere murarie e finiture. Ma poi ci diamo una mano a fare tutto, utilizzando artigiani alla bisogna. Guadagniamo. Paghiamo fior di tasse, ma finché il conto è pieno non disturba poi così tanto come si dice.
Eravamo tornati in un appartamento per fare un ultimo giro, emettere fattura di saldo e incassare. L’appartamento era abitato. Inutile specificare da chi. Giovane coppia: lui al lavoro, lei a casa a fare da anfitriona; lui un ragazzo alla mano, con cui ci si dava del tu, lei non meno affabile. Ed era una discreta fighetta, con un corpo tutto da gustare. C’era caldo e girava con pantaloncini inguinali, una maglietta che sembrava tolta ad una bambola. Ci cadeva l’occhio sopra, al punto che un lavoro di due tre orette si stava prolungando all’infinito.
Quella casa l’avevamo rivoltata come un calzino. Aveva soffitti alti, le stanze in parte soppalcate, e i soppalchi uniti come un unico piano ammezzato. Eravamo là sopra e la ragazza si era seduta sul divano sotto il nostro punto di osservazione dandoci la schiena, le gambe affusolate tirate su. Guardava il cellulare. I piedi nudi bastavano già ad alzare ulteriormente la temperatura. Poi si era messa a giocare a fare ginnastica. Alternativamente allontanava le ginocchia, le avvicinava. Era arrivata al punto da aprirle come una che si appresti ad essere fottuta. Buttata giù sullo schienale non ci sfuggì il particolare delle tette nude sotto quello straccetto che si era messa addosso.
Scendemmo. Dovevamo risolvere un piccolo problema in cucina causato dai montatori. “Venite, vi faccio vedere”. Il socio mi diede un colpetto col gomito. E sì, era una frase di sicuro effetto. Precedendoci sculettava magnificamente. Il problema riguardava l’attacco dell’acqua della lavastoviglie. Ci chinammo tutti e tre, e perdio, quando si mise a smorzacandela vedemmo che non aveva niente là sotto, che era nuda come l’aveva fatta sua madre. Risolto il guaio, pronti ad andare, ci fermammo a prendere il caffè e a scambiare quattro chiacchiere. Che voce! Da tirare scemi. Ci chiese se volevamo un ammazzacaffè. Ne prendemmo a bizzeffe, noi e lei. E quasi senza accorgercene la stavamo chiavando in allegria sulla penisola della cucina. Ho perso il conto di quante volte ho sborrato dentro di lei. L’abbiamo scopata in tutte le posizioni. E la troietta non si tirò mai indietro. Gemeva e urlava. Eravamo troppo ubriachi per decifrare le sue parole.
Passò un po' di tempo. I proprietari non si decidevano a dare il via per la fattura – si trattava di ventimila euro. Spazientito, il mio socio lo sentì per telefono. Era in vivavoce. “Oh certo, la fattura” rispose. Poi aggiunse: “Potete fare un passo qui in casa oggi stesso?”. Non ci mancano i soldi come ho detto, e guadagniamo bene. Ma ci gettammo a capofitto verso quella porta, a sentire cosa aveva da dirci, perché i soldi sono soldi e fanno gola a tutti.
Trovammo il ragazzone tutto sorrisi e complimenti. “Volete un caffè?”. Prendemmo il caffè. Poi si parlò ancora del più e del meno, finché lui di punto in bianco non si diresse al frigo per tirarne fuori alcune bottiglie di superalcolici. “Ammazzacaffè?”.
Non fu piacevole il tono con cui lo disse. Presi un mirto, il mio socio un limoncello. Poi tirò fuori della grappa. “Su su, non fate complimenti”. Fu come ingerire olio di ricino. “E gradite anche un bel whisky?”. Era scozzese. L’esatta sequenza, anche se solo allora, da sobri, riuscimmo a ricordare. “Venite, voglio mostrarvi una cosa”. Non andò chissà dove. Si spostò quel tanto che bastava per indicare, con la mano che reggeva il bicchiere, una minuscola telecamera. “Sapete, appena finito il trasloco abbiamo subìto un tentativo di furto. E allora siamo corsi ai ripari, facendo installare un sistema di sicurezza. Ci sono telecamere ovunque, molto discrete, alcune virtualmente invisibili. Non ve n’eravate accorti?”.
Non ce n’eravamo accorti, no. Il cliente si spostò verso il portatile da lavoro e ci mostrò le registrazioni di quella feconda giornata, quella per cui rischiavamo di incappare in una bella imputazione per stupro. A rivederci in azione, fossimo stati attori, avremmo potuto congratularci a vicenda per l’ottima interpretazione. Oh, anche la cara mogliettina aveva finto bene. E come gridava! Sembrava davvero la vittima di un rapporto non consenziente. “No, vi prego basta, vi prego” con voce rotta dal pianto che noi sbronzi avevamo preso per incitamento a proseguire all'infinito.
Posammo i bicchieri. Io, stavo per vomitare. “Che cosa vuole?”.
Il nostro caro amico batté con forza le mani, passando la lingua sulle labbra. “Bè, mi pare chiaro. Quant’era il saldo? Ah sì? Facciamo che sia zero, oppure procedo penalmente contro di voi, e poi voglio vedere quando sarà il vostro prossimo appalto”.
Evitammo anche solo di accennare all’episodio tra di noi. Fino a ieri.
Siamo andati a supervisionare un altro lavoro per presentare il preventivo. La casa deve essere ristrutturata in due tranche. Quando siamo entrati in una delle camere c’era lei. “Beatrice, fai spazio ai signori”. Sono sicuro che non si chiamava Beatrice. E non faceva la sguattera.
Abbiamo aspettato che finisse il turno. “Lo vuoi un caffè?” le abbiamo ringhiato contro. “E un ammazzacaffè? O preferisci che ammazziamo te”.
“Lavoravo in casa loro a fare le pulizie. Mi ha chiesto di incastrarvi e se riuscivo mi avrebbe pagata bene”.
“Quanto bene?”.
Mostrò le dita della mano aperta. “Mila?”. Annuì. Non potei trattenere un fischio.
“Brutta puttana” le ha urlato il mio socio, “ti servano per il funerale”.
“Fanculo” replicò. “Chi li ha mai visti quei soldi tutti insieme in un volta? Di amatori come voi invece…” e mentre se ne andava si voltò mostrandoci i medi. Uno per ciascuno. “Ho dovuto proprio fingere per far sembrare che qualcosa mi stesse entrando tra le gambe”.
L’abbiamo seguita svanire tra la folla. Ci siamo guardati in faccia. “Caffè?” ho chiesto al mio socio. Battuta! Ci siamo messi a ridere. Tutto sommato, ha apprezzato. Ma rispondendo aveva per davvero gli occhi iniettati di sangue. “Basta caffè, grazie”.
L’ho sempre detto: mai accettare quello che i clienti ti offrono, perché te lo faranno pagare caro più tardi.
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