Il vecchio laido
di
osso
genere
dominazione
Non ho più voglia di fingere.
Ho voglia di essere scopata. Di sentirmi usata, umiliata, goduta fino in fondo.
Con Massi eravamo in crisi. Un matrimonio un po’ stanco. La verità è che è velleitario. Vorrebbe giocare a fotografarmi nuda, legarmi alla ricerca di un brivido perduto.… patetico.
Oggi sono in calore, e non me ne vergogno. Ho le mutandine appiccicate al sesso da stamattina. Sento il mio odore tra le cosce, acido e dolce, e mi eccita. Voglio farmi fottere. Da uno sconosciuto. O da qualcuno che mi conosce appena, ma ha abbastanza fegato da prendermi senza tante chiacchiere.
Venerdì pomeriggio. L’ufficio si svuota. Massi mi ha scazzata: mi ha regalato un completino sexy, e pensava di mettermelo e fare l’amore. Ma non mi andava, volevo altro. Gli ho detto no, e lui si è imbronciato come un bambino. Mi ha risposto freddo: “Non torno a casa per cena.” Bene. Neanche io.
Poi bussa alla porta Carlo. Lo stronzo fascinoso del reparto bioingegneria. Lo sguardo da predatore. Uno di quelli che sa già che se ti invita a bere, finisci con la lingua sulle sue palle.
“Ti va un aperitivo fuori?” dice.
“Voglio solo vedere dove vuoi arrivare”, penso. E sorrido.
Saliamo ognuno nella sua macchina, ci seguiamo. Lui mi porta in un agriturismo di collina, immerso nel bosco. Il locale è bellissimo, ma io non riesco a smettere di pensare al suo cazzo. Al suo corpo magro e teso che mi inchioda contro un albero. Mi sento bagnata già mentre parcheggio.
Beviamo vino, mangiamo qualcosa, ridiamo. Lui mi guarda le tette in trasparenza sotto la camicetta bianca. Le mie tette sono sode, provocanti, pronte a farsi leccare. Lui lo sa. E io non gliele nego.
“Facciamo due passi?”
Lo seguo nel bosco. Foglie rosse e gialle dappertutto, come una scena da film romantico. Ma quello che ho in mente non ha niente di romantico.
Mi prende la mano. Mi attira a sé. Mi bacia. Glielo restituisco. Gli ficco la lingua in bocca e lo provoco, gli strofino il bacino contro. Sento il suo cazzo già duro dentro i pantaloni.
“Ti voglio,” gli sussurro.
“Lo so,” risponde. E infila una mano sotto la mia camicetta, afferrandomi una tetta senza chiedere permesso. Il capezzolo si irrigidisce tra le sue dita, e io gemo.
Mi porta dentro, chiede una camera con un tono che fa capire al gestore che non è la prima volta. Quello mi guarda. Ci guarda. E capisce.
Mi scivola un brivido lungo la schiena. Cosa penserà di me? Una signora sposata, che va a farsi scopare in pieno pomeriggio, in una stanza d’albergo da uno che conosce a malapena.
E mi eccita da morire.
Mi lasciano sola in camera. Squilla il cellulare. È il suo. Ha fatto partire una chiamata per sbaglio, e sento tutto.
“Un’altra troia da segnare, eh Carlo? Una porca stupenda.
“Sì, fratello. Questa è una signora vera. Di classe. Ma la voglia di cazzo le si legge in faccia. L’ho puntata da tempo. Adesso me la mangio viva. Glielo ficco dentro finché urla.”
Chiudo la chiamata col cuore che mi martella tra le cosce.
Sì. Voglio essere quella troia. Voglio urlare con il suo cazzo dentro.
Quando entra, mi trova in piedi, già scalza, con la camicetta sbottonata.
Mi afferra, mi spoglia piano, mi bacia sul collo, sui seni, mi succhia i capezzoli finché fanno male.
“Ti piacciono le mie tette, bastardo?”
“Le più belle che abbia mai visto,” dice mentre me le stringe con le mani affamate.
Mi strappa le mutandine bagnate. Il mio sesso è gonfio, aperto, colante. Me lo guarda. “Che figa bagnata… sei già pronta per essere scopata.”
Sì. Pronta, calda, colma di voglia.
Si inginocchia e comincia a leccarmi. Piano, poi sempre più forte. La lingua mi scava dentro. Le sue mani mi tengono spalancata. Mi sento esposta, come in un film porno. E non voglio smettere.
“Lecca, bastardo. Lecca tutto.”
Mi ciuccia il clitoride con violenza, mi fa tremare, mi ingoia i succhi, mi succhia come se volesse svuotarmi da dentro.
Godo. Forte. Urlo.
“Sì, così, continua… mi fai impazzire!”
Mi butto su di lui, gli slaccio i pantaloni. Il cazzo esce fuori come una bestia liberata: lungo, spesso, venoso, umido.
“Che meraviglia…” lo dico ansimando.
Gli passo la lingua tutto intorno, lo succhio come se volessi strozzarmi. Gli prendo le palle in bocca, lo faccio impazzire.
Lui geme. Ma si trattiene.
Mi prende per i fianchi, mi gira, mi piega in avanti sul bordo del letto. E me lo ficca dentro senza preavviso.
Grido. È bello, mi apre in due.
“Ohoh… … sì…chiavami così…”
Mi scopa da dietro, con le mani sui miei fianchi, mentre io mi tengo ai cuscini e cerco di non urlare troppo. Ma non resisto.
“Dacci sotto, Carlo… fammi tua… rendimi la tua troia…”
Mi tira i capelli, mi schiaffeggia sul culo, spinge sempre più forte.
Io gemo, ansimo, imploro.
Godo un’altra volta. Forte. Sento il corpo che si spezza nel piacere.
Lui accelera, mi sbatte senza pietà. Poi mi afferra, mi gira e mi scopa in missionario, guardandomi negli occhi.
“Voglio vederti godere mentre ti riempio.”
E lo fa. Lo sento venire dentro di me, con un grido soffocato, un getto caldo che mi inonda.
Rimango stesa, ansimante, con le gambe spalancate e il suo sperma che mi cola dalla figa.
Sento il mio odore mescolato al suo. La stanza puzza di sesso. È meraviglioso.
Quando rientriamo nella camera, mi sono appena sistemata sul letto, il corpo ancora lucido di umore e sudore, le cosce aperte con indolenza, il respiro lento e soddisfatto.
Carlo si sta sbottonando nuovamente i pantaloni, ma viene interrotto da un colpo leggero alla porta.
«È aperto,» dice, senza pensarci.
La porta si spalanca appena, e appare Africo. Età apparente settant’anni, lento, imperturbabile, lo sguardo limpido e diretto, come se sapesse ogni cosa. Indossa una camicia color sabbia, stazzonata, e tiene tra le mani un piccolo bicchiere di vetro da amaro. L’ho notato seduto nel locale mentre stavo per salire in camera, colpita dai capelli bianchi raccolti in una coda.
Trasalisco. Non perché lo conosca, ma perché è chiaro in un attimo che lui conosce me.
«Posso?» chiede Africo con voce bassa, senza aspettare risposta. Entra. Si guarda attorno come chi torna in un luogo familiare. Poi si avvicina a Carlo.
«Mi pare sia il momento,» mormora.
Carlo annuisce in silenzio, raccoglie i vestiti e, senza una parola, esce. Rimango distesa e seminuda, senza capire. O forse sì. Una parte di me, quella più bagnata, più sporca, capisce già.
Africo si avvicina, si siede sul bordo del letto. Con un gesto lento, mi scosta il lenzuolo che ho tirato sopra il ventre. I suoi occhi indugiano su ogni dettaglio.
«Che corpo giovane e morbido...», dice piano, quasi per sé stesso. «La pelle tesa, le cosce tornite, il ventre liscio, le tette piene e sode come frutti maturi. Un’opera d’arte. Ma la cosa più eccitante è la tua disponibilità assoluta.»
Non mi tocca neppure un capello. Poi parla.
«L’ho capito da subito, questo pomeriggio in veranda. Il tuo modo di incrociare le gambe. La curva della tua schiena quando ti sei alzata. Le puttane eleganti si riconoscono dalla postura, non dall’abbigliamento.»
Arrossisco e chiudo le gambe.
«Carlo è bravo. Ma affrettato. Io, invece, non ho bisogno di correre. Non voglio solo scoparti. Voglio lasciarti un ricordo che ti bruci dentro per giorni.»
«Inginocchiati. Dimostrami che vuoi restare in silenzio. E che ti va bene così.»
Obbedisco. Senza parole. Senza più fiato. In quell’istante, la donna che credeva di gestire il gioco muore. Resta solo carne elegante pronta per essere presa. Africo mi solleva il mento, mi annusa piano.
«Deliziosamente umiliata,» sussurra. «Ora tocca a me.»
Africo si alza in piedi, lentamente. Le sue mani rugose sbottonano con calma la cintura, poi i pantaloni. Ogni gesto sembra carico di intenzione. E quando abbassa gli slip, rimango senza fiato.
Tra le gambe dell’uomo, pende un membro che pare irreale. Grosso come un braccio sottile, lungo, scuro, con vene che lo attraversano come radici antiche. Il glande è gonfio, lucido, una cupola purpurea che sembra palpitare da sola.
Non è solo la dimensione. È il contrasto: il corpo rugoso, la pelle cadente, i peli radi e bianchi… e in mezzo, quell’arma viva, tesa come una promessa minacciosa.
«Lo so,» dice Africo, leggendo la mia espressione. «Nessuno se lo aspetta da me.»
Si avvicina. Il cazzo ondeggia, pesante, ogni passo fa tremare il glande. Non ho mai visto nulla del genere. Non solo più grande di quello di Carlo. Più grosso di qualsiasi cosa abbia mai provato.
Se lo prende in mano e me lo poggia sulla guancia. È caldo. Vivo. Mi scivola lungo il viso come una bestia in cerca del suo nido.
«Ti fa paura?» chiede Africo.
«No,» mento. Ma sto tremando. E bagnandomi.
Mi avvicino con lentezza, ancora in ginocchio, e gli prendo il cazzo in mano. È teso, duro, e il calore mi si trasmette subito nelle dita. L'afrore è intenso, acre, virile. Avvicino il viso e lo annuso profondamente, come se volessi imprimermi quell'odore dentro. Poi apro la bocca e lo accolgo tra le labbra. Il glande mi riempie subito la lingua, e il sapore salmastro mi fa fremere. Comincio a succhiarlo lentamente, adorandolo con la bocca, passandoci sopra la lingua con lentezza, come se stessi venerando un idolo. Africo non si muove, mi lascia fare, godendosi la vista della mia bocca elegante che inghiotte centimetri del suo cazzo smisurato. Quando sente il primo conato, lo ritrae con un sorriso compiaciuto.
Mi solleva e mi distende sul letto. Mi apre le gambe con calma. Con due dita raccoglie i succhi che mi colano dalla figa e li assaggia.
«Hai già il sapore dell’attesa,» dice. «E io voglio sentire tutto. Voglio gustarti fino all’ultima goccia.»
Poi si stende sopra di me. Il glande trova da solo la via e affonda dentro di me, lento, massiccio, inesorabile.
Grido. Il senso di pienezza è travolgente. La mia figa si dilata, accoglie quel cazzo gigantesco centimetro dopo centimetro. Ogni nervo in me vibra.
«Lo senti? Questo è un cazzo da uomo vero. Da stallone. Il tuo maritino… cosa ha? Un cazzo normale. Ma io… io ti cambio. Ti segno dentro.»
La scopata dura a lungo. Africo non è giovane, ma il suo fiato è quello di chi sa amministrare piacere e potere. Mi possiede con calma implacabile. Spinge e si ritrae, affonda e si ferma a metà, poi riprende. Ogni movimento è un tormento delizioso.
«Così,» dice. «Così, brava. Apri le gambe. Voglio vederti godere. Voglio lasciarti svuotata, disfatta, piegata da una scopata che non dimenticherai mai.»
Vengo due volte, con orgasmi liquidi, totali, convulsi. Mi aggrappo a lui come a una forza che mi porta via.
Quando Africo viene, è con un grugnito profondo, animalesco. Il suo seme mi riempie come un’onda calda.
Si ritira lentamente. Resto lì, tremante, aperta, il sesso che ancora pulsa e cola. Gli occhi vuoti di pensiero. Ma pieni di una nuova consapevolezza.
«Pulisciti.»
Ma non mi dà carta. Solo la mia biancheria intima. Il mio perizoma. Quello che indossavo quando arrivai, tutta profumata, truccata, composta. Ora zuppo. Di me. Di lui.
Ho voglia di essere scopata. Di sentirmi usata, umiliata, goduta fino in fondo.
Con Massi eravamo in crisi. Un matrimonio un po’ stanco. La verità è che è velleitario. Vorrebbe giocare a fotografarmi nuda, legarmi alla ricerca di un brivido perduto.… patetico.
Oggi sono in calore, e non me ne vergogno. Ho le mutandine appiccicate al sesso da stamattina. Sento il mio odore tra le cosce, acido e dolce, e mi eccita. Voglio farmi fottere. Da uno sconosciuto. O da qualcuno che mi conosce appena, ma ha abbastanza fegato da prendermi senza tante chiacchiere.
Venerdì pomeriggio. L’ufficio si svuota. Massi mi ha scazzata: mi ha regalato un completino sexy, e pensava di mettermelo e fare l’amore. Ma non mi andava, volevo altro. Gli ho detto no, e lui si è imbronciato come un bambino. Mi ha risposto freddo: “Non torno a casa per cena.” Bene. Neanche io.
Poi bussa alla porta Carlo. Lo stronzo fascinoso del reparto bioingegneria. Lo sguardo da predatore. Uno di quelli che sa già che se ti invita a bere, finisci con la lingua sulle sue palle.
“Ti va un aperitivo fuori?” dice.
“Voglio solo vedere dove vuoi arrivare”, penso. E sorrido.
Saliamo ognuno nella sua macchina, ci seguiamo. Lui mi porta in un agriturismo di collina, immerso nel bosco. Il locale è bellissimo, ma io non riesco a smettere di pensare al suo cazzo. Al suo corpo magro e teso che mi inchioda contro un albero. Mi sento bagnata già mentre parcheggio.
Beviamo vino, mangiamo qualcosa, ridiamo. Lui mi guarda le tette in trasparenza sotto la camicetta bianca. Le mie tette sono sode, provocanti, pronte a farsi leccare. Lui lo sa. E io non gliele nego.
“Facciamo due passi?”
Lo seguo nel bosco. Foglie rosse e gialle dappertutto, come una scena da film romantico. Ma quello che ho in mente non ha niente di romantico.
Mi prende la mano. Mi attira a sé. Mi bacia. Glielo restituisco. Gli ficco la lingua in bocca e lo provoco, gli strofino il bacino contro. Sento il suo cazzo già duro dentro i pantaloni.
“Ti voglio,” gli sussurro.
“Lo so,” risponde. E infila una mano sotto la mia camicetta, afferrandomi una tetta senza chiedere permesso. Il capezzolo si irrigidisce tra le sue dita, e io gemo.
Mi porta dentro, chiede una camera con un tono che fa capire al gestore che non è la prima volta. Quello mi guarda. Ci guarda. E capisce.
Mi scivola un brivido lungo la schiena. Cosa penserà di me? Una signora sposata, che va a farsi scopare in pieno pomeriggio, in una stanza d’albergo da uno che conosce a malapena.
E mi eccita da morire.
Mi lasciano sola in camera. Squilla il cellulare. È il suo. Ha fatto partire una chiamata per sbaglio, e sento tutto.
“Un’altra troia da segnare, eh Carlo? Una porca stupenda.
“Sì, fratello. Questa è una signora vera. Di classe. Ma la voglia di cazzo le si legge in faccia. L’ho puntata da tempo. Adesso me la mangio viva. Glielo ficco dentro finché urla.”
Chiudo la chiamata col cuore che mi martella tra le cosce.
Sì. Voglio essere quella troia. Voglio urlare con il suo cazzo dentro.
Quando entra, mi trova in piedi, già scalza, con la camicetta sbottonata.
Mi afferra, mi spoglia piano, mi bacia sul collo, sui seni, mi succhia i capezzoli finché fanno male.
“Ti piacciono le mie tette, bastardo?”
“Le più belle che abbia mai visto,” dice mentre me le stringe con le mani affamate.
Mi strappa le mutandine bagnate. Il mio sesso è gonfio, aperto, colante. Me lo guarda. “Che figa bagnata… sei già pronta per essere scopata.”
Sì. Pronta, calda, colma di voglia.
Si inginocchia e comincia a leccarmi. Piano, poi sempre più forte. La lingua mi scava dentro. Le sue mani mi tengono spalancata. Mi sento esposta, come in un film porno. E non voglio smettere.
“Lecca, bastardo. Lecca tutto.”
Mi ciuccia il clitoride con violenza, mi fa tremare, mi ingoia i succhi, mi succhia come se volesse svuotarmi da dentro.
Godo. Forte. Urlo.
“Sì, così, continua… mi fai impazzire!”
Mi butto su di lui, gli slaccio i pantaloni. Il cazzo esce fuori come una bestia liberata: lungo, spesso, venoso, umido.
“Che meraviglia…” lo dico ansimando.
Gli passo la lingua tutto intorno, lo succhio come se volessi strozzarmi. Gli prendo le palle in bocca, lo faccio impazzire.
Lui geme. Ma si trattiene.
Mi prende per i fianchi, mi gira, mi piega in avanti sul bordo del letto. E me lo ficca dentro senza preavviso.
Grido. È bello, mi apre in due.
“Ohoh… … sì…chiavami così…”
Mi scopa da dietro, con le mani sui miei fianchi, mentre io mi tengo ai cuscini e cerco di non urlare troppo. Ma non resisto.
“Dacci sotto, Carlo… fammi tua… rendimi la tua troia…”
Mi tira i capelli, mi schiaffeggia sul culo, spinge sempre più forte.
Io gemo, ansimo, imploro.
Godo un’altra volta. Forte. Sento il corpo che si spezza nel piacere.
Lui accelera, mi sbatte senza pietà. Poi mi afferra, mi gira e mi scopa in missionario, guardandomi negli occhi.
“Voglio vederti godere mentre ti riempio.”
E lo fa. Lo sento venire dentro di me, con un grido soffocato, un getto caldo che mi inonda.
Rimango stesa, ansimante, con le gambe spalancate e il suo sperma che mi cola dalla figa.
Sento il mio odore mescolato al suo. La stanza puzza di sesso. È meraviglioso.
Quando rientriamo nella camera, mi sono appena sistemata sul letto, il corpo ancora lucido di umore e sudore, le cosce aperte con indolenza, il respiro lento e soddisfatto.
Carlo si sta sbottonando nuovamente i pantaloni, ma viene interrotto da un colpo leggero alla porta.
«È aperto,» dice, senza pensarci.
La porta si spalanca appena, e appare Africo. Età apparente settant’anni, lento, imperturbabile, lo sguardo limpido e diretto, come se sapesse ogni cosa. Indossa una camicia color sabbia, stazzonata, e tiene tra le mani un piccolo bicchiere di vetro da amaro. L’ho notato seduto nel locale mentre stavo per salire in camera, colpita dai capelli bianchi raccolti in una coda.
Trasalisco. Non perché lo conosca, ma perché è chiaro in un attimo che lui conosce me.
«Posso?» chiede Africo con voce bassa, senza aspettare risposta. Entra. Si guarda attorno come chi torna in un luogo familiare. Poi si avvicina a Carlo.
«Mi pare sia il momento,» mormora.
Carlo annuisce in silenzio, raccoglie i vestiti e, senza una parola, esce. Rimango distesa e seminuda, senza capire. O forse sì. Una parte di me, quella più bagnata, più sporca, capisce già.
Africo si avvicina, si siede sul bordo del letto. Con un gesto lento, mi scosta il lenzuolo che ho tirato sopra il ventre. I suoi occhi indugiano su ogni dettaglio.
«Che corpo giovane e morbido...», dice piano, quasi per sé stesso. «La pelle tesa, le cosce tornite, il ventre liscio, le tette piene e sode come frutti maturi. Un’opera d’arte. Ma la cosa più eccitante è la tua disponibilità assoluta.»
Non mi tocca neppure un capello. Poi parla.
«L’ho capito da subito, questo pomeriggio in veranda. Il tuo modo di incrociare le gambe. La curva della tua schiena quando ti sei alzata. Le puttane eleganti si riconoscono dalla postura, non dall’abbigliamento.»
Arrossisco e chiudo le gambe.
«Carlo è bravo. Ma affrettato. Io, invece, non ho bisogno di correre. Non voglio solo scoparti. Voglio lasciarti un ricordo che ti bruci dentro per giorni.»
«Inginocchiati. Dimostrami che vuoi restare in silenzio. E che ti va bene così.»
Obbedisco. Senza parole. Senza più fiato. In quell’istante, la donna che credeva di gestire il gioco muore. Resta solo carne elegante pronta per essere presa. Africo mi solleva il mento, mi annusa piano.
«Deliziosamente umiliata,» sussurra. «Ora tocca a me.»
Africo si alza in piedi, lentamente. Le sue mani rugose sbottonano con calma la cintura, poi i pantaloni. Ogni gesto sembra carico di intenzione. E quando abbassa gli slip, rimango senza fiato.
Tra le gambe dell’uomo, pende un membro che pare irreale. Grosso come un braccio sottile, lungo, scuro, con vene che lo attraversano come radici antiche. Il glande è gonfio, lucido, una cupola purpurea che sembra palpitare da sola.
Non è solo la dimensione. È il contrasto: il corpo rugoso, la pelle cadente, i peli radi e bianchi… e in mezzo, quell’arma viva, tesa come una promessa minacciosa.
«Lo so,» dice Africo, leggendo la mia espressione. «Nessuno se lo aspetta da me.»
Si avvicina. Il cazzo ondeggia, pesante, ogni passo fa tremare il glande. Non ho mai visto nulla del genere. Non solo più grande di quello di Carlo. Più grosso di qualsiasi cosa abbia mai provato.
Se lo prende in mano e me lo poggia sulla guancia. È caldo. Vivo. Mi scivola lungo il viso come una bestia in cerca del suo nido.
«Ti fa paura?» chiede Africo.
«No,» mento. Ma sto tremando. E bagnandomi.
Mi avvicino con lentezza, ancora in ginocchio, e gli prendo il cazzo in mano. È teso, duro, e il calore mi si trasmette subito nelle dita. L'afrore è intenso, acre, virile. Avvicino il viso e lo annuso profondamente, come se volessi imprimermi quell'odore dentro. Poi apro la bocca e lo accolgo tra le labbra. Il glande mi riempie subito la lingua, e il sapore salmastro mi fa fremere. Comincio a succhiarlo lentamente, adorandolo con la bocca, passandoci sopra la lingua con lentezza, come se stessi venerando un idolo. Africo non si muove, mi lascia fare, godendosi la vista della mia bocca elegante che inghiotte centimetri del suo cazzo smisurato. Quando sente il primo conato, lo ritrae con un sorriso compiaciuto.
Mi solleva e mi distende sul letto. Mi apre le gambe con calma. Con due dita raccoglie i succhi che mi colano dalla figa e li assaggia.
«Hai già il sapore dell’attesa,» dice. «E io voglio sentire tutto. Voglio gustarti fino all’ultima goccia.»
Poi si stende sopra di me. Il glande trova da solo la via e affonda dentro di me, lento, massiccio, inesorabile.
Grido. Il senso di pienezza è travolgente. La mia figa si dilata, accoglie quel cazzo gigantesco centimetro dopo centimetro. Ogni nervo in me vibra.
«Lo senti? Questo è un cazzo da uomo vero. Da stallone. Il tuo maritino… cosa ha? Un cazzo normale. Ma io… io ti cambio. Ti segno dentro.»
La scopata dura a lungo. Africo non è giovane, ma il suo fiato è quello di chi sa amministrare piacere e potere. Mi possiede con calma implacabile. Spinge e si ritrae, affonda e si ferma a metà, poi riprende. Ogni movimento è un tormento delizioso.
«Così,» dice. «Così, brava. Apri le gambe. Voglio vederti godere. Voglio lasciarti svuotata, disfatta, piegata da una scopata che non dimenticherai mai.»
Vengo due volte, con orgasmi liquidi, totali, convulsi. Mi aggrappo a lui come a una forza che mi porta via.
Quando Africo viene, è con un grugnito profondo, animalesco. Il suo seme mi riempie come un’onda calda.
Si ritira lentamente. Resto lì, tremante, aperta, il sesso che ancora pulsa e cola. Gli occhi vuoti di pensiero. Ma pieni di una nuova consapevolezza.
«Pulisciti.»
Ma non mi dà carta. Solo la mia biancheria intima. Il mio perizoma. Quello che indossavo quando arrivai, tutta profumata, truccata, composta. Ora zuppo. Di me. Di lui.
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