Deflorata. Prequel

di
genere
prime esperienze

Arrivata ai diciott’anni ero, a tutti gli effetti, una brava ragazza.
Cresciuta in una famiglia tradizionale, con genitori severi ma affettuosi, avevo frequentato scuole cattoliche e passavo i pomeriggi tra lo studio e la parrocchia.
Tutto era ordinato, devoto, corretto.
Ma dentro di me qualcosa aveva iniziato a fermentare.
Un languore sordo.
Un prurito invisibile che si agitava sotto la pelle, come un richiamo sommerso.
Forse erano gli ormoni. O la noia. O forse era solo il mio corpo che cominciava a reclamare la propria voce.
Qualcosa mi spingeva a voler altro.
A volere l’opposto.
Fu così che iniziai a frequentare un gruppo di ragazzi completamente diversi da quelli che avevo conosciuto.
Ribelli, disillusi, politicizzati.
Musica distorta, vino in bottiglia, parole grosse e battute feroci.
E soprattutto: il sesso.
Un universo ancora chiuso per me, sigillato sotto strati di pudore e silenzi.
Era come gettarsi in un fiume impetuoso. Mi toglieva il fiato, ma mi teneva viva.
Al centro di quel piccolo branco c’era lui.
Roberto.
Bob, per tutti. Romano, qualche anno più grande, diceva di studiare Scienze Politiche.
In realtà sembrava studiare le debolezze umane.
Magro, sigaretta sempre accesa, occhi neri e taglienti come lame.
Aveva un modo di guardarmi che mi sfiorava il cuore e scendeva più giù.
Mi stuzzicava. Mi punzecchiava.
«Sotto quella faccia da santarellina ci sta una porca curiosa, me lo sento…»
Un venerdì mi scrisse:
“Appartamento al mare, libero. Vino e due chiacchiere. Che fai, vieni o hai paura?”
Ci andai.
Avevo lo stomaco in subbuglio. Un misto di vertigine e febbre.
Il cielo era basso, il mare lontano e spento.
L’appartamento freddo, vuoto, con l’eco che rimbalzava sulle pareti spoglie.

Appena chiusa la porta, Bob mi spinse in camera.
Le sue mani erano ovunque.
La sua bocca calda, insistente.
Mi premeva contro il muro, contro il letto, contro me stessa.
Tremavo. Sudavo. Nonostante il gelo.
Mi spogliava in fretta, come chi scarta, impaziente, un regalo.
Rimasi in reggiseno, mutandine e calze.
Mi fece sedere sul bordo del letto e si inginocchiò, con un sorriso sornione.
Mi sfilò lentamente le calze, prima una, poi l’altra, inspirando come un sommelier d’annata.
«Ah… bouquet interessante. Sentori di pelle calda, accenni di pioggia estiva…»
Annusò la pianta nuda, sollevando un sopracciglio.
«...e un finale deciso di camminata protratta. Naturale al cento per cento, eh? Neanche una nota sintetica.»
Rideva, ma con quel tono ambiguo che non sapevi se voleva prenderti in giro o adorarti.
Poi, come per confermare tutto, posò le labbra sull’arco del piede.
«Così vera che quasi mi commuovo…» sussurrò, con voce graffiata.
Io restavo zitta, rossa in volto, trattenendo a stento le lacrime per la vergogna, sospesa tra l’umiliazione e un calore torbido che mi saliva dalle cosce.
Poi si fermò. Indicò l’inguine, le ascelle.
«Tua madre ti ha lasciata all’età della pietra, eh?»
Fece una risata breve, crudele.
Mi slacciò il reggiseno. Le mani esperte, decise.
Sfiorò le ascelle, strusciandoci il viso.
«Sei sudata, eh? Il tuo corpo lo sa prima di te che vuoi farti scopare.»
Mi girò di scatto.
Scostò le mutandine.
Osservò la mia fessura intatta, con un’attenzione morbosa.
«Una piccola selvaggia… vergine foresta inesplorata. Bellissima.»
Poi affondò la lingua.
Fu come aprire una diga.
Non sapevo cosa stesse succedendo.
Solo fiato spezzato, battito che martellava, un tremore incontrollabile.
Quando trovò quel punto – quel nodo segreto e incandescente – gemetti.
Piano. Sorpresa. Travolta.
«Basta… ti prego…»
Lui rispose stringendomi più forte.
Si spogliò.
Il suo sesso era duro, scuro, sconosciuto.
Mi prese la testa.
«Assaggialo. Dai, fammi vedere che sai fare.»
Lo presi in bocca con goffaggine. Era caldo, vivo.
Ogni vena mi pulsava sulla lingua.
Mi colmava. Premeva sul palato, poi giù, quasi in gola.
Ogni mio movimento era guidato dalle sue mani.
Mi mancava l’aria. Mi mancava l’esperienza.
Sbuffò, infastidito.
«Ti ci vuole un corso accelerato.»
Mi spinse sul letto con un gesto sicuro, come se sapesse esattamente cosa stava facendo.
Il materasso freddo mi accolse con uno scricchiolio, mentre lui si posizionava tra le mie gambe, aprendole con le ginocchia.
Sentii la punta del suo cazzo, gonfia e lucida, premere contro la mia fessura.
«Aspetta… per favore… ti prego…»
La mia voce era un filo spezzato.
Le mani gli battevano sul petto, tremanti.
«Non così… fammi respirare… fammi…»
Ma lui affondò, deciso, brutale.
Il suo cazzo mi squarciò.
Non fu penetrazione: fu una rottura.
Il dolore mi attraversò come una fitta rovente.
Sentii la carne arrendersi, cedere, strapparsi.
Un bruciore violento, istintivo, mi aprì in due.
Urlai. Un suono rozzo, sporco.
Le gambe mi si contrassero, il respiro spezzato.
«Accidenti… quanto sei stretta…»
Rimase dentro, piantato fino in fondo.
Mi aveva spaccata.
Mi sentivo trapassata, riempita contro natura.
Un rivolo caldo colò tra le cosce.
Il sangue.
Lo vidi macchiare le lenzuola, denso, scuro.
Si fermò un istante dentro di me, col fiato spezzato.
Poi abbassò lo sguardo tra le mie gambe, vide il sangue.
Sorrise. Un sorriso storto, compiaciuto.
«Così… eri davvero illibata!»
Si passò una mano tra i capelli, scosse la testa con un ghigno.
«Cazzo… mi son scopato una vergine!»
Lo disse così.
Come uno che ha appena vinto una scommessa. Soddisfatto e spensierato.
«Guarda come tremi… tutta la tua brava educazione, adesso, è una pozza sotto di me.»
Le lacrime mi rigavano il volto, ma sotto il dolore…
Sotto il bruciore…
C’era un altro calore. Viscido. Bastardo.
Mi sentivo aperta. Vuota. Ma viva.
Quando ricominciò a muoversi, lo sentii scivolare tra le pareti gonfie, doloranti.
Lo sentii violarmi di nuovo, più a fondo, più lento, ma inarrestabile.
Ogni spinta mi scuoteva, faceva schioccare la carne contro la carne.
«Ti piace… lo so che ti piace… senti come ti apri…»
Il mio bacino rispose.
Un movimento goffo, incerto, ma volontario.
«Non voglio…» sussurrai.
«Ma lo stai facendo.»
Ero una porta scardinata.
Ma spalancata.
Quando spinse più forte, il mio corpo si contrasse, tremò.
Il dolore non era svanito. Ma dietro… dietro, qualcosa si muoveva.
Qualcosa che urlava per uscire.
L’onda arrivò.
Imprevista, sporca, feroce.
Gemetti, rantolai.
E venni.
Venni tremando, in silenzio.
Venni con le lacrime agli occhi e le cosce spalancate.
Quando Bob venne, urlò.
Il suo seme mi schizzò sulla pelle, caldo, vivo, spargendosi sul ventre.
Mi guardò. Soddisfatto.
Ancora dentro. Ancora teso.
Bob si alzò dal letto senza guardarmi.
Andò in bagno, si sciacquò il cazzo, si asciugò con l’asciugamano di carta.
Tornò nudo, si accese una sigaretta e si rivestì in silenzio.
Poi mi lanciò uno sguardo rapido.
Fermo sulla soglia.
Lo sguardo di uno che ha finito.
«Era solo una conquista.»
Aprì la porta. Uscì.
Io restai lì.
Seduta sul bordo del letto, ancora sporca.
Col ventre che pulsava.
Le cosce macchiate.
Le mani vuote.
Fuori il mare era fermo.
Dentro, niente.
Solo il corpo che ancora bruciava.
E un silenzio che non passava.
Nei giorni successivi, mi giunsero le sue parole.
Riportate da una del gruppo.
Come coltellate.
«Non si era nemmeno depilata: una roba da Medioevo!
Non l’aveva mai usata, quella fessura. Vergine sul serio.
Quando le ho tolto le calze, mi son divertito a umiliarla.
La catechista! Una grotta tra le cosce… una foresta là sotto.
Mi ci sono perso con la lingua… tremava, ma si è bagnata subito.
Quando l’ho girata e ho visto quella fessura chiusa… cazzo, mi è venuta voglia di sbranarla.»
Ridevano.
Avevano scritto la sceneggiatura. E io avevo recitato la parte.
Senza nemmeno saperlo.
Quel giorno sparii.
Nessuna spiegazione.
Bob provò a cercarmi.
Ma io, ormai, ero un’altra.
Camminavo, ridevo, studiavo.
Ma ero svuotata.
Tranne la notte.
La notte mi toccavo.
Rivedevo il sangue, l’apertura, il dolore, il piacere. Era una ferita che pulsava ancora viva.


di
scritto il
2025-07-22
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