Deflorata

di
genere
prime esperienze


L’ultima lezione


Avevo diciott’anni e una storia alle spalle che nessuno conosceva.
Una storia sporca. Cruda. Che mi aveva aperto le gambe e lasciato un buco nella pancia, e nella mente.
Si chiamava Bob.
Con lui avevo perso la verginità, e molto di più.
Avevo creduto di scegliere, ma era stato lui a decidere tutto: i tempi, i gesti, perfino le parole.
Mi aveva presa, usata, raccontata in giro come un trofeo da esibire.
E io avevo reagito chiudendo tutto.
Silenzio. Distanza. Finta normalità.
Ma dentro, il corpo ricordava.
Mi toccavo la notte, rivivendo tutto.
Il sangue, la vergogna, le sue frasi oscene.
Talvolta venivo.
Avevo provato a tornare quella di prima, ma non si torna indietro dopo aver spalancato certe porte.

Quando cominciarono le lezioni col professor Fazi, non pensavo a nulla.
Solo studio, mi dicevo. Test d’ingresso. Con Giulia al mio fianco, tutto sarebbe rimasto al suo posto.

Ma poi, lui.
Quello sguardo. Quella voce. Quei silenzi. E il modo in cui, senza toccarmi, sapeva già dove farmi tremare. Non aveva nulla di Bob. Era adulto, misurato, colto. Ma c’era qualcosa in lui che riconobbi subito: un istinto, a capacità di sentire il corpo altrui. Di leggerlo. Di usarlo. E io non avevo più paura di essere letta.
Avevamo deciso, io e Giulia, di prendere qualche lezione privata di biologia. L’anno scolastico era finito, ma volevamo prepararci ai test d’ingresso. Il dott Alberto Fazi, un medico, quarantenne, amico del padre di Giulia si era reso disponibile a darci qualche lezione. La prima volta che lo vidi fu quando ci aprì la porta, alto, curato, uno sguardo quieto ma penetrante. Una di quelle persone che parlano poco, ma che osservano tutto.
Durante le prime spiegazioni, mi accorsi subito di qualcosa. Non era il modo in cui parlava — sempre chiaro, educato, pacato — ma il modo in cui ogni tanto si interrompeva, lo sguardo che calava giù, che si fissava su dettagli apparentemente banali. Le caviglie. Le dita dei piedi che uscivano dai sandali. I polsi. L’incavo tra le ascelle.
Giulia, molto determinata, prendeva appunti con la penna rosa e ogni tanto si pavoneggiava con il tono da secchiona. Io parlavo meno, ma osservavo di più. E vedevo — sentivo — come certi silenzi del professore fossero carichi di sottintesi. Come si soffermasse una frazione di secondo in più sui miei piedi nudi, sulle gambe scoperte, sui seni che premevano sul tessuto
Una volta, mentre parlava di recettori nervosi, disse:
«Sapete qual è una delle zone più sensibili del corpo umano? La pianta del piede. Una delle aree più dense di terminazioni. È per questo che… certe stimolazioni possono provocare reazioni molto forti.»
Giulia sorrise e scrisse la frase. Io arrossii. Il professore abbassò appena lo sguardo verso i miei piedi, infilati in un paio di ballerine sottili. Non portavo calze. Era giugno, e il caldo si faceva sentire.
«E poi,» aggiunse, «certi odori… per esempio quelli che emanano dal corpo dopo una giornata… intensa… possono raccontare più di qualunque parola, c’è un universo olfattivo poco esplorato.»
Lo disse con un mezzo sorriso. Giulia rise, lo trovò simpatico. Io invece sentii un brivido. Lo vidi inspirare piano, come se l’aria della stanza avesse un sapore. Come se sapesse esattamente cosa stava facendo.
Dopo qualche lezione, cominciai ad approfittare di quei dettagli. Lasciavo apposta i piedi nudi, facendo scivolare le ballerine al lato. Fingevo di stiracchiarmi, sollevando le braccia, mostrando le ascelle leggermente sudate. E a volte, quando Giulia era distratta, aprivo appena le gambe, lasciando che la gonna si sollevasse.
Niente di scoperto. Tutto appena accennato. Ma bastava per farlo guardare. E per accendere in me una vertigine che mi portavo poi nel letto, la sera.
Una volta, uscendo, lui ci accompagnò alla porta. Giulia chiacchierava già al telefono. Scivolai e mi chinai per sistemare la scarp. Quando mi rialzai, lo vidi guardarmi i piedi, lentamente. Poi disse:
«Certe ragazze non si rendono conto di quanto possono essere attrattive, disturbanti.»
Non belle, disturbanti.
Io sorrisi. Ma dentro bruciavo.
Giulia aveva mandato un messaggio al mattino: “Salto oggi. Ho un pranzo in famiglia. Tanto recupero domani.”
Io risposi un laconico “ok”, ma dentro sentii qualcosa stringersi. Una possibilità. Un varco.
Sapevo che sarei stata sola con lui.
E sapevo anche cosa avrei indossato.
Scelsi un vestitino estivo, leggero, color crema. Niente reggiseno. Solo un paio di mutandine nere, di cotone sottile, che già da sole sembravano una promessa di umidità.
Ai piedi, le ballerine. Senza calze. Senza calzini.
Le avevo infilate a pelle, apposta. Dopo una camminata al sole, sapevo che l’interno si sarebbe scaldato, impregnato del mio odore.
Non era vanità.
Era desiderio di essere notata, annusata.

Lui aprì la porta come sempre, composto. Ma l’esitazione nel suo sguardo fu evidente.
Mi scrutò dall’alto verso il basso.
Il vestito aderente sul petto nudo, i miei capezzoli duri come due spine.
Il bordo della gonna all’altezza giusta per mostrare le cosce e lasciare tutto il resto alla fantasia.
E le ballerine. Quelle. I piedi nudi.
«Solo tu oggi?» disse, mentre si scostava.
«Giulia aveva da fare.»
Sorrise, ma non disse altro.
Mi fece entrare. Mi sedetti sul solito divano, lasciando scivolare lentamente le ballerine. Un piede nudo, poi l’altro. Li mossi lievemente, come per cercare posizione, accavallando le gambe con lentezza.
Sentii l’umidità tra le cosce.
Le mutandine, ormai strette, si infilavano dentro. La stoffa era sottile, tirata, scomparsa tra le grandi labbra. I ricci scuri del mio pube facevano capolino dai lati.
Non potevo vederlo.
Ma ne ero certa, lui lo vedeva.

Iniziò a spiegare qualcosa sui tessuti muscolari, ma la sua voce era più lenta. Ogni tanto faceva pause non necessarie. E io le riempivo.
Aprivo le gambe.
Tiravo su il vestito sulle cosce.
Muovevo i piedi con leggerezza, facendo ondeggiare le dita.
Ogni tanto mi sollevavo i capelli, mostrando il collo, le ascelle appena umide.
Ogni gesto era calcolo. E resa.
«Hai caldo?» chiese, abbassando finalmente la penna.
«Un po’.»
«È normale. Giornata afosa. E con quelle scarpe…»
Lo disse quasi distratto, ma il suo sguardo era già lì, sui miei piedi nudi.
Poi aggiunse:
«Lo sai che i piedi raccontano più di quanto si pensi? È da lì che si capisce se una persona è tesa… o eccitata.»
Era una battuta rivelatrice.
«Puoi spiegarti meglio?»
Lui mi guardò, per un attimo serio. Poi si alzò.
Si mise davanti a me.
Si inginocchiò.
E, senza dire nulla, prese il mio piede destro.
Lo portò vicino al viso.
Inspirò.
Il mio cuore prese a battere.
Il piede era caldo. Sapevo di essere stata in giro.
C’era quell’odore, il mio odore, che avevo imparato a riconoscere. Non era profumo. Era corpo.
Lui premette il naso contro la pianta. Lo strofinò.
Poi cominciò a leccare tra le dita.
A succhiare.
A mormorare parole incomprensibili contro la pelle bagnata.
L’altro piede seguì. Poi le caviglie.
Saliva piano.
Il fiato gli tremava.
E io colavo.
Sentivo lo slip tirarsi ancora di più. Le labbra intorpidite. Il tessuto bagnato.
Avevo voglia di slacciarlo. Di aprirmi. Di essere presa.
Ma aspettai.
Volevo che fosse lui a decidere il momento in cui la lezione avrebbe smesso di essere lezione. Il dottore teneva ancora in mano il mio piede. Lo baciava piano, ma con crescente voracità. Leccava la pianta, affondava la lingua tra le dita come se stesse divorando qualcosa di vivo.
Quando lo prese in bocca intero, sentii un brivido corrermi sulla schiena.
Ero completamente nuda dentro. Il mio corpo chiedeva. Si apriva.

Mi fissava, le dita ancora intrecciate alle mie caviglie nude, lo sguardo basso e attento.
«È la prima volta che ti lasci toccare così? Hai mai scopato?» chiese piano.
Esitai un attimo. Poi scelsi la verità.
«Ho fatto l’amore una volta sola. Un po’ di tempo fa.»
Lui non parlò. Aspettava. E io continuai, con la voce che tremava appena.
«Non era niente di che… mi è piaciuto, ma dopo ho avuto paura. Di essere rimasta incinta. Non dormivo la notte…»
Lui sollevò gli occhi, mi guardò con un sorriso di sguincio, appena piegato.
«Stai tranquilla» disse. «Con me non correrai quel rischio.»
«Alzati» mi disse, con un filo di voce.
Obbedii.
Mi alzai in piedi, davanti a lui.
Il vestitino era incollato alla pelle. Il sudore mi bagnava la schiena e l’interno coscia.
Lui lo sollevò piano, lentamente, passandomi le mani sotto.
Mi guardava dal basso, come si guarda un’offerta.
Scoprì il ventre.
Poi il pube.
Le mutandine erano una fessura nera incastrata nella carne bagnata. Scomparivano tra le grandi labbra.
Sui lati, facevano capolino i ricci scuri del mio inguine, inzuppati.
Lui non distolse lo sguardo.
Mi tirò giù le mutandine lentamente.
La stoffa fece resistenza, come se non volesse separarsi dalla mia figa.
Quando si staccò, fece un piccolo rumore, uno schiocco bagnato.
L’umore colava in un filo, denso, dall’interno della mia fessura all’interno coscia.
Lui inspirò profondamente.
Poi portò le mutandine al naso. Le strinse nel pugno. Le leccò. Se le mise in tasca.
«Tua» sussurrai.
«Per sempre» rispose.

Mi spinse sul letto, con delicatezza.
Mi stese supina. Mi aprì le cosce.
Mi guardava come si guarda un banchetto dopo il digiuno.Iniziò a leccarmi la figa.
Non con dolcezza, ma famelico.
La lingua entrava in ogni piega, lambiva ogni nervatura, raccoglieva ogni goccia.
Mi apriva con le dita, le labbra scostate come petali, tenute ben tese.
Il clitoride, già in erezione, sembrava impazzito. Pulsava.
Lui lo succhiava.
Lo tormentava.
Mi faceva urlare piano, trattenendo i gemiti nel pugno.
Quando mi girò, non dissi nulla.
Mi mise un cuscino sotto la pancia.
Il bacino si sollevò da solo.
Le natiche si aprirono.
Mi sentii completamente esposta, spalancata.
Il suo respiro era rovente.
Mi annusò. Mi leccò il buco del culo, lentamente.
Poi versò un getto di gel fresco.
Lo sentii colare tra le chiappe, insinuarsi nella fessura.
Poi un dito.
Poi due.
Poi tre, ben lubrificati.
Mi apriva, mi lavorava, mi preparava.
«Ti piace, Sandra?»
«Sì… sì, mi piace…»
«È la prima volta?»
Silenzio. Poi un sorriso.
«Nel pensiero, più volte.»

Lui si alzò.
Lo vidi nudo. Il cazzo duro, venoso, con la cappella lucida.
Lo strofinò appena.
Poi si posizionò.
La punta premette contro l’ano.
«Possiamo giocare tranquilli e così non correrai nessun rischio di rimanere incinta,» mormorò.
La voce era bassa, calma.
Quasi una scusa razionale, ma nello sguardo c’era altro, la brama il mio culetto, frutto inviolato.
Il buco si tese. Vibrò. Resistette.
Poi cedette.
Entrò.
Un centimetro. Poi due.
Mi allargava.
Mi invadeva. Il buco si tese, vibrò, cercò di resistere.
Poi, cedette. Il glande entrò dentro di me.
Sentii bruciare, poi spingere, poi scivolare.
Mi morsi le labbra.
Le mani affondate nel cuscino.
Il mio ano si dilatava, accoglieva.
Mi stava prendendo.
Completamente.
Lui cominciò a spingere, con calma.
Ogni colpo si rifletteva sulla figa. Le grandi labbra battevano bagnate, il clitoride gonfio si strofinava contro il letto.
Il capezzolo sinistro, schiacciato dal mio peso, pulsava come un’arteria.
«Ti piace, vero?»
«Sì… ohoh… sì… più a fondo… riempimi…»
Mi scopava solo lì, eppure sentivo tutto il corpo muoversi.
Il mio culo stringeva il cazzo. Lo succhiava. Lo tratteneva.
Mi toccai il clitoride. Bastarono tre cerchi lenti.
Venni.
Un orgasmo anale, pieno, sporco, mi travolse.
Tremavo.
Il culo pieno.
La gola aperta in un gemito sordo.
Il professore venne un attimo dopo.
Il cazzo pulsava dentro di me.
Il seme mi riempiva.
Lo sentii colare appena si sfilò.
Gocce dense tra le chiappe. Calde. Mie. Sue. Nostre.
Rimasi distesa qualche minuto, il corpo lento, svuotato, ancora sporco.
Sentivo il letto umido sotto di me, il gel tra le cosce, il seme che mi colava dal culo.
Il mio ano palpitava piano, ancora teso.
Le tette mi facevano male.
Le dita del professore avevano lasciato impronte invisibili su ogni centimetro di pelle.
Mi voltai.
Lui era già in piedi. Mi osservava con calma, ma gli occhi bruciavano ancora.
Mi alzai lentamente.
Recuperai il vestitino. Lo infilai. Senza fretta.
Le mutandine non c’erano più. Le aveva tenute.
Le ballerine le presi in mano. Uscii a piedi nudi, le dita ancora bagnate del mio stesso umore.
Alla porta si fermò.
«Non ti cercherò» disse.
«Lo so» risposi.
Ci guardammo. Solo un secondo.
Poi aggiunsi:
«È per questo che sei stato perfetto.»
E me ne andai.

Non lo rividi mai più.
di
scritto il
2025-07-22
1 . 2 K
visite
1 6
voti
valutazione
6.9
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Sotto la vestaglia. Il ritorno
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.