In Vetta 2^ Parte

di
genere
etero

Il lunedì mattina era iniziato come tanti altri. Forse con una nota appena più tesa nel respiro, una vibrazione sotterranea tra le costole, ma niente che potesse ancora definirsi impazienza. Lorena era arrivata in ufficio con la consueta eleganza composta, vestita di un completo formale, severo nel taglio e nel colore, come un’armatura che aveva scelto lei, anni prima, per sopravvivere in un mondo che non perdonava mai un passo incerto.
Aprì il portatile con la naturalezza di ogni mattina, e solo allora, mentre lo schermo prendeva vita e le finestre si aprivano una dopo l’altra, si trovò davanti a ciò che stava – in fondo – aspettando: la mail era lì, esattamente come le altre volte, con la solita intestazione semplice, “Venerdì”, che ormai per lei non era più solo un giorno della settimana, ma una crepa nella corazza.
Cliccò senza esitare, e il testo comparve subito, breve, netto:
“Finalmente hai espresso la tua beltà.
Ma siamo ancora lontani dal dimostrare tutta la femminilità di cui sei capace.”
Si immobilizzò per un istante, gli occhi fissi sullo schermo. Poi scorse verso il basso e vide gli allegati. Non due, ma molti. Li aprì uno alla volta, senza saltarne neppure uno.
In ognuna delle immagini c’era lei, eppure in ogni scatto sembrava diversa, più vera. Il suo corpo era sempre immerso nel movimento, ma non da sola. Attorno a lei, o più spesso dietro di lei, si riconoscevano presenze maschili. Erano uomini comuni, mai troppo nitidi, ma la loro funzione era chiara: stavano godendo della sua vicinanza, del suo calore, del contatto carnale che lei stessa – in modo inequivocabile – stava permettendo, forse cercando. In alcune immagini si vedeva il suo bacino spinto all’indietro, perfettamente aderente a corpi che la seguivano nel ritmo, nel battito, nel desiderio. Il suo sedere, scolpito e flessuoso, si intuiva in tutta la sua energia, e in uno degli scatti centrali era evidente come stesse danzando appoggiata con forza su un’erezione chiaramente visibile attraverso i pantaloni del suo partner di quel momento.
Lorena sentì un’ondata improvvisa salirle dalle viscere, una specie di pressione calda che la colse impreparata. Non era solo sorpresa, né semplice eccitazione. Era qualcosa di più profondo, viscerale, un risveglio che non passava più per la testa, ma per il corpo. Una vampata umida le si accese tra le gambe, e solo allora si rese conto che la stoffa che premeva contro il suo sesso non era quella degli slip abituali, quelli che indossava senza pensarci, automatici, quotidiani. Era più sottile, più leggera, più invadente. Un tanga. Non ricordava nemmeno di averlo scelto quella mattina. Forse era rimasto dalla sera prima, forse lo aveva infilato in un momento di distrazione. O forse, sotto sotto, voleva sentirsi così.
In quel momento, ne percepì la forma precisa, il filo sottile che le divideva i glutei e la piccola striscia umida già completamente inzuppata di sé. Chiuse le cosce istintivamente, come per trattenere quel piacere che stava dilagando senza permesso, e le labbra si schiusero in un respiro che non riuscì a contenere. Lo sguardo tornò alle immagini, che ora le sembravano ancora più intime, più sue. Le rivedeva e si rivedeva, come se fossero memorie rubate da qualcuno che la conosceva meglio di quanto fosse disposta ad ammettere.
Mercoledì mattina, tra una riunione e l’altra, comparve nella sua casella di posta una mail dall’ufficio eventi internazionali dell’azienda. L’oggetto era neutro, ma bastò un colpo d’occhio per cogliere l’essenziale: Itinerario operativo – Convention di Dublino.
Lorena la aprì senza fretta, ma già con il nodo in gola che aveva sentito stringersi nei giorni precedenti. Il contenuto era dettagliato, come sempre: voli prenotati, orari, indirizzi, contatti, accreditamenti.
Ma fu una frase verso la fine a catturarle l’attenzione come un gancio:
“Per la serata ufficiale di venerdì è richiesto abito da sera.
Laddove i partecipanti non ne fossero provvisti, si prega di comunicarlo tempestivamente per poter procedere con l’assistenza sartoriale dedicata.”
Non ci pensò due volte.
Cliccò su “rispondi” e digitò un messaggio semplice, asciutto, che nascondeva a malapena un improvviso fremito di curiosità:
Sì, necessito di supporto per l’abito. Grazie.
La risposta arrivò nel giro di un’ora, confermando che al suo arrivo a Dublino, la sera del giovedì, sarebbe stata accompagnata direttamente presso l’atelier convenzionato per la selezione e l’adattamento dell’abito. Tutto a cura dell’organizzazione. Tutto per lei.
Sola.
Giovedì, quando atterrò all’aeroporto sotto un cielo denso e grigio, trovò ad attenderla un’auto scura con autista. Nessun altro dirigente, nessun gruppo. Soltanto lei.
Il tragitto durò poco, silenzioso. Dublino le scivolò accanto con le sue luci fredde e le vie strette. Il quartiere dove si fermarono era elegante, discreto. La vetrina dell’atelier senza insegne appariscenti, solo una porta lucida e un numero inciso nel metallo.
Fu accolta da una donna dai modi affilati e un inglese preciso.
Le chiesero di accomodarsi in una sala privata, dove le offrirono un tè che non toccò.
Poi, con la naturalezza di chi svolge un gesto antico, le chiesero di spogliarsi.
Lorena non esitò.
Sfilò giacca, camicia, pantaloni, rimanendo in tanga e reggiseno bianco. Non c’era volgarità in quel gesto, ma una strana forma di resa: lì non era né dirigente né osservatrice, solo corpo da vestire.
Le mani esperte delle sarte cominciarono a lavorare attorno a lei con discrezione: prendere misure, segnare appunti, passare centimetri e spilli.
Le dita le sfioravano appena le scapole, le curve dei fianchi, la linea della vita, la parte alta delle cosce, la cucitura invisibile dove il tanga spariva tra i glutei.
Nessuna invadenza, ma nemmeno freddezza.
Lorena, in piedi, al centro della sala con pareti grigio perla, si lasciava fare.
E per lunghi minuti, il suo corpo tornò al centro.
Non per desiderio.
Non per piacere.
Ma come materia viva, come qualcosa che finalmente riceveva attenzione.
Quando tutto fu finito, le fu detto che l’abito sarebbe stato consegnato direttamente in camera il giorno dopo, in tempo utile per la serata ufficiale.
Rientrò in albergo con la mente spenta, il corpo ancora avvolto da una strana tensione, né scomoda né erotica, ma quasi rituale.
Ma fu nel momento in cui chiuse la porta della stanza e si ritrovò sola che il pensiero la colpì con forza.
Era venerdì.
Quella sera.
La sera.
E lei non avrebbe potuto essere lì.
Non avrebbe potuto ballare, né cercarlo, né sentirlo premere dietro di sé tra la folla.
Non ci sarebbe stato nessun tanga invisibile sotto una gonna troppo stretta.
Nessun contatto rubato.
Nessuna mail il lunedì.
Il vuoto si fece denso, quasi fisico.
Ma non si lasciò schiacciare.
Non lei.
Si sdraiò sul letto ancora vestita, lo sguardo fisso al soffitto.
E si concesse un pensiero che, solo pochi giorni prima, sarebbe stato impensabile.
Il venerdì successivo, sarebbe tornata.
E non avrebbe solo ballato.

Fu un istante lungo e sospeso, una vertigine. Ma venne spezzata da un dettaglio che, solo un minuto dopo, le trafisse lo stomaco con la stessa precisione del desiderio.
La convention.
Aprì l’agenda con uno scatto, quasi sperando di essersi sbagliata. Ma no: venerdì prossimo, orario già bloccato, intervento fissato, scaletta ufficiale. Una presentazione pubblica, davanti ai vertici internazionali dell’azienda. Non un evento da delegare, non qualcosa da evitare. Sarebbe dovuta essere la sua consacrazione professionale, e invece, in quel momento, le sembrava una condanna.
Il contrasto fu brutale. Il tanga umido sotto il completo rigido, le immagini ancora aperte sullo schermo e la certezza che il venerdì successivo non sarebbe potuta tornare in pista, non avrebbe potuto cercarlo, né danzare per lui, per sé, per quella parte di sé che finalmente aveva ripreso a respirare.
Chiuse il portatile lentamente, quasi con rispetto, come si chiude un diario segreto che ha appena svelato troppo.
Il giorno seguente si aprì con la tensione tipica degli eventi internazionali: il cielo di Dublino era di un grigio lattiginoso, l’aria pungente, e l’agenda della giornata già piena fino all’orlo. Lorena si era svegliata presto, con un’energia che non sentiva da tempo, come se il corpo, nonostante le poche ore di sonno, sapesse che quella sera avrebbe contato.
La mattinata fu un susseguirsi continuo di riunioni e incontri con colleghi e referenti provenienti da ogni parte del mondo. Le sale conferenze dell’hotel erano state allestite con una precisione impeccabile, tutto scorreva veloce, misurato, come una macchina ben oliata.
Durante un incontro operativo con il reparto IT, le fu consegnato un nuovo cellulare aziendale: design minimale, pelle nera, elegante. Era già configurato, con la mail sincronizzata in tempo reale. Non dovette fare nulla: tutto era già pronto.
Lorena lo prese tra le mani senza mostrare alcuna reazione, ma dentro qualcosa le pizzicò il basso ventre. Ogni messaggio che sarebbe arrivato, l’avrebbe letto senza filtri, senza ritardi. E l’idea che potesse arrivare proprio quella mail, sul nuovo schermo, la fece stringere leggermente le cosce sotto il tavolo.
Poco prima dell’ora di pranzo, durante una pausa, un’assistente organizzativa le comunicò con tono discreto che, per la serata di gala, era previsto un servizio di bellezza dedicato esclusivamente alle ospiti femminili.
Trucco, manicure, capelli: tutto curato da uno staff selezionato. L’invito era formale, ma la proposta sottintendeva qualcosa di più: quella sera ogni donna avrebbe dovuto essere al massimo del proprio potenziale.
Lorena annuì, quasi distrattamente, ma sentiva il cuore battere un po’ più forte. Non per l’occasione. Non per i vertici aziendali. Perché stava cominciando a sentire, in profondità, che il corpo che stava preparando non era solo una forma da presentare: era il suo. Di nuovo. E lo stava reclamando.
Nel tardo pomeriggio, poco dopo le diciotto, entrò nella suite riservata al servizio di preparazione. L’aria era profumata di cipria e muschio bianco, le tende leggere lasciavano entrare una luce dorata e diffusa. Tutto sembrava pensato per far sentire ogni donna al centro.
La truccatrice le fece cenno di sedersi. Lo specchio, grande e retroilluminato, le rifletteva il viso stanco e ancora privo di filtri. Lorena lo guardò senza paura. Non aveva bisogno di cambiare. Solo di rivelare.
Le mani della professionista iniziarono a lavorare.
Le sopracciglia furono ridefinite, la linea armonizzata con precisione millimetrica, lasciando al volto una nuova forza, più nitida. Sugli occhi scelse toni caldi e profondi: un ombretto porpora e ramato, sfumato all’esterno da un velo d’ambra che apriva lo sguardo con eleganza.
Poi venne l’eyeliner, nero, deciso, tracciato con una coda netta e allungata, senza esitazioni.
Le ciglia, incurvate e caricate, si allungarono con grazia, rendendo lo sguardo magnetico, ipnotico.
Sotto gli zigomi, un tocco di phard rosato aggiungeva vita senza alterare i lineamenti. Il fondotinta, leggero come un soffio, uniformava senza coprire, lasciando la pelle naturale, setosa, ma ancora vera.
Infine, le labbra.
La truccatrice scelse un rosso pieno, laccato, lucidissimo, con una sfumatura appena blu nel sottotono. Lo stese con il pennellino più fine che aveva, in un contorno perfetto. Il risultato fu potente. Nessuna sbavatura. Nessun compromesso. Le labbra sembravano parlare da sole.
Le mani passarono alle unghie. Rosso fuoco. Uguale. Preciso. Alle mani e ai piedi. Ogni gesto ripeteva lo stesso messaggio: precisione, desiderio, consapevolezza.
Infine, i capelli. Le chiesero che acconciatura preferisse. Lorena si guardò per un istante e rispose con voce ferma:
— Lisci. Sciolti. Lunghi sulle spalle.
Le ciocche vennero regolate, poi stirate con cura, passate con pettini a denti larghi, oliate con un’essenza sottile. Quando la piega fu terminata, i capelli scendevano morbidi e lucenti, fluenti come seta, sfiorando la clavicola, inondando le spalle con grazia e sensualità.
Quando si alzò e si guardò, per un momento non si riconobbe.
Ma non in senso negativo.
Era lei. Solo più nitida. Più vera. Più viva.
E in quell’unico istante, davanti allo specchio, con le labbra rosso fuoco, le ciglia folte e i capelli sciolti, comprese ogni cosa:
tutto questo era per lei.
Tornò in camera in silenzio, il corridoio dell’hotel sembrava vuoto, come se tutto fosse stato messo in pausa per lasciarle spazio. Nessun passo, nessuna voce. Solo la porta della sua stanza, chiusa, e sopra al letto una scatola piatta, lunga, impeccabilmente rifinita, legata con un nastro di raso nero. Sapeva cosa c’era dentro. Lo sentiva sulla pelle ancora prima di toccarlo.
Sciolse il nastro, fece scivolare via il coperchio e si trovò davanti al rosso più vivo che avesse mai visto. Non un rosso qualunque. Era fuoco liquido, seta pura, tesa e lucida come l’acqua di un lago al tramonto. Lo srotolò con cura, lasciando che la stoffa le scorresse sulle dita: sottile, ma dal peso deciso, pensato per aderire, accarezzare, dominare il corpo. Il taglio seguiva linee nette, decise: una scollatura profonda ma bilanciata, uno spacco elegante lungo la gamba sinistra, e — sulla parte posteriore — un nastro interno, cucito all’altezza delle scapole, che avvolgeva la schiena e, passando attraverso un occhiello nascosto, tendeva l’abito in avanti, fino al ventre, costringendolo ad aderire al corpo con una precisione quasi sensuale.
Si spogliò senza fretta. Restò in piedi, solo con il suo completo intimo bianco. Fece per infilare l’abito, ma si fermò. Tornò allo specchio.
Il riflesso la bloccò a metà gesto: il tanga bianco, di cotone, spezzava completamente l’equilibrio del vestito. Era troppo visibile, troppo innocente. Scosse la testa, senza nemmeno pensare. Aprì il cassetto dove aveva riposto i cambi per il viaggio e ne tirò fuori uno rosso, dello stesso tono dell’abito, sottile, teso, quasi invisibile. Lo indossò. Solo allora si rese conto, chinandosi leggermente, che il suo cespuglio era rimasto troppo a lungo dimenticato. Un dettaglio non da poco. Lì, in quel momento, ne prese nota mentalmente: appena rientrata a casa, avrebbe risolto.
Ma ora c’era un’altra urgenza.
Il pensiero dei collant che aveva in valigia — classici, coprenti, inutilizzabili sotto quell’abito — la fece sussultare. Prese il telefono, compose il numero del servizio concierge e con tono fermo ma cortese chiese ciò che le serviva:
«Buonasera, avrei bisogno di un paio di autoreggenti nere, 10 denari, con riga posteriore, taglia seconda. Sì. Il prima possibile, grazie.»
Dieci minuti dopo, una scatola sobria in cartone opaco veniva lasciata davanti alla porta. Le calze erano perfette. Sottili, sensuali, di quelle che si appoggiano alla pelle come una carezza. Le indossò con gesti misurati, attenta a ogni movimento. Le righe correvano diritte lungo i polpacci e salivano dritte fino al bordo nascosto sotto la gonna. Giuste. Giustissime.
Poi fu il momento dell’abito.
Lo fece scivolare su di sé come un rituale. La seta si avvolse ai fianchi, salì lungo il busto, afferrò le curve del seno e si tese, perfettamente, lungo il ventre grazie a quel nastro invisibile. Quando chiuse il gancio dietro al collo, tutto sembrò trovare posto. Tutto sembrò perfetto.
Davanti allo specchio, non c’era bisogno di parole.
Lorena si guardò. E si piacque.
Per la prima volta, profondamente.
La sala era gremita, illuminata da una luce soffusa che dava risalto ai volti attenti e ai loghi proiettati sulle pareti laterali. I tavoli erano stati disposti a semicerchio attorno al palco, dove si avvicendavano dirigenti e responsabili da tutto il mondo. Lorena era seduta in prima fila, fianco a fianco con manager dai cognomi impossibili, sorrisi perfetti e abiti sartoriali.
Nel brusio delle lingue intrecciate, riconosceva l’inglese, il francese, il tedesco, ma tutto le scivolava addosso come rumore ovattato. Percepiva solo la tensione che cresceva. Il battito regolare nel petto. Il richiamo del suo momento che si avvicinava.
Presentazioni, discussioni, dibattiti. Interventi di rilievo, uno dopo l’altro. Ma poi, finalmente, fu chiamata.
Il suo nome risuonò chiaro in sala, scandito con accento straniero. Applausi, sguardi rivolti verso di lei. Si alzò con grazia controllata. L’abito rosso si mosse insieme a lei, fluido, impeccabile. Ogni passo era una dichiarazione di presenza.
Salì sul palco. Il leggio in legno chiaro le faceva quasi da cornice, la luce la investiva frontalmente e l’abito sembrava brillare. Prese fiato e cominciò. Parlò con voce ferma, precisa. Parlò di mercati, di strategie, di proiezioni e visioni future. Eppure, sotto quella voce professionale, vibrava qualcosa di diverso. Una consapevolezza nuova.
Mentre enunciava i risultati raggiunti, notò, con la coda dell’occhio, il display del telefono aziendale accendersi brevemente. Una notifica. Un messaggio. Ma il suo sguardo restò fisso sul pubblico. Nulla l’avrebbe distratta.
Concluso l’intervento, scese dal palco tra gli applausi, i complimenti, strette di mano, occhi puntati su di lei. Per un istante, si chiese quanto di quell’entusiasmo fosse indirizzato alla manager o alla donna, quanto avesse contato il contenuto del discorso e quanto il modo in cui lo aveva incarnato. Ma non importava. Quella era la sua serata. Il punto d’arrivo. O forse, l’inizio di qualcosa.
Quando finalmente si ritrovò da sola, accanto a una colonna, mentre i camerieri iniziavano a far circolare calici e sorrisi, ricordò il telefono.
Una mail.
Oggetto: Venerdì.
Il cuore accelerò di un battito secco. Aprì.
"Adesso sì che cominciamo a ragionare.
Sei una vera visione.
La femminilità fatta donna.
La vera sensualità."
Tre foto.
Tre angolazioni diverse, rubate dal pubblico, durante il suo discorso. Una la ritraeva di profilo, con il busto leggermente proteso in avanti, la scollatura appena percettibile sotto il leggio. Un’altra era scattata da lontano, con l’intera figura inquadrata: l’abito che seguiva perfettamente le curve, la linea dello spacco, la tensione del tessuto sul ventre. L’ultima — più ravvicinata — colse il momento in cui lei si girava verso lo schermo: lo sguardo tagliente, il sorriso appena accennato, e i capezzoli tesi sotto la seta.
Un colpo al basso ventre.
Come se quelle parole e quelle immagini avessero acceso una miccia che da ore covava sotto la superficie.
Lorena si sentì improvvisamente consapevole dell’umidità tra le cosce. Una sensazione carnale, pulsante, non confondibile col sudore.
No, era desiderio. Desiderio puro.
L’essere vista.
L’essere cercata.
L’essere voluta.
Lui era lì.
Non sapeva come, non sapeva dove, ma ne era certa.
Lo sentiva sulla pelle, come un’eco invisibile.
Quel messaggio non era stato mandato da lontano.
Era stato scritto con gli occhi su di lei.
E lei, quella sera, voleva incrociarli.
Si mosse con grazia controllata, lasciando il calice mezzo pieno sul vassoio di un cameriere di passaggio. Raggiunse il bordo della sala, scegliendo un punto strategico da cui dominare ogni movimento, ogni volto, ogni gesto. Si appoggiò con nonchalance a una colonna in marmo chiaro, la seta rossa che seguiva la curva della schiena, la gamba scoperta fino a metà coscia quando il tessuto si muoveva.
Gli occhi cominciarono a scrutare.
Volti. Sorrisi. Sagome.
Cercava uno sguardo. Quel sorriso.
Poi, per un istante fugace, lo vide.
Un accenno. Un’ombra curvata agli angoli della bocca.
Un sorriso che sparì appena colto.
Si spostò. Lo perse. Lo ritrovò. Di nuovo sfuggente.
Il cuore prese a martellare, non per ansia ma per desiderio.
Desiderio di verità. Di carne. Di conferme.
Avanzò tra gli ospiti, in quella giungla di abiti scuri e scollature illuminate.
Un passo alla volta. Come a seguire una traccia invisibile.
Nel punto in cui lo aveva appena intravisto, si trovò di fronte due uomini asiatici che si prodigavano in inchini e sorrisi, e nei loro occhi la trasparenza del desiderio più banale: lo sguardo piantato nella sua scollatura, come se potesse restituire loro qualcosa.
Ma non era quello che cercava.
Sentì lo sguardo prima di vederlo.
Una scia di calore sulla nuca.
Una presenza che bruciava a distanza.
Si voltò.
E lo vide.
Era lui.
Un volto non sconosciuto. Un collega della sede italiana.
Si chiamava… lo sapeva. Il nome era lì, sulla punta della lingua.
Alto, robusto, capelli castano chiari pettinati all’indietro con ordine distratto,
occhi verdi come un prato dopo la pioggia, intensi, vivi, fissi su di lei.
L’abito blu notte lo fascia con discrezione elegante, ma non maschera il fisico scolpito da chi conosce la fatica della ghisa e la costanza del gesto.
Lorena lo raggiunse. Non un sorriso. Non un’esitazione.
Solo fiamma negli occhi.
Si fermò a un passo da lui, il rosso del vestito che sembrava vibrare.
La voce le uscì morbida, ma affilata.
«Continui a stalkerarmi o vuoi presentarti finalmente?»
La sua voce fu come seta su vetro. Calda, controllata, con un accento che tradiva ironia e desiderio in parti uguali.
«Ciao Lorena. Ce n’è voluto di tempo per vederti finalmente… femmina.»
Una pausa.
Poi: «Io sono Chris, per gli amici. IT, per i colleghi. Ti ho dato il cellulare stamattina, ricordi?»
Il tempo si stirò tra loro.
Lorena non riuscì a rispondere subito.
Lo guardò. Lo scrutò.
Quel volto lo aveva già visto, sì… ma non così.
Non con quegli occhi che la spogliavano senza volgarità, con quella postura sicura che non cercava conferme, con quella calma di chi sa di essere desiderato tanto quanto desidera.
Era bello. Era forte. Ed era sicuro.
Tutto ciò che da troppo tempo mancava nella sua vita.
E mentre lo osservava, si rese conto che era già bagnata.
Non sudore. Non emozione.
Desiderio liquido. Puro. Spudorato.
«Andiamo a fumare?» gli chiese, quasi a voler spezzare il filo teso tra loro.
Lui sorrise. Un lampo bianco in mezzo a quelle labbra scolpite.
«Non fumo.»
«Neanch’io», ammise lei, e gli prese la mano.
Il gesto fu naturale, fluido, come se non potesse essere altrimenti.
Lo trascinò con sé, fuori dalla sala, verso il balcone esterno della sala congressi.
La porta si richiuse dietro di loro con un sussurro ovattato.
L’aria fresca dell’Irlanda le arrivò addosso come una carezza brusca.
Rabbrividì. La pelle si increspò all’istante.
I capezzoli, già sensibili sotto la seta tesa del vestito, divennero punte dure, dolorosamente vive.
Anche le cosce tremarono appena. Il corpo intero tese i muscoli in una vibrazione che nulla aveva a che fare con il freddo.
Lui non parlò.
Fece un passo avanti, con la naturalezza di chi non chiede, ma offre.
Tolse la giacca con un gesto lento, preciso, e gliela posò sulle spalle.
Poi la cinse da dietro.
Il suo corpo solido e caldo a contatto con la schiena nuda di lei.
Le mani che si posavano leggere sulla vita, senza stringere.
Solo presenza.
Lorena chiuse gli occhi.
Inspirò forte.
E si concesse, finalmente, di sentire.
Lei si voltò appena, il volto all’indietro, gli occhi che cercavano i suoi.
Poi lo afferrò per la nuca con una sola mano, decisa, come si afferra una certezza.
E lo baciò.
Non fu un bacio languido.
Fu una prova. Una sfida.
Una richiesta muta: dimmi se anche tu lo vuoi.
Lo voleva sentire. Lo voleva sapere.
Ma lui si sottrasse.
Con lentezza. Con dignità.
Le posò una mano sul fianco e le sussurrò, la voce ruvida dal contrasto tra desiderio e controllo:
«Lorena… sei bellissima.
Ma io non sono libero.»
Lei lo fissò per un lungo istante.
Non c’era sorpresa nei suoi occhi, solo determinazione.
Allora si girò del tutto, lasciò scivolare la giacca giù dalle spalle. Cadde sul pavimento in silenzio.
Con un gesto deciso prese il suo viso tra le mani, lo avvicinò al proprio.
«Non ti voglio sposare», mormorò.
«Ma questa notte la devi passare con me.»
Le parole si frantumarono tra le loro labbra.
Il bacio che seguì non era più un test.
Era una promessa.
Un’anticipazione.
Lunga. Densa.
Sensuale e potente.
Le lingue si cercarono, si sfiorarono, si rincorsero come corpi già nudi.
Le mani esploravano senza ancora osare.
Ma l’urgenza era lì, viva, palpitante, vibrante tra le gambe di lei, tesa tra le cosce forti e il ventre che sembrava stringersi su se stesso.
Il bacio si sciolse con lentezza, le labbra ancora umide, i respiri intrecciati.
Lui le mise le mani sui glutei con decisione, stringendola contro di sé.
Sentì sotto le dita la forza elastica dei muscoli e la morbidezza della carne.
Il suo desiderio era palese, impossibile da nascondere.
«Sei stupenda», sussurrò, la voce roca.
«Vieni in camera mia.»
Lorena sostenne il suo sguardo.
Non c’era esitazione, né gioco. Solo un patto da siglare.
«Solo se ti fai la barba. Con la lametta.»
Lui la fissò, interdetto. Ma quegli occhi verdi non mentivano.
Non era un capriccio.
Annuì.
Quasi corsero lungo il corridoio, con passi affrettati e dita intrecciate.
Le risate trattenute, i mormorii, i baci rubati tra le pareti rosse e oro del piano.
Dentro l’ascensore, si divorarono.
Le bocche in lotta, le mani impazienti.
Lui infilò le dita sotto la camicia di tulle, ne accarezzò la schiena nuda, i fianchi.
Lei lo baciò sul collo, sulle guance, lo morse piano.
La tensione elettrica li scosse fino all’ultimo piano.
Appena entrati in camera, lui la spinse contro il muro.
Con tutto il corpo.
Il peso di lui su di lei, l’alito caldo all’orecchio, il bacino che premeva forte, inequivocabile.
Lorena sussultò, il respiro spezzato.
L’abito si arrese alle mani di lui.
Scivolò lungo il corpo con un fruscio appena percettibile, accarezzandole le cosce, i polpacci, fino al pavimento.
Rimase in tanga rosso e autoreggenti nere con la riga.
Il seno nudo, i capezzoli tesi e scuri, la pelle d’oca ovunque.
Il tanga le si stringeva tra i fianchi, sottile, ma non abbastanza da coprire tutto.
Ciuffi del suo pube, scuri, morbidi, facevano capolino.
Non li aveva curati. Non si aspettava nulla, non quella sera.
Lo guardò.
Feroce. Sicura.
«Vai a prendere schiuma da barba e rasoio.»
Quando tornò dalla toilette con il rasoio e la schiuma, la trovò lì.
Distesa sul letto come un invito che non ammetteva rifiuto.
Nuda, ad eccezione delle autoreggenti nere con la riga e dei tacchi a spillo che ancora slanciavano le sue gambe atletiche.
La schiena dritta, le cosce divaricate con pudore solo apparente.
Lo guardò.
Nel volto c’era una traccia di imbarazzo, ma negli occhi brillava un desiderio fiero.
«Perdonami…» sussurrò, con un filo di voce.
«Non ero pronta a… te.
Ho bisogno di un piccolo intervento di… sfoltimento.
Mi daresti una mano?»
Lui si fermò, la guardò, e qualcosa si accese nel suo sguardo.
Qualcosa di più profondo della lussuria.
Un misto di desiderio, rispetto e adorazione.
«Ora ti do una mano», disse, poggiando lentamente la schiuma e il rasoio sul comodino.
«Ma per il resto della notte… ti darò ben altro.»
Si chinò su di lei con cura.
Come se si apprestasse a svolgere un rito.
Non c’era fretta nei suoi movimenti.
Né ansia.
Solo attenzione, dedizione totale.
Prese un piccolo asciugamano, lo immerse nell’acqua calda, e glielo appoggiò con dolcezza sulla pelle.
Lorena chiuse gli occhi.
Il calore le distese i nervi, le aprì i pori, le sciolse il respiro.
Sentì il suo tocco come una carezza, una promessa.
Lui cominciò con gesti lenti, leggeri, precisi.
Ogni movimento era misurato. Ogni sguardo, un battito.
Ogni respiro, un crescendo.
Lorena sentiva il cuore battere contro le costole,
le cosce fremere a ogni contatto,
i muscoli contrarsi,
e la pelle cedere.
Ad ogni passaggio della sua mano, del panno caldo, del rasoio —
non c’era solo un tocco fisico.
C’era una resa mentale, emotiva, erotica.
Non poteva trattenere del tutto i sospiri, le contrazioni leggere del ventre, quel tremito che la percorreva a ogni gesto.
Poi fu lei, con la voce rotta, a bisbigliare:
«Toglilo tutto.
Dal basso ventre…
fino all’ultimo angolo di me.»
E lui lo fece, in silenzio, l’alternarsi delle mani che spargevano la schiuma e del rasoio che passava a togliere qunto la civiltà aveva reso inutile, il passaggio dell’asciugamano e il nuovo strato di schiuma, il rasoio passato contro il verso del pelo, lei era umida, si contorceva, lui si lamentava “cerca di stare ferma”, lei mugolava, si bagnava, si apriva per lui. al successivo passaggio dell’asciugamano non resse, gli bloccò la mano sul suo punto più sensibile ed esplose in un orgasmo che la scosse dalla testa ai piedi, mugolando contorcendosi bloccandolo, poi lo guardò con gli occhi fissi nei suoi.
Quando finì, le passò ancora un panno caldo.
Poi si alzò, la guardò come si guarda qualcosa che non si crede di meritare,
e le baciò il basso ventre con una dolcezza che sapeva di resa.
Lorena era distesa, nuda, senza più nulla tra lei e lui.
Non solo nella carne.
Ma nell’anima.
Lorena si alzò dal letto lentamente, come se ogni fibra del suo corpo stesse ritrovando il proprio equilibrio, la propria forma. Non c’era fretta in quei movimenti, ma nemmeno esitazione: era il passo deciso di una donna che aveva appena abbattuto un confine invisibile, e ora lo lasciava alle spalle, nuda, con le autoreggenti nere ancora salde sulle cosce e i tacchi che scandivano lievemente ogni appoggio sul parquet.
Attraversò la stanza con grazia, la schiena dritta, i fianchi che ondeggiavano appena. La luce calda della lampada sul comodino si allungava verso di lei come una lingua d’ambra, proiettando la sua figura in controluce e restituendo a Chris l’immagine mozzafiato di un corpo che sembrava disegnato per la tentazione. Il profilo netto delle scapole, le curve morbide della vita che scendevano fino ai glutei alti, pieni, ora completamente visibili nella loro nuda verità. Ogni dettaglio parlava di lei, del rigore e della bellezza, dell’energia contenuta in quella figura atletica che non rinnegava mai, ma che stasera si lasciava finalmente guardare.
Arrivata davanti allo specchio, si fermò e si osservò in silenzio. Il respiro era lento, profondo, e accompagnava il lento salire e scendere del petto. Le mani lisciarono istintivamente i fianchi, come se volessero imprimersi la memoria di quel momento. C’era fierezza nel suo sguardo, e una consapevolezza nuova: quella di essere una donna desiderata, e di desiderare a sua volta. Per un attimo il mondo fu solo il riflesso davanti a lei e lo sguardo di lui dietro di lei.
Poi si voltò.
Il gesto fu deciso, come un sipario che si apre. Le gambe si aprirono leggermente in una posa perfetta, la luce ora le colpiva frontalmente, disegnandole i muscoli tesi e la pelle ancora percorsa da un brivido sottile. Mise le mani sui fianchi, gli occhi fissi nei suoi, e con un sorriso appena accennato, carico di ironia e promessa, lasciò cadere le parole.
«Cosa dici... posso andare per una notte di passione?»
Chris si alzò dal letto con un gesto deciso, gli occhi sempre fissi su di lei. Ogni centimetro della sua pelle sembrava reagire alla presenza di Lorena, alla luce calda che accarezzava i suoi fianchi, ai tacchi ancora indosso, a quelle autoreggenti che sembravano essere lì solo per allungare l’attesa, per moltiplicare il desiderio. Mentre avanzava, cominciò a spogliarsi con movimenti rapidi e sicuri: la camicia scivolò via seguita da pantaloni e calzini.
Restò solo con i boxer scuri, tesi sull’evidente rigonfiamento che non lasciava spazio a dubbi. Il corpo di Chris non era quello scolpito da uno sfoggio di vanità, ma di un uomo che si prendeva cura di sé con disciplina: spalle ampie, petto compatto, addome definito quanto basta, vene lievemente marcate sugli avambracci e sui fianchi. Ma più di tutto, era il suo sguardo a parlare. Caldo, acceso, affamato.
Lorena sorrise.
Non fu un sorriso complice, né di compiacimento: fu un sorriso che nasceva da dentro, da quel luogo segreto in cui si deposita la certezza di essere finalmente vista. Davvero vista. Il desiderio che lui non si preoccupava nemmeno di nascondere le arrivava addosso come un'onda, e il corpo rispose prima ancora che lei potesse pensarlo.
Fece un passo verso di lui. Solo uno. Poi, lentamente, si inginocchiò.
Le gambe si piegarono con grazia, senza mai perdere l’eleganza naturale che la distingueva in ogni gesto. Portò le mani dietro la schiena, le dita intrecciate come in un gesto di resa voluta, cercata. Gli occhi alzati verso di lui, brillanti di eccitazione e dominio sottile. E infine la bocca, socchiusa, tesa in un invito silenzioso che non lasciava spazio ad ambiguità.
Chris restò immobile per un lungo istante, come se quell’immagine lo avesse inchiodato alla realtà di ciò che stava per accadere. Davanti a lui, inginocchiata sul tappeto, con il seno alto e sodo in primo piano, con lo sguardo deciso e la bocca aperta, Lorena non era più soltanto la collega brillante, né la donna ammirata sul palco. Era qualcosa di più.
Chris fece un passo avanti, lento, controllato, ma carico di tensione. La distanza che li separava si ridusse fino a sparire, e ora il suo corpo torreggiava sopra quello di lei, inginocchiata con le mani ancora strette dietro la schiena, in un gesto che amplificava la resa e l’attesa.
Il rigonfiamento sotto il tessuto scuro dei boxer era a un respiro dal suo volto. Lorena inclinò leggermente il capo, il sorriso ancora sulle labbra, poi sporse la bocca per sfiorarlo con un primo bacio lento, morbido, quasi casto. Ma non c’era nulla di casto in quel gesto. Il suo respiro caldo attraversava il tessuto, e poi le labbra tornarono, aprirono appena, lasciarono che i denti accarezzassero il bordo, una carezza sottile, un morso delicato.
«Dammelo» sussurrò, senza abbassare lo sguardo.
Chris non disse nulla. Fece solo quello che era inevitabile: afferrò i boxer e li lasciò cadere, liberando la propria erezione, tesa e pulsante, che scivolò proprio accanto al viso di Lorena, sfiorandole la guancia. Lei chiuse gli occhi per un istante, sentendo il calore, il peso, l’impazienza di quel desiderio nudo.
Poi aprì gli occhi e cominciò a baciarlo. Prima alla base, un bacio lento, rispettoso. Poi lungo il lato, la lingua che lo seguiva piano fino alla sommità. Ogni gesto era studiato, ma sembrava spontaneo, come se il suo corpo sapesse cosa fare da sempre. Lo accarezzava con la bocca come si fa con qualcosa che si brama, che si attende, e che ora si vuole conoscere in ogni dettaglio.
La durezza, la tensione sotto la lingua le confermavano ciò che già sapeva: era desiderata. Con forza. Senza dubbi.
Lorena inclinò il capo quel tanto che bastava a prendere il suo sesso tra le labbra, lentamente, con naturalezza. Lo accolse in profondità, sentendone il calore, la tensione, la consistenza viva e pulsante scivolarle nella bocca. Le labbra si serrarono intorno all’asta con una precisione che non lasciava spazio al caso: voleva dargli piacere, tutto il piacere possibile. Voleva sentirlo reagire, sentirlo vibrare per lei.
Cominciò a succhiare con lentezza, alternando movimenti profondi a piccoli scatti della lingua che sfioravano le vene tese, la punta, la base. Ogni gesto era studiato ma fluido, pieno di quella consapevolezza che solo una donna come lei, così padrona della propria sensualità, poteva esercitare con grazia e potenza insieme. Sapeva bene che ogni suzione, ogni tocco della lingua, ogni piccolo affondo produceva onde di piacere che attraversavano il corpo di Chris come scosse sottili.
Lui abbassò le mani e gliele posò ai lati del volto, ma non guidò nulla. Non forzò. Non cercò di prendere il controllo. Era un gesto solo per esserci, per toccarla, per comunicarle — senza parole — che era lì, con lei, in lei. Le dita sfioravano i suoi capelli lisci, li accarezzavano lievemente, seguendo il ritmo naturale dei suoi movimenti.
I loro sguardi si incollarono. Lui la fissava con un’intensità che andava ben oltre l’eccitazione. Era qualcosa di più profondo. Lei ricambiò quello sguardo mentre continuava il suo gesto ritmico e sensuale, con la bocca che scivolava su di lui come una promessa mantenuta. Sentiva ogni reazione, ogni fremito, ogni sottile contrazione muscolare, e la cosa la eccitava quasi quanto il contatto stesso.
Lorena aumentò il ritmo, i movimenti divennero più profondi, le labbra più decise, la suzione più calda e insistente. Non era più solo un gesto di piacere: era volontà, desiderio, potere. Lo sentiva vibrare, sentiva ogni fibra del suo corpo irrigidirsi sotto le sue carezze. La battaglia silenziosa era in atto — lui cercava di resistere, trattenere il momento, rallentare l’inevitabile, ma il suo respiro spezzato e le dita che si aggrappavano ai suoi capelli raccontavano un’altra verità.
Chris gemette il suo nome, con un tono basso, teso, quasi supplice. Cercò di allontanarsi, di uscire da quella bocca che lo stava trascinando verso il punto di non ritorno.
Ma Lorena lo trattenne. Non con forza, ma con intenzione. Gli sguardi ancora incollati, gli occhi fermi nei suoi. Era una dichiarazione silenziosa: “Voglio tutto.”
E tutto fu.
Il piacere attraversò il corpo di lui come un’onda, potente, liberatoria, mentre lei lo accoglieva senza un gesto fuori posto, senza spezzare quel contatto, senza smettere di guardarlo. Era un gesto di dominio e di dono, un’intimità assoluta, un inizio travolgente per una notte che sarebbe stata molto più di un semplice incontro fisico.
Lorena si sollevò appena, si passò la lingua sulle labbra con lentezza, come a raccogliere gli ultimi frammenti di un momento perfetto, e sorrise. Un sorriso pieno. Soddisfatto. Femminile fino al midollo.
Chris la guardava senza parole.
Lorena si sollevò con grazia e si chinò su di lui, le mani ancora posate sui suoi fianchi. Lo baciò, stavolta con una passione diversa: matura, decisa, affamata. Le lingue si cercarono e si intrecciarono, e Chris non poté fare a meno di avvertire il sapore di sé nella sua bocca, un dettaglio che avrebbe dovuto imbarazzarlo, ma che invece lo accese ancora di più. Era un gesto consapevole, carnale, dominato dalla sicurezza di una donna che sapeva esattamente ciò che voleva.
La mano di lei non aveva mai lasciato il suo membro, e ora, mentre lo baciava, continuava a sfiorarlo, a toccarlo, con piccoli movimenti lenti e precisi che non lasciavano scampo al corpo stanco del maschio: era come se gli stesse trasmettendo un nuovo impulso, una nuova promessa.
Poi lo spinse delicatamente verso il letto, facendolo sedere al bordo. Con un movimento fluido, lo avvolse con il proprio seno. Le autoreggenti e i tacchi accentuavano le sue curve, ma fu il contatto caldo e morbido della sua pelle a stregarlo. Cominciò a massaggiare il suo sesso con i seni, stringendoli e lasciandoli scivolare, come in una danza lenta e ipnotica. Ogni movimento era misurato, sensuale, carico di una femminilità disarmante.
Chris si appoggiò all’indietro, incapace di distogliere lo sguardo da lei. I capezzoli sfioravano la sua pelle mentre Lorena lo teneva in tensione, senza fretta. Conosceva il ritmo giusto, sapeva leggere ogni reazione, ogni piccolo respiro spezzato, ogni muscolo che tremava.
E quando lo sentì nuovamente pronto per lei, pronta a guidarlo verso il secondo atto, sollevò lo sguardo. I suoi occhi verdi brillavano.
«Adesso — disse con voce bassa e calda — adesso voglio sentirti dentro.»
Lorena si staccò dal letto con grazia felina e, con la naturalezza di chi sa esattamente cosa sta facendo, si portò verso la parete. Lo specchio a figura intera la accolse, restituendole il riflesso di una donna fiera, desiderata, viva. Appoggiò le mani contro la superficie liscia, poi divaricò lentamente le gambe e arcuò la schiena, offrendo il suo corpo con una consapevolezza disarmante.
Chris si avvicinò da dietro, incantato da quella visione: la curva piena dei fianchi, le gambe toniche fasciate dalle autoreggenti, i tacchi che ne allungavano la linea. Le posò le mani sui fianchi e si spinse in avanti, con un gesto che univa dolcezza e determinazione. Il loro riflesso nello specchio era un quadro di desiderio e armonia.
Entrò in lei lentamente, con una carezza che si fece forza, come se volesse scolpire quel momento nella carne e nella memoria. Lorena chiuse gli occhi, poi li riaprì per guardare se stessa, e guardarli, in quella posa che rivelava tutto: il piacere, la resa, l’intimità più vera.
Le mani di lui salirono a cercarle i seni, li strinsero, li accarezzarono, mentre il ritmo delle spinte cresceva, trovando via via una potenza più decisa, più profonda. I loro gemiti si mescolavano nell’aria, a tratti smorzati da baci improvvisi, violenti, caldi. Lei si lasciava andare, sentendo salire quell’ondata, quel fuoco che le partiva dal ventre e le attraversava tutto il corpo.
Il primo orgasmo la colse con forza: le gambe tremarono, i muscoli interni si contrassero attorno a lui in un abbraccio profondo e bagnato, un piccolo urlo si fece strada tra i denti stretti e le labbra socchiuse. Ma lui non si fermò. Continuò, deciso, affamato.
La prese per i fianchi con decisione e la girò con la schiena sul muro, sollevandola dolcemente da quella posizione tanto audace quanto vulnerabile. Le mani scorsero lungo le sue cosce, poi con un movimento fluido le alzò una gamba, sostenendola contro il proprio fianco. Lei si lasciò fare, si abbandonò con fiducia, aggrappandosi alle sue spalle per trovare l’equilibrio, mentre lui tornava dentro di lei, con lo stesso desiderio ma con un’urgenza nuova.
Voleva guardarla. Voleva vedere il suo volto cambiare, sentire il calore del suo respiro mescolarsi al suo, assaporare ogni gemito, ogni fremito, direttamente nella sua bocca. E così fece. Le labbra si cercarono con impeto, i baci erano profondi, umidi, carichi di una passione che sembrava rimasta sopita per troppo tempo.
Lorena si perse in quella danza carnale, dove ogni movimento era preciso, ogni affondo più profondo, più consapevole. Sentiva la gamba sostenuta tremare leggermente, il sudore tra le scapole, il petto di lui premuto contro il suo. E ogni spinta, ogni carezza, la portava più in alto, la faceva vibrare in onde successive di piacere che si propagavano come un’eco senza fine.
Non sapeva più se era il suo corpo a cercarlo o il contrario, ma a quel punto non importava. Si fuse a lui, ancora e ancora, lasciandosi travolgere da altri orgasmi, intensi e traboccanti, che le fecero perdere il contatto con tutto ciò che era fuori da quella stanza.
E quando infine lui si abbandonò dentro di lei, col respiro spezzato e la fronte premuta alla sua, Lorena lo sentì: sentì la potenza del suo piacere, il calore, il rilascio. E lo accolse, con la stessa pienezza con cui aveva accolto tutto il resto di quella notte.
Rimasero stretti l’uno all’altra, sudati, affaticati, ma irrimediabilmente vivi. Appagati. Realmente uniti, almeno per quella notte.
Fu una notte lunga, densa di sussurri, di gemiti, di mani che cercavano e trovavano, di corpi che si rincorrevano nella penombra. Dormirono poco, quasi nulla. Ogni volta che le lenzuola si quietavano, un tocco, uno sguardo o semplicemente il respiro dell’altro riaccendevano il desiderio. Lorena non si era mai concessa così, ma non si era mai nemmeno sentita così pienamente donna. Non c’era vergogna, solo libertà.
Quando l’alba cominciò a filtrare timida attraverso le tende pesanti, si alzò con un sorriso. Raccolse i vestiti sparsi in silenzio, cercando di non svegliarlo. Lo guardò dormire un istante, disteso sul letto scompigliato, il corpo ancora percorso da una tensione che sembrava non spegnersi nemmeno nel sonno. Avrebbe potuto restare, rannicchiarsi accanto a lui e addormentarsi con la testa sul suo petto. Ma non era quello che voleva.
Aveva avuto ciò di cui aveva bisogno. Aveva reclamato un desiderio troppo a lungo represso, e ora lo portava dentro, come un segreto prezioso. Uscì dalla stanza leggera, coi tacchi in mano per non fare rumore. Il corridoio era silenzioso, l’hotel ancora immerso nel torpore dell’alba.
Una volta tornata in camera, si lasciò cadere sul letto con i vestiti tra le mani. Non si lavò subito. Rimase a lungo stesa, a godersi il ricordo ancora vivo sulla pelle, sulle labbra, tra le cosce.
Poi si alzò, prese il laptop e aprì la casella aziendale. Scrisse poche parole. Un messaggio secco, privo di formalità, diretto all’indirizzo interno di Chris.
Oggetto: [Nessuno]
Testo: What happens in Dublin, stays in Dublin.
Premette “invio” senza ripensamenti. Poi chiuse il portatile e andò a farsi una doccia, questa volta senza fretta. Il getto caldo le lavò via la notte, ma non il sorriso.
La sua vita, quella vera, forse stava iniziando proprio ora.

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scritto il
2025-07-16
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