In vetta
di
Ironwriter2025
genere
voyeur
La sala riunioni era illuminata da una luce bianca e netta, quella tipica delle grandi multinazionali, pensata per cancellare ogni ombra e tenere alta la soglia dell’attenzione. Le sedie in pelle scura, ordinate con precisione attorno all’enorme tavolo in vetro, erano tutte occupate. Dirigenti, consulenti, membri del CDA: tutti con lo sguardo rivolto a lei.
Lorena era in piedi accanto allo schermo spento del proiettore, le mani composte davanti a sé, lo sguardo limpido ma determinato. I suoi occhi verdi brillavano come non accadeva da tempo. Aveva appena ricevuto la comunicazione ufficiale: nuova dirigente e responsabile del reparto commerciale. Era il culmine di anni di impegno assoluto, di serate in ufficio, di voli all’alba e weekend passati a preparare presentazioni, invece che con qualcuno al proprio fianco.
Indossava il suo consueto completo da lavoro: tailleur pantaloni blu notte, taglio maschile e rigoroso, abbinato a una camicia di raso avorio, abbottonata fino all’ultimo bottone, il colletto rigido che le accarezzava il collo con discrezione. I capelli biondi, ordinati e lucenti, erano raccolti in una coda alta e tirata, lasciando libero l’ovale perfetto del volto. L’unica concessione a se stessa, a quella parte più nascosta e forse repressa della sua femminilità, era rappresentata dalle décolleté nere lucide, con tacco a spillo da dieci centimetri, che le slanciavano ulteriormente la figura e facevano risuonare un lieve ticchettio ad ogni passo sul parquet della sala.
Pur nel rigore dell’abito, il suo corpo si imponeva con naturalezza. Non era fasciato, né esibito, eppure i fianchi pieni, il seno generoso e la linea atletica delle sue gambe lasciavano intuire la forza sotto il controllo. Una femminilità autentica, composta, che sapeva di eleganza e consapevolezza.
Uno ad uno, i presenti si erano alzati per stringerle la mano, qualcuno si era lasciato andare a un breve applauso, altri avevano preferito un semplice cenno del capo, ma tutti – indistintamente – le riconoscevano il merito. Lei sorrideva con misura, abituata a non esagerare con l’entusiasmo, ma dentro di sé una voce urlava forte: ce l’avevi fatta. Finalmente.
Quando tutti si sedettero di nuovo, il CEO si rivolse a lei con tono pacato ma carico d’ammirazione:
“Lorena, da oggi questo reparto porta il tuo nome. Ma so già che lo porterai più lontano di quanto chiunque avrebbe immaginato.”
Il nuovo ufficio aveva ancora l’odore di legno lucido e pelle nuova. L’avevano fatto allestire in fretta, tutto secondo le direttive standard della sede centrale: pareti grigio chiaro, librerie sobrie, scrivania in vetro e metallo con finiture cromate. Alle sue spalle, un’intera parete era vetrata e dominava la città con distacco. Le luci sotto di lei si accendevano una a una, come stelle artificiali in una galassia che le sembrava sempre più lontana.
Lorena si chiuse la porta alle spalle con un gesto lento, quasi reverente. Si lasciò sfuggire un respiro profondo, come se avesse trattenuto l’aria per tutta la durata della cerimonia. Solo allora si permise di sedersi dietro quella scrivania: sua. Scivolò con la schiena fino a poggiare le scapole contro lo schienale in pelle, abbandonando il busto con un’eleganza studiata, controllata come ogni parte della sua giornata. Solo gli occhi si persero nel vetro davanti, oltre il riflesso della sua stessa figura.
Si sentiva felice, sì. Ma una felicità composta, razionale, quella che nasce dalla conquista di un obiettivo atteso, previsto, pianificato da anni. Il cuore non le batteva forte: le pulsava dentro un’eco silenziosa, come una vibrazione lontana, ovattata.
Aveva vinto. Ma a quale prezzo?
Le mattine al buio, con la città ancora silenziosa, le scarpe da corsa in mano e l’odore del caffè appena fatto. I dieci chilometri, sempre quelli, sempre alla stessa ora, per restare tonica, per disciplinare anche il corpo come aveva fatto con la mente. Ma soprattutto per non togliere tempo al lavoro. Il lavoro era sempre venuto prima. Sempre.
E poi le serate passate da sola in ufficio, le luci artificiali che le scavavano occhiaie invisibili, i file aperti uno dopo l’altro, le mail scritte e riscritte mille volte per non lasciare spiragli al dubbio, alla debolezza. Mentre le altre – quelle poche amiche rimaste – le mandavano messaggi con selfie allegri, con calici in mano, vestite leggere, truccate troppo, rumorose. Felici.
Non le giudicava, ma le invidiava, in certi momenti. Aveva dimenticato cosa volesse dire ridere senza una seconda intenzione, sedersi accanto a qualcuno e lasciarsi guardare, toccare, desiderare.
C’era stato un tempo in cui anche lei aveva amato un uomo, dormito stretta a un corpo, fatto l’amore solo per il gusto di sentire la pelle dell’altro, ma erano ricordi sbiaditi, come foto lasciate al sole.
Da quanto tempo non si concedeva neppure una carezza spontanea?
Da quanto tempo non sentiva l’urgenza fisica di essere cercata, voluta, accarezzata senza un perché?
Eppure era viva. E il corpo, per quanto disciplinato e impeccabile, restava affamato.
Solo una cosa le restava. Una valvola di sfogo che non aveva mai abbandonato.
Il venerdì sera, puntuale come un’abitudine scritta nel sangue, indossava jeans slavati, maglietta semplice e sneakers, si struccava quasi del tutto e usciva di casa senza salutare nessuno. Destinazione: quella discoteca fuori mano dove mettevano musica anni Novanta.
Non era lì per farsi notare.
Non era lì per conoscere qualcuno.
Ballava.
Ballava fino a perdere i pensieri, fino a sentire il cuore vibrare all’unisono con i bassi, fino a ritrovare per due ore un’identità primitiva, libera, non filtrata, sudata, pulsante.
Lì non c’era la manager, né la professionista, né la donna impeccabile.
Lì c’era solo Lorena.
Con i suoi muscoli tesi, i fianchi che seguivano la cassa, il petto che si sollevava nel respiro spezzato del ritmo.
Nessuno la conosceva. Nessuno chiedeva nulla. Ed era proprio per questo che ci tornava. Sempre.
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò al vetro. Le luci della città si erano ormai accese del tutto. Le sembravano bellissime, improvvisamente. Portò una mano alla camicia, accarezzò il primo bottone di raso.
Sorrise.
“Thanks God it’s Friday.”
La giornata era stata lunga, intensa, piena di strette di mano, sorrisi e frasi che si scioglievano in formalità. Quando la porta dell’ascensore si chiuse alle sue spalle, Lorena inspirò profondamente, come se solo in quel momento potesse finalmente respirare davvero. L’ultima a lasciare il piano dei dirigenti, ancora in abiti perfetti, ma con la tensione che lentamente si scioglieva in fondo alla schiena.
Guidò verso casa con il finestrino leggermente abbassato, lasciando entrare l’aria della sera. Appena chiusa la porta del suo appartamento, si tolse le scarpe con un gesto istintivo, lasciandole lì, abbandonate come un giorno consumato.
Nel silenzio ritrovato, si spogliò con lentezza. Camicia, pantaloni, reggiseno. Tutto piegato con cura, come fosse un rituale. Aprì un cassetto basso e ne estrasse ciò che per lei rappresentava la libertà: un paio di jeans larghi, lavati e rilavati, una maglietta grigia, senza forma, e le sue sneakers bianche, ormai segnate dal tempo.
Sotto, però, indossò l’intimo di sempre. Niente pizzi, niente nero, niente provocazioni. Solo un reggiseno bianco in cotone, dalla linea sobria, e slip coordinati, semplici, comodi. Come una ragazza educata che non ha mai voluto mostrarsi diversa da com’è. La femminilità, per lei, non era mai stata un grido. Era un sussurro che conosceva bene, e che non aveva mai sentito il bisogno di urlare.
Quando arrivò alla discoteca, l’atmosfera la investì come un’onda calda.
Il locale era già vivo, saturo di corpi, musica e desideri appesi agli sguardi. Un ex capannone industriale con luci al neon, specchi sporchi e la cassa che pompava come un secondo cuore.
Tutti vestiti per essere notati.
Le ragazze, perlopiù ventenni, esibivano cosce nude, seni compressi in top che sembravano gridare “guardami”. Tacchi altissimi, rossetti violenti, vestiti corti come pensieri affrettati.
Anche le donne più grandi giocavano la stessa partita, più o meno scoperta, ma tutte accomunate da un bisogno: esserci, apparire.
Lorena no.
Non perché non ne fosse capace.
Anzi.
Sapeva benissimo come si ammalia.
Conosceva la misura esatta di una gonna per scoprire senza mostrare, il tono giusto della voce per insinuarsi nella pelle di un uomo, il gesto lento con cui si accarezza il collo o si incrocia una gamba per far deragliare una conversazione.
Sapeva il potere del profumo, di un rossetto ben scelto, del silenzio.
Era stata, un tempo, una donna che amava piacere. Che si preparava per sedurre e godeva dello sguardo altrui come di un riflesso atteso.
Ma non lo faceva più.
Non da molto.
E non lì.
Non in quella discoteca.
Lì entrava come fosse casa sua.
Non salutava nessuno, non cercava volti. Si avvicinava alla pista, trovava uno spazio sufficiente e cominciava a ballare.
I primi movimenti erano cauti, quasi un riscaldamento, poi il corpo prendeva il sopravvento.
Chiudeva gli occhi.
Le braccia seguivano il ritmo con ampi gesti, sciolti. I fianchi si muovevano con quella naturalezza che nasce dall’equilibrio, non dalla provocazione.
Ballava senza intenzione di piacere.
Ballava per sé.
Perché se non avesse ballato, forse sarebbe esplosa.
Le gambe allenate dalla corsa si flettevano con ritmo deciso, la maglietta grigia – intrisa di sudore – aderiva al corpo come un velo inconsapevole. Nessuna parte del suo corpo gridava “guardami”, eppure ogni parte di lei emanava una forza magnetica, quasi selvaggia.
A ogni battito, a ogni strobo, Lorena si liberava, pezzo dopo pezzo, delle etichette, dei ruoli, delle aspettative.
Era un corpo vivo che seguiva la musica. Nient’altro.
Quando il DJ rallentò, infilando un passaggio nostalgico, lei si fermò. Inspirò profondamente, sentì il cuore ancora martellare nel petto, poi si aprì un varco tra la folla e uscì.
Non si voltò.
Non si domandò se qualcuno l’avesse guardata.
Non le importava.
Il fine settimana, come sempre, prese un’altra forma.
Sabato mattina si svegliò presto, il corpo indolenzito, le gambe pesanti. Si concesse solo pochi minuti per distendersi nel letto, poi si alzò, preparò il caffè e accese il portatile. Revisionò alcune mail, sistemò i primi calcoli sul budget, annotò dubbi a margine.
Nel pomeriggio fece visita a sua madre, poi a una zia malata. Gesti semplici, parole essenziali, ma presenze che sentiva di dover custodire, anche nel suo mondo preciso e distaccato.
La domenica fu quasi interamente dedicata al lavoro: una call con Dubai, alcuni appunti sul piano marketing, e poi una cena silenziosa con la tv in sottofondo.
Lunedì mattina si alzò quando fuori il cielo era ancora lattiginoso.
Corse come sempre: dieci chilometri, lo stesso percorso, la mente che si svuotava passo dopo passo. Rientrò, doccia rapida, caffè, capelli raccolti in una coda alta, completa impeccabile, come se nulla potesse incrinare la sua compostezza.
In ufficio accese il portatile, aprì la posta.
Tra le mail standard, una attirò la sua attenzione. Nessun mittente noto.
Oggetto: Venerdì.
Cliccò.
Il testo era breve, tagliente:
“Balli benissimo.
Ma non ho mai visto una donna ballare vestita per imbruttirsi.”
Due foto.
Lei.
Una mentre ballava, occhi chiusi, completamente immersa. L’altra da dietro: la coda alta che ondeggiava, la maglietta appiccicata di sudore, i jeans larghi che lasciavano solo intuire le forme, ma senza esibirle.
Lorena rimase qualche istante ferma.
Nessun sorriso. Nessun fastidio. Nessun impulso.
Semplicemente trascinò il cursore sul cestino.
Click. Cestinata.
Poi aprì il primo file della giornata, il viso perfettamente disteso, le dita già pronte sulla tastiera.
Passarono le settimane. Cinque, sei. Quarantadue giorni esatti, anche se Lorena non si era mai confessata di contarli.
Ogni lunedì mattina, dopo la corsa, la doccia, il caffè e il completo stirato con precisione, accendeva il portatile e trovava la solita mail. Sempre con lo stesso oggetto: Venerdì.
Due foto.
Sempre nuove.
Sempre sue.
Una di profilo, mentre si piegava sulla pista, o sollevava un braccio seguendo il ritmo. L’altra da dietro, o dall’alto, sfocata a tratti, come se fosse stata scattata di nascosto, ma con un occhio preciso, quasi affettuoso.
E poi, sempre la stessa frase.
“Balli benissimo.
Ma non ho mai visto una donna ballare vestita per imbruttirsi.”
Lorena iniziò a notarle davvero alla terza settimana.
Non erano solo immagini. C’era una regolarità chirurgica. Lunedì mattina, tra le 8:15 e le 8:23.
Il mittente cambiava ogni volta.
Un dominio usa e getta, mai lo stesso due volte.
Nessun link, nessuna trappola. Solo parole. E quelle immagini.
Cominciò a osservarle con attenzione. A studiarle.
Chi era? Dove si nascondeva? Quando scattava?
La mente, ben addestrata all’analisi, iniziò a incastrare orari, angolazioni, sfondi, dettagli.
Una volta riconobbe un riflesso di luci nei vetri del bar in fondo al locale. Un’altra, una bottiglia mezza piena su un tavolo che ricordava di aver oltrepassato mentre usciva.
Ma nessun volto, nessuna presenza chiara.
Solo la sensazione sottile di essere osservata. Sempre.
La settimana successiva, per la prima volta, arrivò in discoteca più attenta.
Non per ballare — quello era sacro — ma per guardare.
Si posizionò in un angolo diverso, cambiò la solita traiettoria verso la pista, scrutò ogni volto, ogni ombra.
Infilò un paio di giri, poi si fermò prima del solito. Bevve acqua a piccoli sorsi, guardando chi guardava.
Nessuno le sembrava fuori posto.
Tutti erano lì per esistere. Nessuno sembrava lì per lei.
Nemmeno i ragazzi in camicia aperta, né le ragazze troppo truccate, né i solitari al bancone. Nessuno la fissava. Nessuno sembrava notare la donna che ballava senza esibirsi.
Continuò così ancora per due settimane.
Ogni lunedì, due nuove foto.
Sempre più precise.
Sempre più intime, ma mai volgari.
Mai una parola in più.
Finché, all’inizio della settima settimana, la mail cambiò.
Stesso oggetto: Venerdì.
Ma questa volta il testo non era quello consueto.
Lorena lo lesse con calma, seduta dritta, le dita ancora sospese sopra la tastiera.
“Non si può guardare una bella donna imbruttirsi così.”
Nessuna firma.
Nessun altro dettaglio.
Due foto, ancora.
Una da vicino, occhi chiusi, il volto tirato in un’espressione quasi dolorosa, di piacere o di tensione — impossibile dirlo.
L’altra più distante, lei di spalle, sola, mentre la folla sembrava girarle intorno come ignorandola, o proteggendola.
Lorena sentì qualcosa stringersi sotto lo sterno.
Non dolore, né rabbia.
Ma uno spazio che si apriva.
Quella frase — che avrebbe potuto sembrare un insulto, una critica — suonava come una resa.
Un passo indietro.
Un addio.
E infatti, la settimana successiva, la mail non arrivò.
Né quella dopo.
Né l’altra ancora.
Il lunedì mattina divenne silenzioso. Come prima.
Ma qualcosa era cambiato.
Lorena apriva la posta con un riflesso involontario, tratteneva il fiato per un secondo, come se ancora potesse arrivare qualcosa.
Poi si costringeva a scrollare, a tornare ai budget, agli scadenziari, alle approvazioni da firmare.
Come se nulla fosse.
Era inutile fingere.
Quel piccolo spazio, quel momento preciso del lunedì mattina, le mancava.
La certezza che qualcuno, in mezzo alla folla indistinta, la vedesse davvero, anche se con occhi anonimi e parole secche.
La sensazione che ogni suo movimento non si dissolvesse nel nulla, ma finisse in una lente invisibile, attenta, a volte impietosa.
Quella mail mancava come manca una nota dentro una melodia che credevi di conoscere a memoria.
Decise, quindi, di fare una prova.
Quel venerdì sera scelse con lentezza.
Il corpo lo conosceva.
Sapeva dove nascondevano le curve, e come portarle allo scoperto senza sembrare una delle tante.
Sfilò i jeans dal cassetto e, per la prima volta dopo anni, prese una minigonna nera, semplice, in tessuto leggero, non volgare ma inequivocabile.
Poi un paio di stivaletti alti alla caviglia, con un tacco basso ma netto, che slanciava appena i polpacci.
Il sopra restò lo stesso: una maglietta nera, morbida, senza scollature.
Ma sotto la gonna, infilò, quasi con ironia, gli stessi slip bianchi in cotone, da educanda.
Forse per abitudine, forse per orgoglio.
Forse per testarlo.
Quella sera, quando arrivò al locale, sentì su di sé più occhi del solito, ma non cercò sguardi.
Ballò.
Più lentamente, forse.
Meno fluida, più consapevole. Ma ballò.
E uscì, come sempre, senza voltarsi.
Lunedì mattina.
Il portatile si aprì tra le mani come ogni settimana, ma le dita tremavano appena.
La mail c’era.
Oggetto: Venerdì.
Un tuffo al cuore.
Lorena deglutì piano.
Poi cliccò.
Il testo era nuovo, ancora una volta:
“Già un miglioramento.
Ma gli slip sotto quella gonna non si possono vedere.”
Rimase ferma per un istante, gli occhi immobili sulla schermata.
Poi cliccò sulle immagini.
La prima, a figura intera, la mostrava mentre si muoveva sul ritmo con la gonna che ondeggiava libera.
La seconda, un primo piano netto, ritagliato dal fianco:
il tessuto della gonna leggera segnava chiaramente il gluteo diviso a metà dagli slip bianchi, che si intuivano, evidenti, sotto la stoffa nera.
Per un attimo, il sangue le salì alla testa.
Non di rabbia.
Non di vergogna.
Di eccitazione confusa.
Qualcuno l’aveva vista così, e così l’aveva fermata nel tempo.
Per la prima volta, aprì il campo della risposta.
Le dita si mossero lentamente, quasi incerte.
Scrisse solo una riga. Senza saluto. Senza firma. Senza punto interrogativo:
Ma si può sapere chi sei
Passarono pochi secondi dopo l’invio.
Lorena fissava la casella della posta, le pupille immobili, in attesa di un segnale. Qualcosa. Anche solo tre puntini di risposta, un’indicazione che dall’altra parte ci fosse ancora qualcuno.
Ma il segnale arrivò freddo. Meccanico.
Errore durante la consegna.
Il mittente è sconosciuto o inesistente.
L’indirizzo non è più raggiungibile.
La schermata restò lì, cruda e definitiva.
Lorena restò immobile. Nessun moto di rabbia. Nessuna smorfia di delusione.
Solo un silenzio nuovo, che non era vuoto, ma densissimo.
Chiunque fosse, aveva chiuso il canale, o l’aveva reso inaccessibile di proposito.
Non era stato un errore.
Era un messaggio.
Ma non era un addio.
O almeno, lei non era pronta a leggerlo così.
Lorena non era mai stata una donna da arrendersi al primo ostacolo.
E nemmeno al secondo.
La promozione l’aveva ottenuta dopo anni di strategia, disciplina e pazienza chirurgica.
Aveva sedotto in passato, costruito alleanze, disinnescato trappole, vinto guerre in silenzio.
Non sarebbe stato un mittente fantasma a mandarla fuori rotta.
Si appoggiò allo schienale della sedia, portò una mano alla bocca, sfiorandosi il labbro inferiore con l’indice.
Se non poteva parlargli, poteva farsi vedere meglio.
Lo avrebbe stanato.
O lo avrebbe tentato.
O entrambe le cose.
Quella settimana si concesse un pensiero che da tempo non le apparteneva:
“E se, per una volta, fossi io a giocare?”
La settimana trascorse con lentezza esasperante, scandita da gesti abituali che, giorno dopo giorno, diventavano altro.
La corsa del mattino serviva a sciogliere i pensieri, non solo i muscoli. Le mail scorrevano come acqua sul vetro: le apriva, le leggeva, ma non restavano. I fogli Excel, le call con la direzione, i briefing, i complimenti post promozione: tutto sembrava sfocato.
Un unico pensiero si faceva sempre più nitido: il venerdì sera.
Era strano.
Lorena non aspettava mai niente.
Mai nessuno.
Ma questa volta sì.
Aspettava lui.
Chiunque fosse.
Non sapeva ancora cosa avrebbe indossato. O forse sì, ma non voleva ammetterlo neppure a sé stessa.
Era tutto lì, in una tensione preparatoria, che cresceva sotto la pelle come una carica elettrica a rilascio lento.
E quando arrivò il venerdì, tutto sembrò più silenzioso, più lucido.
Il cielo sopra la città era limpido, il traffico appena più calmo.
Lorena uscì di casa senza fretta.
Il taxi la lasciò davanti al solito ingresso.
Nulla era cambiato.
Tranne lei.
L’ingresso nel locale fu un taglio netto.
Luci basse, bassi potenti, aria carica di sudore e desiderio.
Una serata come tante, almeno fino a quando lei entrò.
I tacchi risuonarono decisi sul pavimento.
Décolleté nere lucide, con tacco alto e affilato, perfettamente stabili sotto il suo passo lento e deciso.
La gonna, rossa, aderentissima, a metà coscia, disegnava i fianchi e sembrava sfidare ogni cucitura.
Sopra, un body nero con una scollatura profonda, vertiginosa, che lasciava il seno libero, presente, vivo, con i capezzoli tesi sotto il tessuto come un linguaggio non detto.
E a coprire — o meglio, a completare — una camicia in tulle trasparente, lasciata completamente aperta, annodata solo in vita, che ondeggiava leggerissima a ogni passo.
Nessuno slip visibile.
Solo la curva piena, netta, il profilo di un possibile tanga che non lasciava margini all’immaginazione.
La coda alta, tirata perfettamente, rendeva il viso ancora più aperto, definito.
Il trucco marcato enfatizzava lo sguardo, le labbra rosso lacca disegnavano un invito, o forse una sfida.
Lorena non camminava.
Entrava.
E fu allora che se ne accorse.
Non tutti si giravano a guardarla.
Ma quelli che lo facevano, si fermavano.
Lo sguardo non scivolava via, come accadeva con le altre.
Rimaneva.
Indugiava.
Studiava.
Ma appena lei lo incrociava, si spegneva.
Come se quei volti — improvvisamente nudi — non reggessero la potenza della donna che avevano osato fissare.
Ogni sguardo che incontrava, si abbassava.
Qualcuno si voltava altrove.
Un paio finsero di guardare il telefono.
Altri tornarono a conversare con chi avevano accanto, come se nulla fosse.
Nessuno, nemmeno uno, sostenne il suo sguardo.
Lorena non sorrise.
Non si turbò.
Si fece spazio tra i corpi come se il suo posto fosse già lì, prenotato.
E iniziò a ballare.
Non ricordava da quanto tempo accadesse, ma quella sera non fu sola a ballare.
Non perché qualcuno l’avesse invitata.
Non perché si fosse lasciata portare via.
Ma perché la sua sola presenza — quella figura rossa e nera che si muoveva al centro della pista — era diventata un magnete.
Gli uomini si avvicinavano senza chiedere.
Alcuni la sfioravano appena, altri si poggiavano con la disinvoltura di chi vuole farsi notare senza sembrare disperato.
Mani che sfioravano la vita, dita leggere che cercavano l’incavo del fianco o il punto dove la camicia di tulle si apriva.
Corpi che si stringevano al suo, presi dall’odore, dal calore, dalla promessa che la sua pelle sembrava contenere.
E Lorena non si sottrasse.
Non li cercava.
Ma non li respingeva.
Ballava, e accettava.
Ballava, e godeva di quegli sguardi affamati, di quelle mani che non osavano spingersi oltre ma nemmeno si fermavano.
Sentì un corpo avvicinarsi da dietro, uno dei tanti.
Lo sentì duro, presente, premerle contro.
E spostò appena il bacino, inarcando i fianchi all’indietro, fino a far aderire perfettamente il suo sedere al membro eretto di quell’uomo sconosciuto.
Un gesto lento.
Calcolato.
Carico di una malizia antica, che non aveva mai dimenticato.
Lui non disse nulla.
Né lei.
Ma per alcuni lunghi secondi, rimasero così, a ballare nel buio, nel ritmo, in un amplesso mancato ma urlato.
Ne seguirono altri.
Diversi.
Alcuni impacciati, altri sfrontati.
Ma tutti attirati da lei, come falene su una fiamma che quella sera aveva deciso di non spegnersi più.
Quando rientrò a casa, le gambe tremavano.
Non per la fatica.
Per l’elettricità che ancora le vibrava dentro.
Si spogliò lentamente.
La gonna le scivolò lungo le cosce con un fruscio. Il body aderente lasciò liberi i seni tesi, ancora sensibili.
E solo allora, quando si abbassò per sfilarsi le décolleté, lo sentì.
Era bagnata.
Completamente.
Non era sudore.
Non solo.
Era qualcosa di più profondo, più vischioso, più vivo.
Era desiderio antico.
Era femminilità che tornava a bussare alla porta del suo corpo.
Era piacere che chiedeva attenzione.
Entrò sotto la doccia e lasciò scorrere l’acqua calda sul corpo.
Chiuse gli occhi.
La mano si mosse lentamente.
Un dito, poi due.
Un respiro, poi un sospiro.
E come una diga che cede, come una voce che rompe il silenzio, il piacere arrivò.
Intenso.
Liquido.
Profondo.
Un orgasmo che le piegò le gambe, che le sciolse la mascella, che le strappò un gemito in gola, tenuto dentro per troppi anni.
Non era un uomo.
Non era l’amante sconosciuto.
Era lei.
Finalmente.
Che tornava a toccarsi non per necessità, ma per desiderio.
Quando aprì gli occhi, l’acqua le bagnava il viso.
Sorrise.
Perché, forse, il gioco era appena cominciato.
Se avete commenti, suggerimenti e critiche potete lasciarli qua sotto o scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
Lorena era in piedi accanto allo schermo spento del proiettore, le mani composte davanti a sé, lo sguardo limpido ma determinato. I suoi occhi verdi brillavano come non accadeva da tempo. Aveva appena ricevuto la comunicazione ufficiale: nuova dirigente e responsabile del reparto commerciale. Era il culmine di anni di impegno assoluto, di serate in ufficio, di voli all’alba e weekend passati a preparare presentazioni, invece che con qualcuno al proprio fianco.
Indossava il suo consueto completo da lavoro: tailleur pantaloni blu notte, taglio maschile e rigoroso, abbinato a una camicia di raso avorio, abbottonata fino all’ultimo bottone, il colletto rigido che le accarezzava il collo con discrezione. I capelli biondi, ordinati e lucenti, erano raccolti in una coda alta e tirata, lasciando libero l’ovale perfetto del volto. L’unica concessione a se stessa, a quella parte più nascosta e forse repressa della sua femminilità, era rappresentata dalle décolleté nere lucide, con tacco a spillo da dieci centimetri, che le slanciavano ulteriormente la figura e facevano risuonare un lieve ticchettio ad ogni passo sul parquet della sala.
Pur nel rigore dell’abito, il suo corpo si imponeva con naturalezza. Non era fasciato, né esibito, eppure i fianchi pieni, il seno generoso e la linea atletica delle sue gambe lasciavano intuire la forza sotto il controllo. Una femminilità autentica, composta, che sapeva di eleganza e consapevolezza.
Uno ad uno, i presenti si erano alzati per stringerle la mano, qualcuno si era lasciato andare a un breve applauso, altri avevano preferito un semplice cenno del capo, ma tutti – indistintamente – le riconoscevano il merito. Lei sorrideva con misura, abituata a non esagerare con l’entusiasmo, ma dentro di sé una voce urlava forte: ce l’avevi fatta. Finalmente.
Quando tutti si sedettero di nuovo, il CEO si rivolse a lei con tono pacato ma carico d’ammirazione:
“Lorena, da oggi questo reparto porta il tuo nome. Ma so già che lo porterai più lontano di quanto chiunque avrebbe immaginato.”
Il nuovo ufficio aveva ancora l’odore di legno lucido e pelle nuova. L’avevano fatto allestire in fretta, tutto secondo le direttive standard della sede centrale: pareti grigio chiaro, librerie sobrie, scrivania in vetro e metallo con finiture cromate. Alle sue spalle, un’intera parete era vetrata e dominava la città con distacco. Le luci sotto di lei si accendevano una a una, come stelle artificiali in una galassia che le sembrava sempre più lontana.
Lorena si chiuse la porta alle spalle con un gesto lento, quasi reverente. Si lasciò sfuggire un respiro profondo, come se avesse trattenuto l’aria per tutta la durata della cerimonia. Solo allora si permise di sedersi dietro quella scrivania: sua. Scivolò con la schiena fino a poggiare le scapole contro lo schienale in pelle, abbandonando il busto con un’eleganza studiata, controllata come ogni parte della sua giornata. Solo gli occhi si persero nel vetro davanti, oltre il riflesso della sua stessa figura.
Si sentiva felice, sì. Ma una felicità composta, razionale, quella che nasce dalla conquista di un obiettivo atteso, previsto, pianificato da anni. Il cuore non le batteva forte: le pulsava dentro un’eco silenziosa, come una vibrazione lontana, ovattata.
Aveva vinto. Ma a quale prezzo?
Le mattine al buio, con la città ancora silenziosa, le scarpe da corsa in mano e l’odore del caffè appena fatto. I dieci chilometri, sempre quelli, sempre alla stessa ora, per restare tonica, per disciplinare anche il corpo come aveva fatto con la mente. Ma soprattutto per non togliere tempo al lavoro. Il lavoro era sempre venuto prima. Sempre.
E poi le serate passate da sola in ufficio, le luci artificiali che le scavavano occhiaie invisibili, i file aperti uno dopo l’altro, le mail scritte e riscritte mille volte per non lasciare spiragli al dubbio, alla debolezza. Mentre le altre – quelle poche amiche rimaste – le mandavano messaggi con selfie allegri, con calici in mano, vestite leggere, truccate troppo, rumorose. Felici.
Non le giudicava, ma le invidiava, in certi momenti. Aveva dimenticato cosa volesse dire ridere senza una seconda intenzione, sedersi accanto a qualcuno e lasciarsi guardare, toccare, desiderare.
C’era stato un tempo in cui anche lei aveva amato un uomo, dormito stretta a un corpo, fatto l’amore solo per il gusto di sentire la pelle dell’altro, ma erano ricordi sbiaditi, come foto lasciate al sole.
Da quanto tempo non si concedeva neppure una carezza spontanea?
Da quanto tempo non sentiva l’urgenza fisica di essere cercata, voluta, accarezzata senza un perché?
Eppure era viva. E il corpo, per quanto disciplinato e impeccabile, restava affamato.
Solo una cosa le restava. Una valvola di sfogo che non aveva mai abbandonato.
Il venerdì sera, puntuale come un’abitudine scritta nel sangue, indossava jeans slavati, maglietta semplice e sneakers, si struccava quasi del tutto e usciva di casa senza salutare nessuno. Destinazione: quella discoteca fuori mano dove mettevano musica anni Novanta.
Non era lì per farsi notare.
Non era lì per conoscere qualcuno.
Ballava.
Ballava fino a perdere i pensieri, fino a sentire il cuore vibrare all’unisono con i bassi, fino a ritrovare per due ore un’identità primitiva, libera, non filtrata, sudata, pulsante.
Lì non c’era la manager, né la professionista, né la donna impeccabile.
Lì c’era solo Lorena.
Con i suoi muscoli tesi, i fianchi che seguivano la cassa, il petto che si sollevava nel respiro spezzato del ritmo.
Nessuno la conosceva. Nessuno chiedeva nulla. Ed era proprio per questo che ci tornava. Sempre.
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò al vetro. Le luci della città si erano ormai accese del tutto. Le sembravano bellissime, improvvisamente. Portò una mano alla camicia, accarezzò il primo bottone di raso.
Sorrise.
“Thanks God it’s Friday.”
La giornata era stata lunga, intensa, piena di strette di mano, sorrisi e frasi che si scioglievano in formalità. Quando la porta dell’ascensore si chiuse alle sue spalle, Lorena inspirò profondamente, come se solo in quel momento potesse finalmente respirare davvero. L’ultima a lasciare il piano dei dirigenti, ancora in abiti perfetti, ma con la tensione che lentamente si scioglieva in fondo alla schiena.
Guidò verso casa con il finestrino leggermente abbassato, lasciando entrare l’aria della sera. Appena chiusa la porta del suo appartamento, si tolse le scarpe con un gesto istintivo, lasciandole lì, abbandonate come un giorno consumato.
Nel silenzio ritrovato, si spogliò con lentezza. Camicia, pantaloni, reggiseno. Tutto piegato con cura, come fosse un rituale. Aprì un cassetto basso e ne estrasse ciò che per lei rappresentava la libertà: un paio di jeans larghi, lavati e rilavati, una maglietta grigia, senza forma, e le sue sneakers bianche, ormai segnate dal tempo.
Sotto, però, indossò l’intimo di sempre. Niente pizzi, niente nero, niente provocazioni. Solo un reggiseno bianco in cotone, dalla linea sobria, e slip coordinati, semplici, comodi. Come una ragazza educata che non ha mai voluto mostrarsi diversa da com’è. La femminilità, per lei, non era mai stata un grido. Era un sussurro che conosceva bene, e che non aveva mai sentito il bisogno di urlare.
Quando arrivò alla discoteca, l’atmosfera la investì come un’onda calda.
Il locale era già vivo, saturo di corpi, musica e desideri appesi agli sguardi. Un ex capannone industriale con luci al neon, specchi sporchi e la cassa che pompava come un secondo cuore.
Tutti vestiti per essere notati.
Le ragazze, perlopiù ventenni, esibivano cosce nude, seni compressi in top che sembravano gridare “guardami”. Tacchi altissimi, rossetti violenti, vestiti corti come pensieri affrettati.
Anche le donne più grandi giocavano la stessa partita, più o meno scoperta, ma tutte accomunate da un bisogno: esserci, apparire.
Lorena no.
Non perché non ne fosse capace.
Anzi.
Sapeva benissimo come si ammalia.
Conosceva la misura esatta di una gonna per scoprire senza mostrare, il tono giusto della voce per insinuarsi nella pelle di un uomo, il gesto lento con cui si accarezza il collo o si incrocia una gamba per far deragliare una conversazione.
Sapeva il potere del profumo, di un rossetto ben scelto, del silenzio.
Era stata, un tempo, una donna che amava piacere. Che si preparava per sedurre e godeva dello sguardo altrui come di un riflesso atteso.
Ma non lo faceva più.
Non da molto.
E non lì.
Non in quella discoteca.
Lì entrava come fosse casa sua.
Non salutava nessuno, non cercava volti. Si avvicinava alla pista, trovava uno spazio sufficiente e cominciava a ballare.
I primi movimenti erano cauti, quasi un riscaldamento, poi il corpo prendeva il sopravvento.
Chiudeva gli occhi.
Le braccia seguivano il ritmo con ampi gesti, sciolti. I fianchi si muovevano con quella naturalezza che nasce dall’equilibrio, non dalla provocazione.
Ballava senza intenzione di piacere.
Ballava per sé.
Perché se non avesse ballato, forse sarebbe esplosa.
Le gambe allenate dalla corsa si flettevano con ritmo deciso, la maglietta grigia – intrisa di sudore – aderiva al corpo come un velo inconsapevole. Nessuna parte del suo corpo gridava “guardami”, eppure ogni parte di lei emanava una forza magnetica, quasi selvaggia.
A ogni battito, a ogni strobo, Lorena si liberava, pezzo dopo pezzo, delle etichette, dei ruoli, delle aspettative.
Era un corpo vivo che seguiva la musica. Nient’altro.
Quando il DJ rallentò, infilando un passaggio nostalgico, lei si fermò. Inspirò profondamente, sentì il cuore ancora martellare nel petto, poi si aprì un varco tra la folla e uscì.
Non si voltò.
Non si domandò se qualcuno l’avesse guardata.
Non le importava.
Il fine settimana, come sempre, prese un’altra forma.
Sabato mattina si svegliò presto, il corpo indolenzito, le gambe pesanti. Si concesse solo pochi minuti per distendersi nel letto, poi si alzò, preparò il caffè e accese il portatile. Revisionò alcune mail, sistemò i primi calcoli sul budget, annotò dubbi a margine.
Nel pomeriggio fece visita a sua madre, poi a una zia malata. Gesti semplici, parole essenziali, ma presenze che sentiva di dover custodire, anche nel suo mondo preciso e distaccato.
La domenica fu quasi interamente dedicata al lavoro: una call con Dubai, alcuni appunti sul piano marketing, e poi una cena silenziosa con la tv in sottofondo.
Lunedì mattina si alzò quando fuori il cielo era ancora lattiginoso.
Corse come sempre: dieci chilometri, lo stesso percorso, la mente che si svuotava passo dopo passo. Rientrò, doccia rapida, caffè, capelli raccolti in una coda alta, completa impeccabile, come se nulla potesse incrinare la sua compostezza.
In ufficio accese il portatile, aprì la posta.
Tra le mail standard, una attirò la sua attenzione. Nessun mittente noto.
Oggetto: Venerdì.
Cliccò.
Il testo era breve, tagliente:
“Balli benissimo.
Ma non ho mai visto una donna ballare vestita per imbruttirsi.”
Due foto.
Lei.
Una mentre ballava, occhi chiusi, completamente immersa. L’altra da dietro: la coda alta che ondeggiava, la maglietta appiccicata di sudore, i jeans larghi che lasciavano solo intuire le forme, ma senza esibirle.
Lorena rimase qualche istante ferma.
Nessun sorriso. Nessun fastidio. Nessun impulso.
Semplicemente trascinò il cursore sul cestino.
Click. Cestinata.
Poi aprì il primo file della giornata, il viso perfettamente disteso, le dita già pronte sulla tastiera.
Passarono le settimane. Cinque, sei. Quarantadue giorni esatti, anche se Lorena non si era mai confessata di contarli.
Ogni lunedì mattina, dopo la corsa, la doccia, il caffè e il completo stirato con precisione, accendeva il portatile e trovava la solita mail. Sempre con lo stesso oggetto: Venerdì.
Due foto.
Sempre nuove.
Sempre sue.
Una di profilo, mentre si piegava sulla pista, o sollevava un braccio seguendo il ritmo. L’altra da dietro, o dall’alto, sfocata a tratti, come se fosse stata scattata di nascosto, ma con un occhio preciso, quasi affettuoso.
E poi, sempre la stessa frase.
“Balli benissimo.
Ma non ho mai visto una donna ballare vestita per imbruttirsi.”
Lorena iniziò a notarle davvero alla terza settimana.
Non erano solo immagini. C’era una regolarità chirurgica. Lunedì mattina, tra le 8:15 e le 8:23.
Il mittente cambiava ogni volta.
Un dominio usa e getta, mai lo stesso due volte.
Nessun link, nessuna trappola. Solo parole. E quelle immagini.
Cominciò a osservarle con attenzione. A studiarle.
Chi era? Dove si nascondeva? Quando scattava?
La mente, ben addestrata all’analisi, iniziò a incastrare orari, angolazioni, sfondi, dettagli.
Una volta riconobbe un riflesso di luci nei vetri del bar in fondo al locale. Un’altra, una bottiglia mezza piena su un tavolo che ricordava di aver oltrepassato mentre usciva.
Ma nessun volto, nessuna presenza chiara.
Solo la sensazione sottile di essere osservata. Sempre.
La settimana successiva, per la prima volta, arrivò in discoteca più attenta.
Non per ballare — quello era sacro — ma per guardare.
Si posizionò in un angolo diverso, cambiò la solita traiettoria verso la pista, scrutò ogni volto, ogni ombra.
Infilò un paio di giri, poi si fermò prima del solito. Bevve acqua a piccoli sorsi, guardando chi guardava.
Nessuno le sembrava fuori posto.
Tutti erano lì per esistere. Nessuno sembrava lì per lei.
Nemmeno i ragazzi in camicia aperta, né le ragazze troppo truccate, né i solitari al bancone. Nessuno la fissava. Nessuno sembrava notare la donna che ballava senza esibirsi.
Continuò così ancora per due settimane.
Ogni lunedì, due nuove foto.
Sempre più precise.
Sempre più intime, ma mai volgari.
Mai una parola in più.
Finché, all’inizio della settima settimana, la mail cambiò.
Stesso oggetto: Venerdì.
Ma questa volta il testo non era quello consueto.
Lorena lo lesse con calma, seduta dritta, le dita ancora sospese sopra la tastiera.
“Non si può guardare una bella donna imbruttirsi così.”
Nessuna firma.
Nessun altro dettaglio.
Due foto, ancora.
Una da vicino, occhi chiusi, il volto tirato in un’espressione quasi dolorosa, di piacere o di tensione — impossibile dirlo.
L’altra più distante, lei di spalle, sola, mentre la folla sembrava girarle intorno come ignorandola, o proteggendola.
Lorena sentì qualcosa stringersi sotto lo sterno.
Non dolore, né rabbia.
Ma uno spazio che si apriva.
Quella frase — che avrebbe potuto sembrare un insulto, una critica — suonava come una resa.
Un passo indietro.
Un addio.
E infatti, la settimana successiva, la mail non arrivò.
Né quella dopo.
Né l’altra ancora.
Il lunedì mattina divenne silenzioso. Come prima.
Ma qualcosa era cambiato.
Lorena apriva la posta con un riflesso involontario, tratteneva il fiato per un secondo, come se ancora potesse arrivare qualcosa.
Poi si costringeva a scrollare, a tornare ai budget, agli scadenziari, alle approvazioni da firmare.
Come se nulla fosse.
Era inutile fingere.
Quel piccolo spazio, quel momento preciso del lunedì mattina, le mancava.
La certezza che qualcuno, in mezzo alla folla indistinta, la vedesse davvero, anche se con occhi anonimi e parole secche.
La sensazione che ogni suo movimento non si dissolvesse nel nulla, ma finisse in una lente invisibile, attenta, a volte impietosa.
Quella mail mancava come manca una nota dentro una melodia che credevi di conoscere a memoria.
Decise, quindi, di fare una prova.
Quel venerdì sera scelse con lentezza.
Il corpo lo conosceva.
Sapeva dove nascondevano le curve, e come portarle allo scoperto senza sembrare una delle tante.
Sfilò i jeans dal cassetto e, per la prima volta dopo anni, prese una minigonna nera, semplice, in tessuto leggero, non volgare ma inequivocabile.
Poi un paio di stivaletti alti alla caviglia, con un tacco basso ma netto, che slanciava appena i polpacci.
Il sopra restò lo stesso: una maglietta nera, morbida, senza scollature.
Ma sotto la gonna, infilò, quasi con ironia, gli stessi slip bianchi in cotone, da educanda.
Forse per abitudine, forse per orgoglio.
Forse per testarlo.
Quella sera, quando arrivò al locale, sentì su di sé più occhi del solito, ma non cercò sguardi.
Ballò.
Più lentamente, forse.
Meno fluida, più consapevole. Ma ballò.
E uscì, come sempre, senza voltarsi.
Lunedì mattina.
Il portatile si aprì tra le mani come ogni settimana, ma le dita tremavano appena.
La mail c’era.
Oggetto: Venerdì.
Un tuffo al cuore.
Lorena deglutì piano.
Poi cliccò.
Il testo era nuovo, ancora una volta:
“Già un miglioramento.
Ma gli slip sotto quella gonna non si possono vedere.”
Rimase ferma per un istante, gli occhi immobili sulla schermata.
Poi cliccò sulle immagini.
La prima, a figura intera, la mostrava mentre si muoveva sul ritmo con la gonna che ondeggiava libera.
La seconda, un primo piano netto, ritagliato dal fianco:
il tessuto della gonna leggera segnava chiaramente il gluteo diviso a metà dagli slip bianchi, che si intuivano, evidenti, sotto la stoffa nera.
Per un attimo, il sangue le salì alla testa.
Non di rabbia.
Non di vergogna.
Di eccitazione confusa.
Qualcuno l’aveva vista così, e così l’aveva fermata nel tempo.
Per la prima volta, aprì il campo della risposta.
Le dita si mossero lentamente, quasi incerte.
Scrisse solo una riga. Senza saluto. Senza firma. Senza punto interrogativo:
Ma si può sapere chi sei
Passarono pochi secondi dopo l’invio.
Lorena fissava la casella della posta, le pupille immobili, in attesa di un segnale. Qualcosa. Anche solo tre puntini di risposta, un’indicazione che dall’altra parte ci fosse ancora qualcuno.
Ma il segnale arrivò freddo. Meccanico.
Errore durante la consegna.
Il mittente è sconosciuto o inesistente.
L’indirizzo non è più raggiungibile.
La schermata restò lì, cruda e definitiva.
Lorena restò immobile. Nessun moto di rabbia. Nessuna smorfia di delusione.
Solo un silenzio nuovo, che non era vuoto, ma densissimo.
Chiunque fosse, aveva chiuso il canale, o l’aveva reso inaccessibile di proposito.
Non era stato un errore.
Era un messaggio.
Ma non era un addio.
O almeno, lei non era pronta a leggerlo così.
Lorena non era mai stata una donna da arrendersi al primo ostacolo.
E nemmeno al secondo.
La promozione l’aveva ottenuta dopo anni di strategia, disciplina e pazienza chirurgica.
Aveva sedotto in passato, costruito alleanze, disinnescato trappole, vinto guerre in silenzio.
Non sarebbe stato un mittente fantasma a mandarla fuori rotta.
Si appoggiò allo schienale della sedia, portò una mano alla bocca, sfiorandosi il labbro inferiore con l’indice.
Se non poteva parlargli, poteva farsi vedere meglio.
Lo avrebbe stanato.
O lo avrebbe tentato.
O entrambe le cose.
Quella settimana si concesse un pensiero che da tempo non le apparteneva:
“E se, per una volta, fossi io a giocare?”
La settimana trascorse con lentezza esasperante, scandita da gesti abituali che, giorno dopo giorno, diventavano altro.
La corsa del mattino serviva a sciogliere i pensieri, non solo i muscoli. Le mail scorrevano come acqua sul vetro: le apriva, le leggeva, ma non restavano. I fogli Excel, le call con la direzione, i briefing, i complimenti post promozione: tutto sembrava sfocato.
Un unico pensiero si faceva sempre più nitido: il venerdì sera.
Era strano.
Lorena non aspettava mai niente.
Mai nessuno.
Ma questa volta sì.
Aspettava lui.
Chiunque fosse.
Non sapeva ancora cosa avrebbe indossato. O forse sì, ma non voleva ammetterlo neppure a sé stessa.
Era tutto lì, in una tensione preparatoria, che cresceva sotto la pelle come una carica elettrica a rilascio lento.
E quando arrivò il venerdì, tutto sembrò più silenzioso, più lucido.
Il cielo sopra la città era limpido, il traffico appena più calmo.
Lorena uscì di casa senza fretta.
Il taxi la lasciò davanti al solito ingresso.
Nulla era cambiato.
Tranne lei.
L’ingresso nel locale fu un taglio netto.
Luci basse, bassi potenti, aria carica di sudore e desiderio.
Una serata come tante, almeno fino a quando lei entrò.
I tacchi risuonarono decisi sul pavimento.
Décolleté nere lucide, con tacco alto e affilato, perfettamente stabili sotto il suo passo lento e deciso.
La gonna, rossa, aderentissima, a metà coscia, disegnava i fianchi e sembrava sfidare ogni cucitura.
Sopra, un body nero con una scollatura profonda, vertiginosa, che lasciava il seno libero, presente, vivo, con i capezzoli tesi sotto il tessuto come un linguaggio non detto.
E a coprire — o meglio, a completare — una camicia in tulle trasparente, lasciata completamente aperta, annodata solo in vita, che ondeggiava leggerissima a ogni passo.
Nessuno slip visibile.
Solo la curva piena, netta, il profilo di un possibile tanga che non lasciava margini all’immaginazione.
La coda alta, tirata perfettamente, rendeva il viso ancora più aperto, definito.
Il trucco marcato enfatizzava lo sguardo, le labbra rosso lacca disegnavano un invito, o forse una sfida.
Lorena non camminava.
Entrava.
E fu allora che se ne accorse.
Non tutti si giravano a guardarla.
Ma quelli che lo facevano, si fermavano.
Lo sguardo non scivolava via, come accadeva con le altre.
Rimaneva.
Indugiava.
Studiava.
Ma appena lei lo incrociava, si spegneva.
Come se quei volti — improvvisamente nudi — non reggessero la potenza della donna che avevano osato fissare.
Ogni sguardo che incontrava, si abbassava.
Qualcuno si voltava altrove.
Un paio finsero di guardare il telefono.
Altri tornarono a conversare con chi avevano accanto, come se nulla fosse.
Nessuno, nemmeno uno, sostenne il suo sguardo.
Lorena non sorrise.
Non si turbò.
Si fece spazio tra i corpi come se il suo posto fosse già lì, prenotato.
E iniziò a ballare.
Non ricordava da quanto tempo accadesse, ma quella sera non fu sola a ballare.
Non perché qualcuno l’avesse invitata.
Non perché si fosse lasciata portare via.
Ma perché la sua sola presenza — quella figura rossa e nera che si muoveva al centro della pista — era diventata un magnete.
Gli uomini si avvicinavano senza chiedere.
Alcuni la sfioravano appena, altri si poggiavano con la disinvoltura di chi vuole farsi notare senza sembrare disperato.
Mani che sfioravano la vita, dita leggere che cercavano l’incavo del fianco o il punto dove la camicia di tulle si apriva.
Corpi che si stringevano al suo, presi dall’odore, dal calore, dalla promessa che la sua pelle sembrava contenere.
E Lorena non si sottrasse.
Non li cercava.
Ma non li respingeva.
Ballava, e accettava.
Ballava, e godeva di quegli sguardi affamati, di quelle mani che non osavano spingersi oltre ma nemmeno si fermavano.
Sentì un corpo avvicinarsi da dietro, uno dei tanti.
Lo sentì duro, presente, premerle contro.
E spostò appena il bacino, inarcando i fianchi all’indietro, fino a far aderire perfettamente il suo sedere al membro eretto di quell’uomo sconosciuto.
Un gesto lento.
Calcolato.
Carico di una malizia antica, che non aveva mai dimenticato.
Lui non disse nulla.
Né lei.
Ma per alcuni lunghi secondi, rimasero così, a ballare nel buio, nel ritmo, in un amplesso mancato ma urlato.
Ne seguirono altri.
Diversi.
Alcuni impacciati, altri sfrontati.
Ma tutti attirati da lei, come falene su una fiamma che quella sera aveva deciso di non spegnersi più.
Quando rientrò a casa, le gambe tremavano.
Non per la fatica.
Per l’elettricità che ancora le vibrava dentro.
Si spogliò lentamente.
La gonna le scivolò lungo le cosce con un fruscio. Il body aderente lasciò liberi i seni tesi, ancora sensibili.
E solo allora, quando si abbassò per sfilarsi le décolleté, lo sentì.
Era bagnata.
Completamente.
Non era sudore.
Non solo.
Era qualcosa di più profondo, più vischioso, più vivo.
Era desiderio antico.
Era femminilità che tornava a bussare alla porta del suo corpo.
Era piacere che chiedeva attenzione.
Entrò sotto la doccia e lasciò scorrere l’acqua calda sul corpo.
Chiuse gli occhi.
La mano si mosse lentamente.
Un dito, poi due.
Un respiro, poi un sospiro.
E come una diga che cede, come una voce che rompe il silenzio, il piacere arrivò.
Intenso.
Liquido.
Profondo.
Un orgasmo che le piegò le gambe, che le sciolse la mascella, che le strappò un gemito in gola, tenuto dentro per troppi anni.
Non era un uomo.
Non era l’amante sconosciuto.
Era lei.
Finalmente.
Che tornava a toccarsi non per necessità, ma per desiderio.
Quando aprì gli occhi, l’acqua le bagnava il viso.
Sorrise.
Perché, forse, il gioco era appena cominciato.
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