In Vetta 5^ Parte

di
genere
esibizionismo

La casa era immersa in un silenzio denso.
Lorena sedeva sul divano, il calice di vino bianco tra le dita, le gambe nude incrociate sotto la vestaglia leggera. I capelli sciolti, ancora leggermente umidi dopo la doccia, le cadevano sulle spalle. Aveva spento la TV, lasciando solo il rumore ovattato del traffico lontano.
Fu in quel momento che il telefono squillò.
Numero sconosciuto.
Lorena esitò, poi rispose.
«Pronto?»
Una voce maschile, bassa, sicura. Ma non arrogante.
«Buonasera, Lorena.»
Una fitta le attraversò la schiena. Non era una voce nota. Non era un tono qualunque.
«Chi parla?»
«Non importa chi. Conta solo cosa vediamo in lei. E cosa potrebbe diventare, se lo volesse.»
Lei si irrigidì. Portò lentamente il calice alle labbra senza bere.
«Non mi sembra una risposta. Come ha avuto questo numero?»
Un attimo di silenzio, poi:
«Chi non vuole essere trovato, cambia scheda. Lei invece… vuole essere vista. Anche quando finge il contrario.»
Lorena strinse il bicchiere. Una goccia di condensa le bagnò un dito.
«Non rispondo a giochi. Mi dica subito chi le ha parlato di me. È stato Thomas?»
Un piccolo respiro. Forse un sorriso.
«Thomas è solo un punto. Lei è una linea. Non immagina nemmeno dove può arrivare.»
«Lei mi sta spiando?»
«No. La sto leggendo. Come una pagina aperta. Stasera, è seduta da sola. In vestaglia. Sotto, nulla. Non perché fa caldo, ma perché le piace sentirsi così. Aperta. Disponibile. Ma solo per chi sceglie lei. Mi sbaglio?»
Lorena si alzò di scatto, controllò la finestra. Tende tirate. Niente fuori posto.
«Se sa dove abito, sta già sbagliando tutto.»
«Io non voglio entrare da lei, Lorena. Voglio che sia lei a varcare la soglia. Volontariamente. Come ha fatto in quella suite.»
Un silenzio carico. Poi lui aggiunse:
«Non ci saranno fotografie. Solo lei, spogliata nel modo che conosce già. Davanti a chi sa guardare, senza toccare. E una maschera, ovviamente. Il suo volto è prezioso, quanto il suo anonimato.»
«Perché dovrei fidarmi di lei?»
«Perché non le ho chiesto nulla. Non l’ho toccata. Non l’ho cercata.
L’ho solo chiamata. Per offrirle un posto in qualcosa che è già iniziato.
Se sente il cuore battere più forte… non è paura. È memoria.»
Lorena deglutì. Il cuore effettivamente batteva più forte. Ma non riusciva a dire se fosse eccitazione… o terrore.
«Se volessi saperne di più…?»
«Mi basterebbe una parola. Quando.»
Lorena rimase in piedi accanto al divano, lo sguardo fisso su un punto indefinito, il bicchiere in mano leggermente inclinato.
La voce all’altro capo era rimasta in attesa. Ma lei non rispose quando. Non ancora.
«Non mi basta una parola.»
«Ne basta una, se è quella giusta.»
Lei fece un passo verso la finestra, scostò leggermente la tenda. Il buio, la strada vuota, qualche luce dai palazzi di fronte.
«Lei parla come se sapesse tutto di me. Ma io non so nulla di lei. Di questo… invito. Né di chi lo ha pensato, né perché proprio io. Non partecipo a spettacoli costruiti sul mistero senza sapere se c’è sicurezza. O rispetto.»
Silenzio. Poi la voce, ancora più morbida, quasi un sussurro:
«Non è uno spettacolo, Lorena. È una celebrazione.
Il suo corpo non verrà esposto. Verrà raccontato.
Da lei. A modo suo.
Sarà vestita, velata, mascherata. E pienamente in controllo.
Il pubblico? Ristretto. Selezionato. Nessun volgare. Nessun improvvisato. Tutti invitati individualmente. Tutti silenziosi. Tutti già conoscono il suo profilo.»
Lorena si irrigidì.
«Come sarebbe a dire che lo conoscono già?»
«Non il suo nome. Non il suo volto. Ma il corpo, sì.
Thomas ha parlato. Con rispetto.
E sì… qualcuna delle telecamere della suite era attiva. Solo per uso interno, protetto.
Qualcuno ha visto. E ha chiesto. Non per comprarla. Ma per ascoltarla ancora.
Con gli occhi.»
Lorena sentì un fremito correre tra le scapole. Fece un respiro lento. Il calice era quasi vuoto.
«Quindi sarei… una forma d’arte.»
«No. Lei è il contenuto.
Il resto… è solo cornice.»
Un altro silenzio. Poi Lorena parlò a voce bassa, ma ferma.
«E cosa succede se dico no?»
«Nulla.
La sua linea finisce qui.
Ma resterebbe il disegno incompleto.
E chi sa vedere, odia i finali lasciati in sospeso.»
Lorena abbassò il telefono un istante. Lo guardò. Rifletté.
Poi tornò all’auricolare.
«Mi spieghi un’ultima cosa. Perché proprio io?
Cosa vi ha fatto pensare che io potessi accettare?»
«Perché non ha spento questa chiamata.
E perché, adesso, mentre mi fa questa domanda… ha i capezzoli tesi sotto la seta.
Lo sente anche lei, vero?»
Non rispose subito. Restò immobile, il telefono ancora tra le dita, la linea aperta come una porta socchiusa, mentre il silenzio dall’altro capo sembrava ascoltare ogni suo pensiero.
Scivolò lentamente sul divano, come se le ginocchia avessero perso forza, come se tutto quel controllo che per anni aveva tenuto stretto le stesse ora scivolando via, goccia dopo goccia, insieme al vino dimenticato sul tavolino. Aveva ancora la vestaglia di seta addosso, chiusa da un nodo leggero. Non c’era nulla sotto. E quella consapevolezza, in quel preciso momento, prese una forma nuova. Non era una scelta pratica. Non era comodità. Era desiderio. Era disposizione.
Sentiva il cuore battere con forza, non per paura, ma per eccitazione. Quella voce sconosciuta le era entrata dentro, come una mano che non tocca ma afferra comunque, e la teneva ferma lì, tra la tentazione di chiudere tutto e la voglia bruciante di lasciarsi andare. Per la prima volta dopo tanto tempo, non cercava di capire, ma di sentire. E quello che sentiva era calore, pulsazione, un bisogno che partiva dalla bocca dello stomaco e finiva tra le cosce, dove il corpo già si stava preparando senza che lei gli avesse dato il permesso.
Si passò una mano tra i capelli, il viso appena all’indietro, gli occhi socchiusi. Pensava di avere bisogno di certezze, di nomi, di garanzie. Ma più passava il tempo, più capiva che quello che la stava tenendo incollata a quella voce non era la sicurezza… era l’ignoto. L’idea che qualcuno l’avesse scelta non per possederla, ma per guardarla, e che quel guardarla potesse diventare la forma più pura e violenta di possesso.
Non era mai stata proprietà di nessuno. Ma ora scopriva che essere desiderata così, da sconosciuti silenziosi, selezionati, immobili, la faceva sentire più viva che mai. Non aveva mai mostrato nulla di sé a chi non avesse meritato. Eppure, proprio adesso, si accorgeva che stava per farlo. Per scelta. Per fame. Per gioco.
Inspirò lentamente, il petto che si sollevava sotto la seta. Sentiva la stoffa pizzicarle i capezzoli, ogni movimento un richiamo, ogni secondo un passo in meno verso il rifiuto. Si portò il telefono all’orecchio. Era ancora lì, lui. Silenzioso. Presente. In attesa. Come se sapesse.
Si bagnò le labbra con la punta della lingua, sentì la seta muoversi appena contro il seno teso, come se anche il tessuto sapesse che qualcosa era cambiato.
Non era più solo una telefonata.
Era un ingresso.
Un varco.
Una soglia che nessuno l’obbligava a superare, e proprio per questo, irresistibile.
Portò il telefono di nuovo all’orecchio. La voce era lì, ancora in attesa, ancora muta, come se volesse che fosse lei a dominare l’istante.
Il respiro uscì piano, rotondo, lento. Non tremava. Non esitava. Non cercava più di capire.
Aveva solo fame di sapere.
«Quando», disse.
E la parola restò sospesa nell’aria, come se fosse diventata materia.
Poi una pausa, solo un battito.
E di nuovo la sua voce, più bassa, più intensa.
«Ma ora… dimmi di più.»
La linea restava viva, e la voce tornò a parlarle, questa volta più lentamente. Quasi sussurrata, come se la distanza tra loro fosse svanita del tutto.
«Bene.»
Lorena non disse nulla. Il petto si alzava e abbassava con una lentezza forzata, come se trattenesse il fiato e con lui il senso dell’irrevocabile.
«La sera sarà comunicata il giorno stesso. Riceverà un luogo e un orario. Un’auto la verrà a prendere.
Non guiderà. Non chiederà. Non parlerà con l’autista.
Sarà condotta dove l’attendono. Nient’altro.»
Fece una pausa, e lei si accorse che stava stringendo il telefono con troppa forza. Si obbligò a distendere le dita.
«Quando arriverà,» disse la voce con la calma di chi non ha bisogno di convincere, «le verrà assegnata una stanza riservata.
All’interno troverà alcuni capi.
Sono stati scelti per lei. Pensati per il suo corpo, per il modo in cui lo muove, lo copre, lo protegge.
Li indosserà. Tutti.
Con attenzione. Come se ogni strato fosse una storia da raccontare.»
Lorena socchiuse gli occhi. Il tono era immobile, preciso, quasi devoto.
Eppure, dietro quelle parole misurate, sentiva una tensione che cresceva. Come se anche la voce tremasse appena, trattenendo qualcosa.
«Quando entrerà nella sala, sarà perfetta. Completa.
Davanti a lei: il vuoto. O meglio… l’attesa.
Pochi volti. Nessuna voce. Solo sguardi.
Non ci saranno istruzioni. Né copioni.
Solo il tempo, la luce, e la sua presenza.»
Lorena si accorse di avere i muscoli delle cosce contratti. Era completamente vestita solo in apparenza.
Sotto quella seta… c’era già tutto il resto.
La voce fece una breve pausa.
«Nulla sarà chiesto.
Ma tutto sarà possibile.»
Poi, più piano:
«E ciò che accadrà, Lorena… lo deciderà lei.
Ma lo saprà solo nel momento esatto in cui comincerà.»
Click.
Linea chiusa.
Il silenzio era più denso di qualunque parola.
Dopo il click, nell’attimo in cui la linea si spegne, tutto esplode in lei come un lampo. Una scarica di piacere le attraversa la schiena, un brivido rovente che sale e si irrigidisce sotto il petto.
È un sussulto improvviso, il corpo che si piega da solo, le gambe che cedono appena. Un tocco invisibile, un comando mai dato, eppure così potente. Le labbra si schiudono un filo, l’addome si contrae.
È un orgasmo che non cercava, eppure l’aspettava: la somma dell’attesa, del desiderio, dell’abbandono già iniziato.
Per un secondo — un attimo così breve da sembrare eterno — tutto si ferma.
Il suo respiro esplode, i polsi battono contro le tempie, il vino lungo la gola torna vivo.
Mani che si aggrappano al telo della vestaglia, pelli che si tendono, gocce di piacere che scorrono sotto la stoffa.
Quando l’onda si placa, lei resta così: sola, tremante, con il cellulare ancora in mano come un testimone.
Sente il corpo di nuovo pesante, affaticato dal piacere, eppure più vivo che mai. Sotto la vestaglia, percepisce il calore residuo rifrangersi sulla pelle.
Passano i giorni. Tre, forse quattro.
Lorena torna alla sua routine: lavoro, cene con amici, ritrovi professionali.
Eppure c’è un’ombra sottile su ogni suo gesto: un’ombra lucida e scura, fatta di luce interiore, desiderio trattenuto, tensione pronta a esplodere.
Sembra viva e addormentata allo stesso tempo.
Si alza più tardi. Raccoglie i capelli con movimenti lenti, materni, come a proteggere l’istinto scoperto.
Sotto i vestiti di ordinanza, il suo corpo ha ancora la memoria di quella scarica. Quel silenzio diventato orgasmo.
Il telefono resta spento, perché l’attesa è parte del gioco. Ma lei lo tiene con sé, come un pendente nascosto al collo, sempre presente.
Inaspettatamente, una sera, mentre rientra da un incontro di lavoro e il tramonto colora la sua vestaglia blu, il cellulare vibra.
È il momento.
Il display mostra un numero che non compare in rubrica. Non serve saperne il nome. Sa già..
Il telefono vibrò con un’intensità diversa. Più lunga, più profonda.
Lorena lo sollevò con calma, ma le dita tremavano appena.
Schermata anonima. Nessun nome, nessun numero.
Rispose. Nessun saluto.
«Sarà domani sera.»
La voce era la stessa. Ferma, quieta. Come se quel momento fosse già stato scritto da tempo.
«Alle diciannove. Un’auto verrà a prenderla sotto casa.
Porti solo sé stessa.
Tutto il resto sarà già pronto.»
Lorena chiuse lentamente le palpebre.
Non fece domande.
Non chiese cosa aspettarsi.
Non cercò di negoziare.
«Sarò pronta.»
«Lo sappiamo.»
Click.
Linea chiusa. Di nuovo.
Il giorno seguente l’aria sembrava diversa.
Sottile, vibrante. Carica di qualcosa che non si vedeva, ma si respirava.
Lorena passò la giornata in modo quieto, misurato, come se il tempo scorresse appena.
Fece una doccia lunga, profumata. Pettinò i capelli con cura. Nessun trucco eccessivo, solo quello che bastava a esaltare ciò che già era evidente.
Non aprì l’armadio. Non serviva scegliere.
Indossò solo un abito leggero da giorno, scarpe basse.
Sotto, nulla.
Alle diciotto e cinquantacinque era in piedi davanti alla finestra, tesa, lucida, viva. Il cellulare era spento.
Alle diciannove precise, la vide.
Un’auto scura si fermò davanti al portone. Non una limousine, non un’auto vistosa. Ma elegante, pulita, silenziosa.
Un autista scese, le aprì la portiera posteriore senza guardarla negli occhi.
Lorena salì. Nessuna parola fu pronunciata. Nessun vetro abbassato.
Solo il rumore della portiera che si chiudeva come un sigillo.
Il motore si mise in moto.
La città cominciò a scorrere oltre il finestrino.
Le mani di Lorena riposavano sulle cosce nude.
Respirava piano.
Lo sguardo era fisso davanti a sé.
Ogni minuto che passava… sapeva che la stava conducendo un po’ più dentro.


L’auto si fermò senza rumore, davanti a un palazzo anonimo, elegante, con grandi vetrate opache e una portineria che sembrava più un ingresso secondario che un luogo di rappresentanza.
L’autista scese, aprì la portiera, e fece un piccolo cenno. Non disse nulla.
Lorena uscì. L’aria era immobile, leggermente tiepida, senza odore.
La porta d’ingresso si aprì da sola. Una donna alta, in tailleur nero, la attendeva. Silenziosa, professionale. Le fece solo un gesto con la mano: la precedette lungo un corridoio rivestito di velluto scuro, illuminato da luci calde e basse.
Svoltarono tre volte. Nessuna finestra. Nessun altro.
Poi, una porta. Bianca, liscia, perfetta che si chiuse alle sue spalle con un suono pieno, discreto.
Lorena restò immobile per un istante.
La stanza era silenziosa, rivestita in velluto grigio fumo, lo specchio ovale rifletteva una luce dorata diffusa, calda. Di fronte, un manichino nero opaco esponeva con eleganza l’abito completo che avrebbe indossato.
Ai suoi piedi, su una mensola lunga in pelle, ogni singolo capo era disposto con una precisione quasi religiosa.
Cominciò a spogliarsi lentamente, lasciando cadere a terra il proprio abito da giorno come un guscio superato.
Era completamente nuda, il corpo ancora leggermente umido, il seno alto e pieno, i capezzoli scuri già tesi per l’eccitazione trattenuta.
Inspirò. Iniziò a prepararsi.
Per primo, prese il bustino.
Color cipria, rigido, steccato, con coppe profonde e scollate. Lo avvolse intorno al busto e cominciò a stringerlo con i lacci. La vita si assottigliò, il petto si sollevò con grazia, la pelle chiara spiccava tra i bordi lucidi del corsetto.
Poi indossò il reggicalze in tulle nero con inserti in raso lucido, alto e sottile, che si posò con naturalezza sui fianchi.
Le calze, 10 denari color carne con riga nera posteriore e bordo ricamato, le infilò lentamente, una alla volta, accarezzandosi le gambe mentre saliva. Le fissò con le clip del reggicalze: il rumore metallico, secco, la fece sussultare.
Scelse poi il tanga. Nero, a V sgambata, con doppia stringa sottile sui fianchi e un minuscolo anello decorativo sul davanti. Si posò con naturalezza al centro di quel corpo ormai già vestito per essere scoperto.
Copriva poco, ma quel poco era perfetto.
Poi fu il momento della camicia in organza trasparente, color avorio, leggera come un velo. Le maniche lunghe le sfioravano i polsi, il colletto classico appena abbottonato lasciava visibile il petto sollevato dal bustino, e sotto la stoffa, ogni tratto di pelle restava in evidenza.
La gonna a tubino in raso nero lucido fu la penultima. La sollevò con lentezza, la infilò con cura. Si chiudeva senza zip, con una chiusura invisibile e aderiva al corpo come una seconda pelle, seguendo i fianchi, i glutei, la coscia. Lo spacco posteriore saliva ardito, fino quasi sotto i glutei, ma non rivelava ancora nulla.
Poi le décolleté nere in vernice, con tacco a spillo in acciaio da dodici centimetri. Le infilò sedendosi sulla sedia, una alla volta, lasciando che il piede scivolasse dentro con un piccolo gesto deciso, preciso.
I guanti in raso nero, lunghi fino sopra il gomito, furono come un suggello. Li indossò lentamente, infilando le dita una ad una, tendendo la stoffa con piccoli colpi eleganti.
Infine, prese la maschera in velluto nero, sagomata per lasciare scoperta solo la bocca e il contorno del viso. Quando la indossò, fu come se la realtà cambiasse forma.
Ora, finalmente, non era più lei.
Era l’immagine di sé.
Sul tavolo era stata disposta anche una trousse.
All’interno, tutto il necessario per rifare il trucco: fondotinta satinato, contouring preciso, ombretto nero intenso con sfumature bronzo, eyeliner liquido grafico, ciglia finte definite e folte, rossetto bordeaux ultra lucido, matita labbra leggermente sfumata, e un fissante spray profumato all’ambra.
Lorena si sedette di fronte allo specchio.
Cominciò a truccarsi con movimenti lenti, esperti, curati. Ogni passaggio era un gesto preciso.
Il volto si trasformava. Non mascherato… affermato.
Quando finì, si alzò.
Andò verso l’appendiabiti.
Prese il trench in seta nera opaca, lungo, senza bottoni, solo un nastro da legare in vita.
Lo indossò, chiuse il fiocco, inspirò.
Il colpo fu secco, discreto. Una sola bussata. Poi la maniglia si abbassò e la porta si aprì senza fretta, silenziosa, come se anche lei sapesse che quello che stava per accadere non andava interrotto, né disturbato. Lorena restò immobile per un istante, il trench di seta nera chiuso stretto intorno al corpo come una seconda pelle, la maschera già in volto, lo sguardo dritto davanti a sé. Nessuno la attendeva dall’altra parte, nessuna voce la sollecitava. Solo un corridoio breve, rivestito di velluto scuro, illuminato da luci basse, calde, che non svelavano nulla se non il percorso da seguire.
Il pavimento assorbiva i suoi passi, eppure sentiva ogni centimetro sotto ai tacchi, come se il suolo vibrasse. In fondo, una tenda pesante e chiusa. Nessuna insegna, nessun suono. Solo un respiro lungo, che lei trattenne mentre avvicinava la mano al bordo del tessuto. Lo scostò con lentezza, lasciando che l’aria più calda della sala le accarezzasse la pelle del viso scoperta.
La sala si apriva come una cassa armonica. Ampia, silenziosa, rivestita interamente di penombra. Le pareti non si vedevano, ma si percepivano. Nessuna finestra. Nessuna luce diretta, tranne una: al centro dello spazio, un quadrato di luce gialla, morbida ma precisa, posato su un piccolo palco in legno scuro. Niente decorazioni. Solo una sedia nera, squadrata, immobile come una sentinella.
E attorno a quel punto, nel buio, presenze. Silenziose, invisibili, ma assolutamente vive. Occhi, seduti su poltrone che Lorena non riusciva a distinguere, la guardavano. La osservavano. Forse la desideravano già, o forse aspettavano che cominciasse a farlo lei per prima.
Fece un passo. Poi un altro. I tacchi toccavano il pavimento con decisione misurata, quasi ritmata, come se seguissero un tempo che solo lei poteva udire. Camminava verso la luce come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se in fondo tutto l’universo non avesse mai fatto altro che condurla lì.
Quando raggiunse il centro del palco, si fermò. La luce la avvolse interamente. Il trench rifletté un alone setoso, opaco, senza brillare. Restò immobile. La testa alta, la schiena dritta, il respiro leggero, quasi impercettibile.
Per lunghi secondi non successe nulla.
O forse, successe tutto.
Il silenzio intorno a lei era pieno. Denso. Gli sguardi non la sfioravano: la avvolgevano. Sapeva che in quel momento ogni dettaglio contava. Il modo in cui teneva le mani lungo i fianchi. Il modo in cui le sue gambe si appoggiavano appena l’una all’altra. Il modo in cui il suo petto si muoveva sotto il tessuto, lieve, ad ogni respiro.
Poi, lentamente, le mani guantate raggiunsero la cintura del trench. Le dita si mossero con calma, senza fretta, srotolando il nastro con la grazia di chi sa che ogni attimo vale più di cento parole. Il fiocco si sciolse. I lembi del trench si allentarono. Non c’era più nulla che tenesse il vestito chiuso. Bastava lasciarli andare.
E lei lo fece.
Aprì le mani.
Il trench scivolò lungo il corpo come una carezza che si arrende, accarezzò le curve dei fianchi, passò sulle cosce, e si posò sul pavimento in un sussurro.
Lorena rimase in piedi, dritta, fiera, vestita come un’opera esposta, ma ancora tutta da svelare. Nessun capo era stato rimosso. Nessun gesto ancora compiuto. Eppure, tutto era già carico.
Fu allora che qualcosa cambiò nell’aria.
All’inizio fu solo un suono basso, profondo, quasi impercettibile. Un battito ovattato, elettronico, pulsante.
Come un cuore che non batteva nel petto, ma sotto la pelle.
Poi, lentamente, le note cominciarono ad avvolgere lo spazio. Archi digitali, tessuti elettronici, il suono del desiderio distillato in onde. Non era musica per ballare. Era musica per guardare. Per respirare.
Poi arrivò la voce. Non forte. Non chiara. Ma perfettamente udibile.
Una donna. Bassa, lenta.
Forse era lei. Forse una copia. Forse una versione che nessuno aveva mai ascoltato prima.
«Essere vista… è più forte dell’essere toccata.
Essere guardata, scelta, fissata… è già penetrazione.»
Lorena non si mosse. Ma il respiro le si fece appena più profondo.
«Quando smetti di chiederti cosa penseranno…
cominci a sentire cosa vuoi davvero.»
Il bustino le serrava la vita, il seno alto si sollevava ad ogni respiro, le calze si tendevano lungo le gambe con una tensione che sembrava viva.
«Non c’è niente di più potente…
che spogliarsi per desiderio,
e non per necessità.»
La luce calda le accarezzava le clavicole, scivolava sulle curve dei fianchi nascosti dalla gonna lucida, baciava appena le labbra, lucide e scure, incorniciate dalla maschera che lasciava libero solo il necessario.
«L’arte non è essere nuda.
È decidere quando scoprirsi.
E per chi.»
Un sussurro tra il pubblico. Un movimento impercettibile. Forse un respiro trattenuto. Forse una mano che stringeva un bracciolo con più forza. Nessuno parlava. Nessuno tossiva. Nessuno si muoveva. Ma tutti, in quel momento, erano dentro di lei.
La musica continuava a crescere, ma non diventava mai invadente. Solo più densa. Più carnale.
Come se anche l’aria stesse cominciando a sudare.
Il battito della musica si fece appena più profondo, più sensuale, come se un secondo respiro si fosse aggiunto al suo.
Lorena era ferma. Il corpo teso, il volto nascosto dietro la maschera, le braccia lungo i fianchi, i guanti tesi, perfetti. Ogni curva del suo abito, ogni trasparenza appena accennata, ogni riflesso sulle calze sembrava pensato per un unico scopo: essere guardato.
Ma ora qualcosa, impercettibilmente, cambiava.
Un movimento nel buio.
Una sedia che veniva spinta all’indietro.
Un passo. Poi un altro.
Non un vociare. Non un segnale. Solo una trasformazione spontanea, naturale, come una corrente che prende forma da sé.
Le presenze nel buio, una alla volta, cominciarono ad alzarsi. Uomini e donne, figure appena distinguibili, vestite con cura, con misura, con rispetto. Nessuno fece rumore. Nessuno parlava. Ma tutti si avvicinavano.
E mentre lei restava fissa nella luce, sola sul palco, il perimetro intorno a lei cominciò a riempirsi di occhi, di volti, di corpi che si muovevano a pochi metri dalla pedana. Non salirono. Nessuno osò.
Ma si avvicinarono, lentamente, camminando in cerchio, come in una processione silenziosa.
La sala sembrava ruotare. Lorena diventava il centro assoluto di un’orbita viva, pulsante, affamata.
Da sotto, da vicino, la vedevano in ogni dettaglio. La curva delle caviglie nelle scarpe altissime. La tensione sulle ginocchia. Il bordo lucido della gonna che sfiorava le cosce. La trasparenza della camicia, il seno che si sollevava nel bustino, le clavicole appena illuminate, la bocca scura, lucida, carnale.
La musica non si interrompeva. La voce continuava, sussurrando come se venisse da dentro la sua mente.
«Quando non c’è contatto…
ogni sguardo diventa una carezza più forte.»
Lorena non si mosse.
Non ne aveva bisogno.
Erano loro, adesso, a muoversi per lei.
Uno si fermò sul lato sinistro, e la fissò con il capo appena inclinato. Un altro fece un passo in avanti, poi si fermò, come se non osasse andare oltre. Una donna dai capelli grigi si mise di fronte al palco e piegò appena il capo, come se stesse ascoltando il corpo di Lorena con gli occhi.
La luce calda continuava a scolpire ogni sua linea.
Le mani erano ancora lungo i fianchi, ma sotto i guanti la pelle cominciava a fremere.
Le scapole tese. Il ventre contratto.
I capezzoli, sotto la camicia di organza, si erano induriti da tempo. Ma ora erano più che tesi: in attesa.
Era lì da minuti. Forse dieci. Forse uno solo. Il tempo aveva cominciato a perdere contorno non appena i primi passi avevano cominciato a girarle attorno. Ora le figure, sempre silenziose, orbitavano sotto di lei, a pochi passi. Nessuna barriera. Nessuna protezione. Solo il dislivello basso del palco a segnare il confine tra l’alto e il basso, tra ciò che può essere toccato e ciò che va solo guardato.
Lorena sentiva gli occhi appesi alle sue gambe, al ventre fasciato dalla gonna, al bustino rigido che alzava il seno con grazia chirurgica. Sentiva anche quelli che indugiavano sulla maschera, sulla bocca lucida, e perfino su dettagli apparentemente secondari — il bottone appena chiuso della camicia, le cuciture delle calze sulle ginocchia.
Erano ovunque. Eppure nessuno si muoveva più.
L’attesa si era fatta quasi violenta.
Fu allora che decise.
Non si voltò.
Non cambiò posizione.
Sollevò la mano destra con lentezza, come se stesse portando alla luce qualcosa di sacro. Il raso del guanto brillava appena sotto la luce, nero, teso, sensuale come pelle nuova.
Con la mano sinistra, ancora perfettamente guantata, prese il bordo e cominciò a sfilarlo. Non con foga, non con esitazione.
Solo con lentezza.
Il tessuto cedette, cominciando dall’alto, scivolando sull’avambraccio, poi sul polso, poi oltre le dita, che apparvero una ad una, nude, delicate, lucide come se avessero già sudato desiderio.
Quando l’ultima falange si liberò, tenne il guanto per un istante tra le dita, come se fosse un oggetto prezioso.
Poi abbassò lo sguardo, per la prima volta.
Tra le figure attorno al palco, ne scelse una. Una donna. Era ferma, a meno di un metro dalla pedana, con un vestito color ottanio e uno chignon perfetto. Gli occhi erano fissi su Lorena, non con fame, ma con rispetto. Con ammirazione.
Lorena la fissò un solo istante. Poi fece un passo in avanti, verso il bordo.
Si chinò leggermente, il bustino che si piegava con un gemito muto.
Allungò la mano.
E le porse il guanto.
La donna lo prese con due dita, delicatamente, come si raccoglie qualcosa di vivo.
Lo osservò un secondo.
Poi lo portò al volto, lo sfiorò con le labbra, e infine lo annusò. A fondo.
Gli occhi si chiusero appena.
Poi, senza alcuna indicazione, lo infilò sulla propria mano sinistra.
La stoffa si adattò alla nuova pelle.
La cerimonia era compiuta.
Lorena non disse nulla. Si rialzò.
La mano destra, ora nuda, restava sospesa, il palmo rivolto verso il basso, come se avesse appena lanciato un incantesimo.
L’altra, ancora guantata, ancora chiusa, pendeva lungo il fianco.
Il silenzio dopo il gesto era denso, ancora più carico di prima.
La donna con il guanto alzò lentamente il braccio, come per suggellare un’alleanza invisibile, poi restò ferma.
Lorena, invece, fece un respiro lungo. Il petto si sollevò nel bustino, il seno spinto ancora più in avanti, scolpito e fiero.
Sentiva il sangue battere nelle tempie, ma anche nel ventre, in profondità.
Non era più solo osservata. Era offerta.
Fu in quel momento che la musica cambiò.
Il ritmo si abbassò, divenne più grave, più profondo.
Non più un battito leggero, ma un’onda che sembrava salire dal pavimento, insinuarsi lungo le gambe, scivolare sotto la gonna, risalire la colonna vertebrale e strofinarsi sul palato.
Poi la voce.
Maschile. Lenta.
Un sussurro che non cercava di essere erotico. Ma lo era. Come un fiato caldo nell’orecchio.
«Mostrati come vuoi, Lorena.
Come più ti piace.
Come piace a te.
Non a loro.»
Lei chiuse gli occhi.
E fu lì che cominciò davvero.
Il corpo si mosse appena, ma con una grazia fluida, sinuosa come un serpente che sa di essere guardato.
Girò lentamente su sé stessa, lasciando che la gonna ondeggiasse impercettibile, come se danzasse appena sotto la luce. Il bustino seguiva il respiro, e quel respiro si faceva sempre più profondo.
Sentiva ogni sguardo su di lei come un dito caldo.
E cominciava a provare piacere, reale, fisico, inconfondibile.
«Non spiegarti.
Non chiedere il permesso.
Non dare nulla… se non lo vuoi dare.
Ma se decidi di farlo… fallo per te.»
La camicia di organza aderiva al seno come un velo. La pelle sotto cominciava a brillare di un’umidità viva, sensuale.
Lorena sollevò le mani, fece scivolare lentamente le dita sui bottoni, uno alla volta. Non li slacciò ancora.
Solo li toccò.
Poi fece un mezzo passo indietro, inarcando lievemente la schiena.
Il pubblico non osava più muoversi.
Erano rapiti.
Travolti da quella lentezza, da quella consapevolezza nel piacere.
Lei non stava eseguendo.
Stava godendo.
Un altro bottone si allentò.
La stoffa si aprì appena.
La voce, intanto, non smetteva. Non imponeva.
Accarezzava.
«Non c’è vergogna in ciò che è bello.
Non c’è errore in ciò che desideri.
Non sei qui per loro.
Sono loro qui… per vederti fiorire.»
Lorena lasciò andare il secondo bottone.
Poi il terzo.
La camicia ora era aperta fino sotto al busto, ma non si discostava. Era solo una promessa.
Lentamente fece un passo verso il bordo del palco.
La testa alta, le labbra appena dischiuse, il seno ancora trattenuto dal bustino, ma le spalle ora libere, le clavicole in piena luce.
Lorena aprì gli occhi.
Il corpo le bruciava di desiderio trattenuto, e la voce dell’artista, fino a un attimo prima sussurro seducente, ora sembrava lontana.
Non aveva più bisogno d’essere guidata.
Era lei, ora, a condurre tutto.
Abbassò lo sguardo. Un solo istante.
Poi le mani si mossero con naturalezza.
I bottoni rimasti della camicia, pochi, cederono uno dopo l’altro sotto la pressione delle dita. Il busto si aprì del tutto.
Con un gesto deciso, fece scivolare la camicia giù dalle spalle, lungo le braccia, fino ai gomiti, e mentre la stoffa stava ancora scendendo, le dita afferrarono la chiusura invisibile della gonna.
Uno scatto.
Un solo gesto.
La gonna si aprì e cadde insieme alla camicia, in un unico movimento liquido, come se i due capi fossero stati progettati per svanire insieme, per lasciarla esposta nel momento esatto in cui lo desiderava.
E nel momento esatto in cui la gonna toccò terra e la camicia si posò accanto ad essa, nella sala si accese un leggero brusio.
Non parole. Non commenti. Solo un sussurro collettivo, un respiro spezzato che percorse il pubblico come un'onda sommessa, come se il corpo rivelato avesse violato un equilibrio troppo a lungo trattenuto.
Fu l’effetto della visione. Della carne tesa, vestita di desiderio. Della postura eretta, fiera, sensuale, che diceva più di qualunque discorso.
Lorena restò lì.
Le gambe salde, il bustino teso sul petto, la pelle viva sotto la luce.
Non si mosse.
Non abbassò lo sguardo.
Lasciò che fosse quel rumore a piegarsi a lei, non il contrario.
Il brusio non era più solo un sussurro. Era tensione viva, sottopelle, appena trattenuta, come un respiro collettivo sul punto di esplodere.
Ma Lorena non sentiva più il pubblico.
Sentiva solo quel calore nel ventre, diventato ormai impossibile da ignorare, da trattenere, da fingere.
Le cosce le pulsavano. Il sesso reclamava attenzione, bagnato, teso, gonfio.
Era eccitata in un modo che non sapeva di poter provare davanti a degli sconosciuti. E forse proprio per questo — proprio perché non erano suoi — decise di concedersi del tutto.
Chiuse gli occhi.
Sollevò la mano destra, nuda, lucida, e con un movimento lento ma deciso scivolò sotto il bordo del tanga.
Le dita trovarono subito la carne bagnata, calda, pronta.
E cominciò a muoversi.
Non era un gesto teatrale.
Era autentico. Sincero.
Il suono del respiro le si spezzò in gola. Un gemito lieve, appena sussurrato… ma non restò lì.
Dal nulla, una cassa discreta nascosta sotto il palco amplificò il suono.
Piccolissimo. Ma netto.
Quel primo sospiro di piacere, filtrato da un microfono invisibile, si diffuse nella sala come un’onda erotica cristallina, impossibile da ignorare.
I presenti trattennero il fiato.
Qualcuno si irrigidì.
Nessuno osò parlare.
Ma tutti sentirono. Tutti la ascoltarono.
Lorena non sapeva del microfono. Non ancora.
Continuò.
Le dita si muovevano con precisione crescente, lente all’inizio, poi più decise.
Aprì leggermente le gambe. Il bustino le impediva di respirare a fondo. Ma la pelle sotto tremava.
La mano sinistra si strinse al bordo del palco, come se dovesse sorreggerla.
Un altro gemito.
Questa volta più forte.
Più sporco.
E il microfono lo restituì pieno, profondo, reale.
Non ci fu più distanza.
Non c’era più donna e pubblico.
C’era solo Lorena che godeva, e il mondo che ascoltava.
Quando venne, lo fece con un sussulto del ventre, la testa all’indietro, un respiro spezzato che si trasformò in un lungo sospiro roco, caldo, trattenuto e poi lasciato andare.
La sala restò immobile.
Congelata.
Rapita.
Lorena si chinò in avanti.
Sfilò lentamente la mano dal tanga, ancora umida.
Aprì gli occhi.
Era sudata. Il bustino le stringeva troppo.
Aveva bisogno di libertà.
Sollevò le mani.
Sciolse il laccio posteriore.
E fece scivolare il bustino giù, lentamente, lasciando che il seno pieno, vivo, finalmente libero, si mostrasse in tutta la sua potenza e bellezza.
Il pubblico trattenne ancora il fiato.
Ma ora, Lorena non era più solo desiderata.
Era adorata.
E lei, nuda fino al tanga e alle calze, si lasciò guardare.
Lorena restò immobile per un istante, con il bustino ormai ai suoi piedi, il respiro che si stava placando, il sesso ancora umido e gonfio dell’orgasmo appena vissuto. Il silenzio nella sala sembrava irreale, carico di trattenimento e attesa, come se tutti sapessero che non era ancora finita.
E lei, lo sapeva perfettamente.
Abbassò lo sguardo.
Poi, senza guardare nessuno, fece scivolare entrambe le mani lungo i fianchi, si infilò con naturalezza tra le stringhe sottili del tanga, e con un solo gesto fluido lo abbassò lentamente.
Scivolò lungo la pelle, sfiorò l’inguine, la piega delle cosce, poi si distese lungo le gambe e cadde con delicatezza, come un ultimo velo che si arrende.
Si chinò con grazia, lo raccolse, e lo tenne in mano.
Era nuda. Completamente.
Solo il reggicalze nero le cingeva ancora la vita, con le clip tese a sostenere le calze, lisce e leggere come pelle. I tacchi la elevavano, e l’intero corpo era una scultura viva, palpitante.
Eppure… non tremava.
Con il tanga stretto tra le dita, fece un passo verso il bordo del palco. Il suono dei tacchi risuonò preciso, metallico.
Poi un altro passo.
E un altro.
Scese.
I presenti si aprirono lievemente al suo passaggio, nessuno parlava, nessuno osava muoversi. Tutti la osservavano in silenzio, come si guarda un miracolo che cammina.
Lorena avanzò lentamente tra i corpi immobili.
Gli occhi puntati su di lei.
Le bocche dischiuse.
I respiri trattenuti.
Camminava con eleganza ferma, il busto alto, le spalle indietro, le natiche piene e nude che ondeggiavano appena, le cosce forti e levigate. Ogni passo era una sfida e una benedizione insieme.
Poi la vide.
La donna che aveva ricevuto il guanto.
Era ancora lì, immobile, con lo sguardo teso, il braccio ancora guantato, come se aspettasse quel momento da sempre.
Lorena si avvicinò.
Non disse nulla.
Sollevò lentamente la mano destra, quella nuda, e porse il tanga alla donna, come si offrirebbe un fiore o una promessa.
L’altra lo prese, con due dita, con delicatezza. Lo guardò.
Poi lo strinse.
Lo portò al volto.
Annusò.
Chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, Lorena era a pochi centimetri dal suo viso.
La guardava. Non con dolcezza, ma con intensità.
Le due bocche erano vicine, talmente vicine che bastava un mezzo respiro per sfiorarsi.
Si piegò in avanti, lentamente, come per baciarla.
Ma non lo fece.
Si fermò al limite esatto.
Dove l’eccitazione vibra e non tocca.
Dove il bacio mancato vale più di mille concessi.
Il tempo sembrava fermo.
Il suo corpo, ancora vibrante, era rimasto a pochi centimetri da quello della donna. I loro respiri si mescolavano. Il tanga era passato di mano, il bacio mancato sospeso nell’aria come un filo di fumo che non svaniva.
Poi, improvviso, un rumore lieve.
Un clic secco.
Qualcosa si mosse.
Dall’estremità opposta della sala, una porta si socchiuse da sola.
Non era una porta qualunque: il bordo era invisibile prima, nascosto nel rivestimento scuro delle pareti.
Ora si apriva lentamente, senza che nessuno la toccasse.
Da dentro, una luce intensa. Calda, viva.
Non fredda.
Una luce che sembrava chiamare, ma non forzare.
Lorena si girò lentamente.
Tutti seguirono il suo sguardo.
Il pubblico non osava muoversi. Nessuno la toccava. Nessuno parlava.
Solo quegli occhi su di lei, ancora, mentre voltava le spalle nuda e cominciava a camminare verso la soglia aperta.
I tacchi rimbombavano lievi sul pavimento. Le natiche si muovevano sotto il reggicalze, le calze lucide catturavano l’ultima luce del palco.
Camminava con calma, senza fretta, senza alcun bisogno di spiegare.
Quando raggiunse la porta, si fermò per un istante.
Non si voltò.
Non salutò.
Entrò.
Il suo corpo fu invaso dalla luce.
E poi svanì oltre la soglia, come assorbita da un’altra realtà.
La porta si richiuse.
Un clic morbido.
Un ultimo silenzio.
E il palco restò vuoto.
Ma nessuno, lì dentro, fu più lo stesso.

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scritto il
2025-07-17
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