In Vetta 6^ Parte
di
Ironwriter2025
genere
saffico
Appena oltrepassata la soglia, Lorena sentì la porta chiudersi alle sue spalle con un click secco, netto, irreversibile. Si voltò istintivamente, ma non trovò alcuna maniglia, solo una parete nera uniforme, liscia e priva di appigli. Nessuna via d’uscita visibile.
La luce che l’aveva attirata si era trasformata in un bagliore soffuso, lattiginoso, che filtrava da tendaggi pesanti disposti lungo le pareti. Davanti a lei, un corridoio stretto e silenzioso, pavimentato in velluto scuro.
I suoi tacchi affondavano nel tessuto, attutendo ogni passo, ogni suono. Sembrava camminare dentro un sogno.
O in una prigione di velluto.
Aveva freddo. Non per il clima, ma per l’adrenalina che le stringeva la schiena nuda e il ventre ancora acceso. Indossava solo le calze velate con la riga posteriore, sorrette dai sottili elastici del reggicalze nero, e le sue scarpe lucide con il tacco d’acciaio.
Il resto del corpo era nudo, esposto, ancora leggermente arrossato dall’orgasmo vissuto poco prima davanti a decine di sconosciuti.
Ai lati del corridoio, nicchie profonde nascoste da veli scuri. Dietro quei veli, figure immobili, maschili e femminili. Alcune nude, altre vestite in modo cerimoniale. Tutte mascherate. Nessuna parlava, nessuna si muoveva. Ma Lorena sentiva addosso i loro occhi, lo sguardo che scrutava ogni curva del suo corpo, ogni goccia di sudore, ogni traccia del suo desiderio ancora vivo.
Era come se quelle presenze sapessero già tutto. Come se l’avessero osservata da dentro il buio.
Quando giunse in fondo al corridoio, le tende si aprirono da sole, silenziosamente. Davanti a lei, una sala circolare con pareti nere e sei specchi ovali appesi tutto intorno, ciascuno inclinato leggermente in modo da rifletterla da angolazioni diverse.
Il pavimento, anch’esso uno specchio nero, sembrava liquido. Ogni suo passo lasciava un’eco visiva moltiplicata, distorta, amplificata.
Al centro della stanza, una piattaforma circolare, leggermente sollevata.
Lorena salì senza sapere perché.
Appena i suoi tacchi toccarono il centro della pedana, un suono le attraversò il corpo: un gemito. Ma non era uno qualsiasi.
Era il suo.
Un campionamento perfetto, amplificato e immerso nello spazio. Seguito da un altro, e poi un altro ancora.
I suoi gemiti di piacere, registrati e ora diffusi da altoparlanti nascosti. Risuonavano fra gli specchi, si riflettevano insieme alla sua immagine.
Quel momento intimo, così carnale, così estremo, veniva ora rilanciato nello spazio, come se l’intera stanza stesse godendo con lei.
Lorena restò immobile. Non per timore. Per vertigine.
Poi, da una tenda laterale, una figura entrò in silenzio. Alta, avvolta in un mantello scuro. Il volto completamente coperto da una maschera liscia e nera, priva di occhi o bocca. In mano, un vassoio d’argento.
Sopra il vassoio, due oggetti: una chiave antica, decorata con incisioni. E un collare in raso nero, sottile, elegante, con una piccola fibbia metallica.
Nessuna parola.
La figura si fermò a un metro da lei. Aspettava.
Lorena non mosse un muscolo.
Le luci si erano raccolte tutte su di lei, lasciando il resto della sala in un buio quasi teatrale, dove persino i contorni della figura mascherata sembravano fluttuare in uno spazio senza profondità. La sua immagine si rifletteva ovunque: nei sei specchi ovali, nel pavimento sotto di sé, persino nella curvatura lucida del vassoio d’argento.
Era sola e al centro di tutto.
Il cuore le batteva nel petto come se volesse scappare prima di lei.
Non c’era musica. Non c’erano parole. Solo i suoi gemiti di piacere, registrati, che ora si facevano più lenti, rallentati, sensuali. Quasi un sussurro costante. Un’eco di sé che la cullava e, allo stesso tempo, la denudava ancora di più.
Non poteva nascondersi.
Non voleva.
Si chinò lentamente. Il busto nudo piegato, i guanti ormai rimossi lasciavano scoperte le braccia che si tendevano verso il vassoio. I capezzoli sfiorarono l’aria ferma.
Prese la chiave.
Poi il collare.
Il materiale era freddo. Ma morbido. Un raso opaco, con l’interno lievemente felpato. La fibbia, un piccolo anello metallico a forma di goccia. Nessuna scritta. Nessun simbolo.
Lorena strinse il collare attorno al collo con dita lente, misurando la chiusura come un gesto sacro. Il raso aderì alla pelle con morbida precisione, e il piccolo anello metallico cadde appena sopra la clavicola. Non c’era rumore, né commento, solo l’attimo sospeso in cui anche il respiro pareva trattenersi.
Subito dopo, una luce si accese nella parete davanti a lei, rivelando una porta. Si aprì da sola, con un movimento lento, silenzioso. Oltre l’ingresso, la luce era calda, dorata, tremolante.
Non artificiale. Candele.
L’ambiente che si svelò non era freddo o scenografico: era intimo, come una stanza privata arredata con cura. Pareti rivestite in legno scuro, un tappeto orientale, un letto basso, e una poltrona in pelle, rivolta verso l’ingresso.
Lorena varcò la soglia.
La figura seduta era una donna.
Elegantissima, gambe accavallate, una tuta nera di seta che sembrava cucita addosso. La maschera copriva metà del volto, lasciando scoperta una bocca truccata con rossetto scurissimo, quasi viola. I capelli erano raccolti in uno chignon imperfetto, volutamente disordinato.
Non parlò.
Non si alzò.
Appoggiava un braccio al bracciolo della poltrona. L’altro reggeva un bicchiere di cristallo, dentro un liquido ambrato che rifletteva la luce delle candele. Le dita, lunghe ed eleganti, tamburellavano piano contro il vetro.
Lorena si fermò. La donna la guardava. Ma non con curiosità o desiderio: con una calma assoluta, come se l’avesse già vista mille volte. Come se sapesse esattamente chi fosse.
Poi, la donna sollevò leggermente il mento.
Un cenno.
Un invito.
Lorena fece un passo. Il suono del suo tacco sulla pietra interruppe il silenzio.
Un altro passo.
Il collare le scendeva sul petto, la pelle nuda catturava il bagliore delle candele. La tensione si tagliava col respiro.
Solo quando fu a pochi metri da lei, la donna parlò.
La sua voce era bassa, vellutata, quasi lenta.
«Sei più bella di quanto mi aspettassi. E molto più vera.»
«Hai scelto tu di entrare. Ora, dimmi... fino a dove sei disposta ad arrivare?»
Lorena la fissò in silenzio. Lo sguardo saldo, gli occhi verdi accesi da quella domanda che era più un invito che una sfida.
Si sentiva scoperta, ma non vulnerabile.
La pelle nuda brillava nel bagliore dorato delle candele, il collare al collo era come una firma sul suo stato d’animo: pronta, curiosa, consapevole.
Fece un passo, poi un altro.
I tacchi delle sue décolleté in vernice toccarono il pavimento in pietra con un suono deciso, netto, mentre la figura elegante di fronte a lei si alzava lentamente dalla poltrona, senza fretta.
La donna aveva una presenza magnetica. Il corpo fasciato nella tuta di seta nera sembrava disegnato per farsi desiderare, il tessuto seguiva ogni curva senza rivelare nulla. I sandali col tacco a spillo lasciavano scoperti i piedi curatissimi, le unghie laccate di scuro. Si muoveva con grazia felina, nessun gesto casuale.
Si avvicinò.
Lorena non si mosse, non si ritrasse. Restò eretta, il mento alto, il petto nudo che si alzava appena al ritmo del respiro. Nessuna esitazione.
Solo attesa.
La donna si fermò davanti a lei. La separava solo il profumo — profondo, maturo, con note d’ambra e pelle. Poi, con due dita, le sfiorò la clavicola, seguendo lentamente il bordo del collare. Un gesto leggero, quasi professionale, ma che scivolò sottopelle come una corrente sottile.
«Non sei qui per essere comandata. Lo so. Lo vedo.»
«Sei qui per scoprire fin dove puoi spingerti, senza perdere te stessa.»
Le si fece accanto, portandosi dietro il tavolino su cui prima aveva posato il bicchiere. Raccolse un piccolo oggetto in velluto nero. Lo mostrò con la stessa calma di chi sa che non serve spiegare.
Una benda.
Semplice, pulita, con due nastri lunghi.
«Niente parole. Niente domande. Solo un limite in meno.»
«Se te la metti… io capirò. E agirò.»
Non aggiunse altro.
La lasciò lì, posata sul cuscino della poltrona, e si allontanò di qualche passo.
La stanza era immobile. Solo il crepitio lieve delle candele e il fruscio appena percepibile del velluto della tuta nera quando la donna si voltò di nuovo verso di lei. Non aveva parlato, ma l’attesa era un discorso in sé.
Lorena osservò la benda, posata sul cuscino della poltrona. Sembrava innocua, perfino morbida. Ma in quel momento rappresentava una scelta netta: rinunciare alla vista, rinunciare al controllo, farsi attraversare senza vedere.
E non era ciò che voleva.
Fece un passo. Poi un altro. Le sue calze frusciavano lievemente a ogni movimento, i tacchi spezzavano il silenzio con regolarità. Si avvicinò alla poltrona, non alla donna.
Raccolse la benda con due dita.
La guardò.
Poi sollevò gli occhi verso la figura mascherata che la osservava in piedi, a pochi metri.
E, con voce bassa, ferma, carica di un calore che non tremava:
«Non ho bisogno dell’oscurità per andare oltre.»
Lasciò la benda sul tavolino.
Non era una sfida, non era arroganza. Era consapevolezza pura.
La donna la fissò per un attimo che parve lunghissimo. La tensione cambiò consistenza. Non più attesa, ma risposta.
Si avvicinò. Senza fretta.
I sandali le lasciavano le caviglie nude, e ogni passo era un movimento liquido. Lorena rimase ferma, il petto nudo, il ventre appena contratto, gli occhi puntati nei suoi.
Quando fu davanti a lei, non la toccò.
Le si avvicinò ancora. Le labbra, truccate in modo impeccabile, arrivarono a pochi centimetri dal suo orecchio. La voce uscì sottile, carica di una calma innaturale.
«Bene. Allora guardami. Perché adesso tocca a me.»
Lorena sentì una scarica attraversarle la schiena. Non di paura, ma di desiderio lucido, incontrollabile, senza nebbia.
La donna fece un passo indietro. Lentamente, sfilò la zip laterale della tuta.
La seta nera si aprì come una seconda pelle che si stacca. Il corpo che ne emerse era definito, armonioso, pieno. I seni liberi, i fianchi pieni ma scolpiti, un corpo femminile che non chiedeva giudizio. Solo sguardi.
Poi, senza staccare gli occhi da Lorena, salì sul letto.
Si voltò, inginocchiandosi sul bordo, le gambe divaricate. Un invito.
Ma ancora una volta, senza parole.
Lorena restò un istante immobile. Poi si tolse le scarpe. Le calze restarono, così come il reggicalze.
La donna si avvicinò lentamente.
Nuda, calma, come se il suo corpo non fosse un’arma, ma una lingua con cui parlare a Lorena. Ogni passo sui tappeti ammorbidiva il tempo, ogni movimento dissolveva la tensione.
Le luci delle candele tremolavano sulle pareti, ma i suoi occhi — quelli dietro la maschera — non tremavano affatto.
Si avvicinò al letto.
Con delicatezza, porse la mano.
Lorena la fissò per un attimo, poi la prese. La pelle era calda, viva, sicura.
La donna la guidò piano, senza una parola, ma con una precisione assoluta, come se sapesse già dove posare ogni dito.
Lorena si lasciò condurre.
Salì sul bordo del letto, le lenzuola di velluto la accolsero con una carezza silenziosa. Si sdraiò.
Prima sul fianco. Poi sulla schiena, mentre la donna la sistemava con dolcezza, aprendo le braccia, facendole stendere le gambe con un gesto lento, quasi materno.
Ogni tocco era misurato, non esplorava: rassicurava.
Poi si chinò su di lei.
Le sfiorò una spalla con le labbra, salì fino al collo.
La voce, quando arrivò, fu bassa, quasi un respiro.
Calda come un segreto confidato tra le lenzuola.
«Hai fatto qualcosa che pochissime donne riescono a fare.»
«Hai mostrato te stessa, senza chiedere niente in cambio.»
«Ora… lascia che sia io a offrirti qualcosa.
Un viaggio.
Una vetta.
Un paradiso che non dimenticherai.»
Lorena non disse nulla. Ma chiuse gli occhi per un istante. Il respiro rallentò.
Il corpo si rilassò sotto quelle parole.
La donna si sdraiò accanto a lei, non sopra, non addosso. Le si stese di fianco, poggiando una mano sull’addome.
La pelle tesa tremò appena.
La mano cominciò a disegnare cerchi lenti, accarezzandola senza mai salire troppo in alto né scendere troppo in basso.
«Resta così… lascia che ti ascolti.
C’è una musica nel tuo corpo.
E io voglio solo suonarla piano, senza sbagliare una nota.»
Lorena lasciò uscire un respiro più profondo.
La mano della donna non cercava. Accoglieva.
Toccava il fianco, risaliva verso il seno ma si fermava sul bordo. Poi tornava giù, scivolava sull’anca, sulla parte interna della coscia. Mai invadente. Sempre presente.
Poi la voce tornò, più vicina all’orecchio.
«Non voglio che tu venga.
Voglio che tu dimentichi come si fa a trattenerti.
Voglio che quando accadrà…
non sia una fine. Ma l’inizio.»
Lorena aprì gli occhi.
La guardò.
Non aveva mai sentito parole così.
Non promesse vuote.
Profezie.
Eppure, niente era ancora successo.
Le dita continuavano a disegnare arabeschi invisibili sulla pelle.
Sfioravano l’addome come se leggessero un testo antico inciso sotto la pelle. Salivano sul fianco, sfiorando il bordo del seno ma senza ancora toccarlo, poi scendevano sull’interno coscia, fermandosi poco prima del calore.
Lorena socchiuse le labbra, non per parlare, ma per lasciare passare meglio l’aria.
Il suo corpo cominciava a rispondere con minuscoli impercettibili movimenti: una gamba che si rilassa, il bacino che si solleva di un millimetro.
Senza pensarci.
La donna si spostò appena, il busto vicino al suo. Le sussurrò ancora:
«Lascia che ti sciolga, pezzo dopo pezzo.
Io so dove toccarti.
Ma voglio aspettare che sia il tuo corpo a chiamarmi lì.»
Le dita salirono lentamente verso il seno.
Si posarono sul bordo esterno, con una tenerezza spiazzante, poi cominciarono a girarci intorno, come per disegnarne la forma, per mapparlo.
Il capezzolo era già teso, duro, gonfio di sangue. La mano non lo toccava ancora. Solo il palmo sfiorava la pelle calda, il contorno, la curva.
Lorena si morse il labbro.
Le palpebre si abbassarono. Il collo si inarcò lievemente.
Poi, finalmente, un pollice lo sfiorò.
Una volta.
E poi niente.
Solo attesa.
Le labbra della donna si posarono sulla spalla, poi sul collo, lente, senza rumore. Le inspirava la pelle, come per assorbirla, come per impararne l’odore.
«Stai bene, Lorena?
Posso andare un po’ più in là?»
La risposta non arrivò con la voce, ma con il corpo.
Lorena si voltò verso di lei, le prese il polso con dolcezza, e lo guidò verso l’interno coscia.
Un gesto che non era un sì.
Era un adesso.
La mano scese.
Sfiorò il bordo del reggicalze.
Si infilò sotto il tessuto, accarezzando la pelle liscia e calda tra le gambe.
La trovò bagnata.
Non umida.
Bagnata.
Lorena aprì le cosce con lentezza. Nessuna timidezza. Nessun pudore.
Stava consegnando quella parte di sé che fino a ora aveva solo protetto.
Ed era pronta a farla vibrare.
«Brava...»
«Resta qui. Resta con me.
Ti porterò dove non si può tornare indietro.»
E finalmente, la bocca della donna scese.
Non in fretta.
Non per fare.
Ma per essere.
Le labbra si posarono sulla pelle tra le cosce, prima a lato, poi più al centro, sempre con quel tempo sospeso. La lingua sfiorò appena, solo un tocco che sembrava una domanda fatta con la carne.
Lorena ansimò. Ma ancora non gemeva.
Il corpo cominciava a tremare piano, come uno strumento che si accorda.
Ogni muscolo era teso, ma non rigido.
Ogni fibra pronta, ma non bruciata.
Il piacere stava salendo. Lentamente.
Le labbra della donna si aprirono appena.
La lingua sfiorò la pelle sensibile tra le gambe con una precisione quasi crudele, misurata, ripetuta, perfetta.
Lorena sentì un sussulto partire dal ventre e irradiarsi ovunque, fino ai polpastrelli, fino alle spalle, fino al cervello. Il respiro si spezzò. Il bacino si sollevò impercettibilmente.
Poi le dita.
Due, lente, calde, entrarono dentro di lei con una naturalezza sconvolgente, come se le aspettasse da sempre.
Erano profonde. Non spinte, non veloci: affondate piano, ma fino in fondo, fino a premere quel punto interno che nessuno prima aveva saputo trovare con tanta facilità.
E lì cominciarono a muoversi.
La lingua restava sul clitoride, disegnando cerchi piccoli e tesi, un ritmo costante, preciso, spietato nella sua dolcezza.
Le dita dentro, tese, curve, a carezzare la parete più sensibile, con colpi brevi e regolari.
Lorena gemette. Forte.
Il primo suono vero.
Le gambe si irrigidirono, i talloni affondarono nel letto, le mani cercarono qualcosa da stringere — il lenzuolo, l’aria, sé stessa.
«Oh Dio… sì…»
La voce le uscì spezzata, profonda, come se non l’avesse mai sentita prima.
Il piacere saliva, saliva veloce, le stringeva il ventre, le si aggrappava dentro, le faceva tremare le cosce, le faceva perdere il controllo del respiro.
Ci stava arrivando.
Poi, all’improvviso…
tutto si fermò.
La lingua si staccò.
Le dita si ritirarono con lentezza.
Un bacio, lento, quasi materno, sull’inguine.
Lorena spalancò gli occhi.
«No…»
Un sussurro. Un lamento. Una supplica che non aveva pensato di pronunciare.
La donna si sdraiò accanto a lei, le mani che accarezzavano l’interno coscia con la tenerezza di una promessa non dimenticata.
«Ssshhh… respira…»
«Lascia che scenda. Per poi salire più in alto.**
Lorena tremava. Il cuore impazzito. Le dita che stringevano l’aria. Le gambe ancora aperte, gonfia, bagnata, pronta.
La bocca della donna tornò a sfiorarla, ma non là.
Sul petto. Sui fianchi. Sul collo.
Poi — piano — la mano tornò giù.
Le accarezzò il clitoride con il polpastrello, piano, con una lentezza disumana.
Lorena si sollevò di nuovo.
Non era più solo eccitata.
Era disperata di piacere.
«Lo vuoi?»
«Te lo darò. Ma sarà mio. Tutto.»
E allora la bocca scese di nuovo.
E di nuovo le dita.
Stesse due. Stessa profondità.
Ma stavolta il ritmo era più spinto, più preciso, più brutale nella perfezione.
La lingua le batteva addosso, rapida, affamata, e Lorena si perse.
Il piacere la prese di nuovo, due volte più forte, tre volte più veloce, e quando sentì che stava esplodendo di nuovo…
si fermò ancora.
Un solo gemito.
«Ti prego.»
Improvvisamente, mentre le loro labbra si stavano sfiorando di nuovo, un ronzio basso saturò l’aria. Lorena sollevò la testa, confusa, il cuore ingolfato di piacere e imprevisto.
La donna si mosse di un millimetro, gli occhi che cercavano nella semioscurità.
Con un scatto meccanico, le pareti laterali della stanza incominciarono a scendere, silenziose come tende, rivelando dietro di sé dei pannelli di vetro. Lampi di luce, riflessi. Ombre in movimento.
Lorena si fermò. Respirò.
Il vetro le restituì sguardi, moltitudini di sguardi: alcuni ammirati, altri intensi, altri arrestati in un’espressione di sorpresa o brama.
Le pareti si abbassarono fino a terra. Lei vide forme, volti, figure che la guardavano.
Non ostili. Non invasive. Ma affascinate. Desiderose.
La donna si accostò, il corpo lucido accanto al suo. Le labbra al suo orecchio, mentre una mano scivolava sul suo fianco con decisione.
«Non sei più sola, Lorena.
Hai trasformato un privilegio in rituale. Ed ora… il tuo corpo è un tempio aperto a chi sa guardare.»
Lorena sentì il calore irradiarsi dal ventre al cuore. Non era vergogna. Non era panico.
Era consapevolezza espansa.
Si sentiva potente, dominatrice del proprio piacere, eppure generosa, capace di dare a chi voleva vedere.
Le dita della donna tornarono a lavorare, con quella sincronia brutale e dolce che le aveva già portate vicine all’orlo.
Il corpo di Lorena vibrò, ancora più forte, ora sotto mille occhi che la celebravano in silenzio.
E mentre le carezze continuavano, quel ronzio si trasformò in un sussurro collettivo: nulla di udibile, ma un’eco di respiro condiviso, un fremito che cresceva come un’onda.
Il desiderio divenne… gigantesco.
E proprio sul crinale dell’abisso, la donna rallentò.
Spense la lingua. Ritirò le dita.
Il corpo di Lorena era un campo minato di tensione pura.
Le dita della donna tornarono dentro di lei, decise, profonde, senza più esitazioni.
Nessuna carezza. Nessuna dolcezza.
Solo ritmo.
Solo intensità.
Lorena spalancò gli occhi e si piegò indietro sul letto, il corpo che si arcuava, le mani che scivolavano sopra le lenzuola in cerca di qualcosa da afferrare — ma nulla bastava.
Non c’erano più punti d’appoggio.
La voce della donna era un sussurro denso, veleno dolce all’orecchio:
«Adesso non ti fermerai.
Non ti salverà il silenzio.
Ogni suono che farai… lo sentiranno tutti.»
E mentre lo diceva, un click metallico si udì da qualche parte.
Un microfono.
Attivato.
Un attimo dopo, il primo gemito di Lorena — un suono ruvido, involontario, profondo —
esplose negli altoparlanti della sala, rimbalzando sui vetri, invadendo le stanze, raggiungendo ogni spettatore oltre il vetro.
Un sussulto tra gli ospiti. Ma nessuno parlava.
Solo occhi, solo respiri trattenuti, solo corpi immobili davanti alla scena.
E lei, nuda, spalancata sul letto, reggicalze e calze a reggere una dignità che si stava trasformando in un atto di culto.
La donna aumentò il ritmo. Le dita ora entravano e uscivano con forza, con maestria.
Niente era violento. Tutto era preciso.
Colpi contro il punto esatto. Sempre quello.
Sempre più forte.
Sempre più profondo.
Lorena non resisteva più.
«Ti prego... ti prego basta... un attimo... solo un attimo...»
La voce le usciva rotta, impastata dal piacere, ma non bastava: anche quelle suppliche venivano catturate dal microfono, rilanciate, ingigantite.
La sala intera udiva la sua voce mentre ansimava, mentre supplicava, mentre veniva smontata e ricostruita.
La donna la penetrava ora con tre dita.
Affondava, girava, afferrava l’interno come se sapesse dove abitasse l’anima.
Lorena si contorceva, le cosce tese, le ginocchia sollevate, i glutei che si staccavano dal letto.
La sua bocca si apriva, urlava, e tutto veniva amplificato: ogni parola, ogni sospiro, ogni parola sporca che non pensava nemmeno di avere in sé.
«Sì... sì continua... sei dentro… sei tutta dentro...»
«Dio… mi stai spezzando… non fermarti...non fermarti...»
La donna non si fermò.
Non cambiò ritmo.
Non guardò il pubblico.
Guardava solo lei.
E mentre Lorena veniva scossa da un primo orgasmo, tremando tutta, piegata su sé stessa, le dita non si fermarono.
Affondavano ancora.
E ancora.
Un secondo.
Più forte.
La bocca aperta. Gli occhi lucidi. Il ventre contratto in un nodo di pura estasi.
Poi un terzo.
Un’ondata. Un maremoto. Un’alluvione.
«Ti sto venendo addosso… lo senti?!»
«Prendimi tutta... davanti a tutti... sì... guardatemi, stronzi… sto godendo davvero!»
Le sue parole rimbombavano negli altoparlanti.
La donna le leccava il clitoride ora, rapida, violenta nella dolcezza, con movimenti del mento che la facevano tremare tutta.
La bocca su di lei. Le dita dentro.
Ancora. Sempre.
Lorena non era più una donna in un letto.
Era una creatura strappata al mondo reale, una tempesta visibile da tutti, un inno alla carne viva.
Non si tratteneva.
Non poteva.
Tutto il suo corpo si contraeva e si apriva, in un orgasmo lungo, torturante, liberatorio, amplificato, esibito, voluto.
E quando tutto sembrava finito…
la donna non si fermò ancora.
Le appoggiò il palmo pieno sul sesso ancora pulsante, le spinse il bacino con la mano, e iniziò a penetrarla a pugno chiuso, piano, poi più forte, con un solo obiettivo:
distruggerla di piacere.
E Lorena, con il volto arrossato, le guance bagnate di lacrime e sudore, urlò tutto quello che era rimasto da urlare.
«Ti amo… chiunque tu sia… ti amo... non mi fermare... mai... mai... mai...»
La sala era immobile.
Il corpo di Lorena tremava senza più ritmo.
Non era più una donna in preda all’orgasmo.
Era una corda tesa al limite della rottura, un arco piegato dalla passione, una creatura che aveva dimenticato ogni difesa.
La donna non le diede respiro.
Non rallentò.
Non smise di guardarla.
Aveva ancora la mano immersa dentro, le dita ben serrate, il palmo premuto in basso, e muoveva la mano a colpi profondi e spinti verso l’alto, centrando ogni volta quel punto interno, quello che la faceva trasalire e gemere come se venisse colpita da scariche elettriche.
Lorena urlava.
«Non ce la faccio… ti prego…
È troppo… è troppo…»
Ma la voce era un invito.
Non una resistenza.
Il microfono lo captava tutto:
il suono liquido delle dita dentro di lei,
le parole rotte dalla saliva,
i gemiti che ora erano grida disarticolate di piacere puro.
Poi la donna le afferrò il clitoride tra indice e medio, e cominciò a strofinarlo forte, veloce, in sincronia con i colpi profondi dell’altra mano.
Lorena si irrigidì di colpo.
Tutto il corpo.
Le braccia tese. Le gambe sollevate. Il bacino sollevato dal letto.
Un singhiozzo.
Un grido.
E poi — come se qualcosa si spezzasse dentro —
uno schiocco. Un’esplosione.
Un getto caldo, improvviso, le uscì dal corpo con violenza.
Le cosce si bagnarono. Il letto si inzuppò. Le calze rimbalzavano sotto la pressione.
E il pubblico vide.
Dietro i vetri, un silenzio teso, poi un sussurro collettivo.
Gli occhi sbarrati. I corpi immobili.
Era come se qualcosa di sacro fosse appena accaduto.
Lorena squirtava.
Più di una volta.
Getti pieni, incontrollati, pulsanti.
«Oh Dio sì… mi stai facendo impazzire…!»
«Sì… sì… ancora! Ancora ti prego… voglio morire così…!»
Il suono dei getti bagnava il silenzio. Il letto era inzuppato.
La donna non si fermava: la guardava, con occhi calmi, le dita ancora in movimento, ma più lente adesso, solo per prolungare. Per tenere aperta quella valvola del piacere che ormai non si richiudeva più.
Lorena non riusciva più a parlare.
I singhiozzi erano senza parole, il corpo ancora scosso da piccole contrazioni involontarie.
Il ventre le pulsava. Il sesso le batteva. Il cuore le ruggiva dentro.
E lei… rideva.
Rideva e piangeva.
«Cosa… cosa mi hai fatto?
Non… sono più io…»
E la voce della donna, accanto all’orecchio, le rispose con un bacio sul collo e un sussurro sottile:
«Ti ho solo liberata.»
Le ultime contrazioni scossero il suo ventre come onde residue dopo la tempesta.
Il respiro era spezzato, profondo, affannato. Le cosce ancora tremanti.
Il sesso caldo, gonfio, bagnato, spalancato, brillava sotto la luce delle candele come una ferita sacra.
La donna rimase dentro di lei ancora un istante, il palmo fermo, le dita immobili.
Poi, lentamente, scivolò fuori.
Lorena emise un gemito sottile, come se il corpo si rifiutasse di lasciarla andare.
Il suono delle dita che si ritiravano fu liquido, viscerale, intimamente osceno e bellissimo.
La donna si abbassò su di lei, le baciò il ventre, poi il seno, poi la spalla.
Si accovacciò accanto al suo corpo, e cominciò a carezzarla piano, con entrambe le mani.
La fronte. Le guance. Le braccia. Le cosce.
Ogni punto veniva toccato non per eccitare, ma per riportarla giù, per dirle che il viaggio era finito. Che era salva. Che era lì.
Dietro i vetri, le luci si affievolirono.
Un ronzio appena percettibile.
Poi, con la stessa lentezza con cui si erano abbassate, le pareti risalirono, ricoprendo la scena, proteggendola.
Restò solo la stanza.
Solo loro due.
Il letto disfatto.
Lorena nuda, vulnerabile, fiera, bagnata.
La donna le si accoccolò accanto. Le infilò una gamba tra le sue, le passò un braccio sotto il collo e le sussurrò parole che non avevano più bisogno di essere comprese.
Lorena chiuse gli occhi.
Non per fuga.
Non per debolezza.
Per gratitudine.
Il respiro rallentò.
Il corpo si fece morbido.
Cadde nel sonno.
Silenzioso.
Profondo.
Vero.
E tra le lenzuola ancora umide, avvolta dal profumo della donna e da un piacere che non aveva ancora finito di vibrare dentro di lei, Lorena dormì.
Dormì come non dormiva da anni.
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La luce che l’aveva attirata si era trasformata in un bagliore soffuso, lattiginoso, che filtrava da tendaggi pesanti disposti lungo le pareti. Davanti a lei, un corridoio stretto e silenzioso, pavimentato in velluto scuro.
I suoi tacchi affondavano nel tessuto, attutendo ogni passo, ogni suono. Sembrava camminare dentro un sogno.
O in una prigione di velluto.
Aveva freddo. Non per il clima, ma per l’adrenalina che le stringeva la schiena nuda e il ventre ancora acceso. Indossava solo le calze velate con la riga posteriore, sorrette dai sottili elastici del reggicalze nero, e le sue scarpe lucide con il tacco d’acciaio.
Il resto del corpo era nudo, esposto, ancora leggermente arrossato dall’orgasmo vissuto poco prima davanti a decine di sconosciuti.
Ai lati del corridoio, nicchie profonde nascoste da veli scuri. Dietro quei veli, figure immobili, maschili e femminili. Alcune nude, altre vestite in modo cerimoniale. Tutte mascherate. Nessuna parlava, nessuna si muoveva. Ma Lorena sentiva addosso i loro occhi, lo sguardo che scrutava ogni curva del suo corpo, ogni goccia di sudore, ogni traccia del suo desiderio ancora vivo.
Era come se quelle presenze sapessero già tutto. Come se l’avessero osservata da dentro il buio.
Quando giunse in fondo al corridoio, le tende si aprirono da sole, silenziosamente. Davanti a lei, una sala circolare con pareti nere e sei specchi ovali appesi tutto intorno, ciascuno inclinato leggermente in modo da rifletterla da angolazioni diverse.
Il pavimento, anch’esso uno specchio nero, sembrava liquido. Ogni suo passo lasciava un’eco visiva moltiplicata, distorta, amplificata.
Al centro della stanza, una piattaforma circolare, leggermente sollevata.
Lorena salì senza sapere perché.
Appena i suoi tacchi toccarono il centro della pedana, un suono le attraversò il corpo: un gemito. Ma non era uno qualsiasi.
Era il suo.
Un campionamento perfetto, amplificato e immerso nello spazio. Seguito da un altro, e poi un altro ancora.
I suoi gemiti di piacere, registrati e ora diffusi da altoparlanti nascosti. Risuonavano fra gli specchi, si riflettevano insieme alla sua immagine.
Quel momento intimo, così carnale, così estremo, veniva ora rilanciato nello spazio, come se l’intera stanza stesse godendo con lei.
Lorena restò immobile. Non per timore. Per vertigine.
Poi, da una tenda laterale, una figura entrò in silenzio. Alta, avvolta in un mantello scuro. Il volto completamente coperto da una maschera liscia e nera, priva di occhi o bocca. In mano, un vassoio d’argento.
Sopra il vassoio, due oggetti: una chiave antica, decorata con incisioni. E un collare in raso nero, sottile, elegante, con una piccola fibbia metallica.
Nessuna parola.
La figura si fermò a un metro da lei. Aspettava.
Lorena non mosse un muscolo.
Le luci si erano raccolte tutte su di lei, lasciando il resto della sala in un buio quasi teatrale, dove persino i contorni della figura mascherata sembravano fluttuare in uno spazio senza profondità. La sua immagine si rifletteva ovunque: nei sei specchi ovali, nel pavimento sotto di sé, persino nella curvatura lucida del vassoio d’argento.
Era sola e al centro di tutto.
Il cuore le batteva nel petto come se volesse scappare prima di lei.
Non c’era musica. Non c’erano parole. Solo i suoi gemiti di piacere, registrati, che ora si facevano più lenti, rallentati, sensuali. Quasi un sussurro costante. Un’eco di sé che la cullava e, allo stesso tempo, la denudava ancora di più.
Non poteva nascondersi.
Non voleva.
Si chinò lentamente. Il busto nudo piegato, i guanti ormai rimossi lasciavano scoperte le braccia che si tendevano verso il vassoio. I capezzoli sfiorarono l’aria ferma.
Prese la chiave.
Poi il collare.
Il materiale era freddo. Ma morbido. Un raso opaco, con l’interno lievemente felpato. La fibbia, un piccolo anello metallico a forma di goccia. Nessuna scritta. Nessun simbolo.
Lorena strinse il collare attorno al collo con dita lente, misurando la chiusura come un gesto sacro. Il raso aderì alla pelle con morbida precisione, e il piccolo anello metallico cadde appena sopra la clavicola. Non c’era rumore, né commento, solo l’attimo sospeso in cui anche il respiro pareva trattenersi.
Subito dopo, una luce si accese nella parete davanti a lei, rivelando una porta. Si aprì da sola, con un movimento lento, silenzioso. Oltre l’ingresso, la luce era calda, dorata, tremolante.
Non artificiale. Candele.
L’ambiente che si svelò non era freddo o scenografico: era intimo, come una stanza privata arredata con cura. Pareti rivestite in legno scuro, un tappeto orientale, un letto basso, e una poltrona in pelle, rivolta verso l’ingresso.
Lorena varcò la soglia.
La figura seduta era una donna.
Elegantissima, gambe accavallate, una tuta nera di seta che sembrava cucita addosso. La maschera copriva metà del volto, lasciando scoperta una bocca truccata con rossetto scurissimo, quasi viola. I capelli erano raccolti in uno chignon imperfetto, volutamente disordinato.
Non parlò.
Non si alzò.
Appoggiava un braccio al bracciolo della poltrona. L’altro reggeva un bicchiere di cristallo, dentro un liquido ambrato che rifletteva la luce delle candele. Le dita, lunghe ed eleganti, tamburellavano piano contro il vetro.
Lorena si fermò. La donna la guardava. Ma non con curiosità o desiderio: con una calma assoluta, come se l’avesse già vista mille volte. Come se sapesse esattamente chi fosse.
Poi, la donna sollevò leggermente il mento.
Un cenno.
Un invito.
Lorena fece un passo. Il suono del suo tacco sulla pietra interruppe il silenzio.
Un altro passo.
Il collare le scendeva sul petto, la pelle nuda catturava il bagliore delle candele. La tensione si tagliava col respiro.
Solo quando fu a pochi metri da lei, la donna parlò.
La sua voce era bassa, vellutata, quasi lenta.
«Sei più bella di quanto mi aspettassi. E molto più vera.»
«Hai scelto tu di entrare. Ora, dimmi... fino a dove sei disposta ad arrivare?»
Lorena la fissò in silenzio. Lo sguardo saldo, gli occhi verdi accesi da quella domanda che era più un invito che una sfida.
Si sentiva scoperta, ma non vulnerabile.
La pelle nuda brillava nel bagliore dorato delle candele, il collare al collo era come una firma sul suo stato d’animo: pronta, curiosa, consapevole.
Fece un passo, poi un altro.
I tacchi delle sue décolleté in vernice toccarono il pavimento in pietra con un suono deciso, netto, mentre la figura elegante di fronte a lei si alzava lentamente dalla poltrona, senza fretta.
La donna aveva una presenza magnetica. Il corpo fasciato nella tuta di seta nera sembrava disegnato per farsi desiderare, il tessuto seguiva ogni curva senza rivelare nulla. I sandali col tacco a spillo lasciavano scoperti i piedi curatissimi, le unghie laccate di scuro. Si muoveva con grazia felina, nessun gesto casuale.
Si avvicinò.
Lorena non si mosse, non si ritrasse. Restò eretta, il mento alto, il petto nudo che si alzava appena al ritmo del respiro. Nessuna esitazione.
Solo attesa.
La donna si fermò davanti a lei. La separava solo il profumo — profondo, maturo, con note d’ambra e pelle. Poi, con due dita, le sfiorò la clavicola, seguendo lentamente il bordo del collare. Un gesto leggero, quasi professionale, ma che scivolò sottopelle come una corrente sottile.
«Non sei qui per essere comandata. Lo so. Lo vedo.»
«Sei qui per scoprire fin dove puoi spingerti, senza perdere te stessa.»
Le si fece accanto, portandosi dietro il tavolino su cui prima aveva posato il bicchiere. Raccolse un piccolo oggetto in velluto nero. Lo mostrò con la stessa calma di chi sa che non serve spiegare.
Una benda.
Semplice, pulita, con due nastri lunghi.
«Niente parole. Niente domande. Solo un limite in meno.»
«Se te la metti… io capirò. E agirò.»
Non aggiunse altro.
La lasciò lì, posata sul cuscino della poltrona, e si allontanò di qualche passo.
La stanza era immobile. Solo il crepitio lieve delle candele e il fruscio appena percepibile del velluto della tuta nera quando la donna si voltò di nuovo verso di lei. Non aveva parlato, ma l’attesa era un discorso in sé.
Lorena osservò la benda, posata sul cuscino della poltrona. Sembrava innocua, perfino morbida. Ma in quel momento rappresentava una scelta netta: rinunciare alla vista, rinunciare al controllo, farsi attraversare senza vedere.
E non era ciò che voleva.
Fece un passo. Poi un altro. Le sue calze frusciavano lievemente a ogni movimento, i tacchi spezzavano il silenzio con regolarità. Si avvicinò alla poltrona, non alla donna.
Raccolse la benda con due dita.
La guardò.
Poi sollevò gli occhi verso la figura mascherata che la osservava in piedi, a pochi metri.
E, con voce bassa, ferma, carica di un calore che non tremava:
«Non ho bisogno dell’oscurità per andare oltre.»
Lasciò la benda sul tavolino.
Non era una sfida, non era arroganza. Era consapevolezza pura.
La donna la fissò per un attimo che parve lunghissimo. La tensione cambiò consistenza. Non più attesa, ma risposta.
Si avvicinò. Senza fretta.
I sandali le lasciavano le caviglie nude, e ogni passo era un movimento liquido. Lorena rimase ferma, il petto nudo, il ventre appena contratto, gli occhi puntati nei suoi.
Quando fu davanti a lei, non la toccò.
Le si avvicinò ancora. Le labbra, truccate in modo impeccabile, arrivarono a pochi centimetri dal suo orecchio. La voce uscì sottile, carica di una calma innaturale.
«Bene. Allora guardami. Perché adesso tocca a me.»
Lorena sentì una scarica attraversarle la schiena. Non di paura, ma di desiderio lucido, incontrollabile, senza nebbia.
La donna fece un passo indietro. Lentamente, sfilò la zip laterale della tuta.
La seta nera si aprì come una seconda pelle che si stacca. Il corpo che ne emerse era definito, armonioso, pieno. I seni liberi, i fianchi pieni ma scolpiti, un corpo femminile che non chiedeva giudizio. Solo sguardi.
Poi, senza staccare gli occhi da Lorena, salì sul letto.
Si voltò, inginocchiandosi sul bordo, le gambe divaricate. Un invito.
Ma ancora una volta, senza parole.
Lorena restò un istante immobile. Poi si tolse le scarpe. Le calze restarono, così come il reggicalze.
La donna si avvicinò lentamente.
Nuda, calma, come se il suo corpo non fosse un’arma, ma una lingua con cui parlare a Lorena. Ogni passo sui tappeti ammorbidiva il tempo, ogni movimento dissolveva la tensione.
Le luci delle candele tremolavano sulle pareti, ma i suoi occhi — quelli dietro la maschera — non tremavano affatto.
Si avvicinò al letto.
Con delicatezza, porse la mano.
Lorena la fissò per un attimo, poi la prese. La pelle era calda, viva, sicura.
La donna la guidò piano, senza una parola, ma con una precisione assoluta, come se sapesse già dove posare ogni dito.
Lorena si lasciò condurre.
Salì sul bordo del letto, le lenzuola di velluto la accolsero con una carezza silenziosa. Si sdraiò.
Prima sul fianco. Poi sulla schiena, mentre la donna la sistemava con dolcezza, aprendo le braccia, facendole stendere le gambe con un gesto lento, quasi materno.
Ogni tocco era misurato, non esplorava: rassicurava.
Poi si chinò su di lei.
Le sfiorò una spalla con le labbra, salì fino al collo.
La voce, quando arrivò, fu bassa, quasi un respiro.
Calda come un segreto confidato tra le lenzuola.
«Hai fatto qualcosa che pochissime donne riescono a fare.»
«Hai mostrato te stessa, senza chiedere niente in cambio.»
«Ora… lascia che sia io a offrirti qualcosa.
Un viaggio.
Una vetta.
Un paradiso che non dimenticherai.»
Lorena non disse nulla. Ma chiuse gli occhi per un istante. Il respiro rallentò.
Il corpo si rilassò sotto quelle parole.
La donna si sdraiò accanto a lei, non sopra, non addosso. Le si stese di fianco, poggiando una mano sull’addome.
La pelle tesa tremò appena.
La mano cominciò a disegnare cerchi lenti, accarezzandola senza mai salire troppo in alto né scendere troppo in basso.
«Resta così… lascia che ti ascolti.
C’è una musica nel tuo corpo.
E io voglio solo suonarla piano, senza sbagliare una nota.»
Lorena lasciò uscire un respiro più profondo.
La mano della donna non cercava. Accoglieva.
Toccava il fianco, risaliva verso il seno ma si fermava sul bordo. Poi tornava giù, scivolava sull’anca, sulla parte interna della coscia. Mai invadente. Sempre presente.
Poi la voce tornò, più vicina all’orecchio.
«Non voglio che tu venga.
Voglio che tu dimentichi come si fa a trattenerti.
Voglio che quando accadrà…
non sia una fine. Ma l’inizio.»
Lorena aprì gli occhi.
La guardò.
Non aveva mai sentito parole così.
Non promesse vuote.
Profezie.
Eppure, niente era ancora successo.
Le dita continuavano a disegnare arabeschi invisibili sulla pelle.
Sfioravano l’addome come se leggessero un testo antico inciso sotto la pelle. Salivano sul fianco, sfiorando il bordo del seno ma senza ancora toccarlo, poi scendevano sull’interno coscia, fermandosi poco prima del calore.
Lorena socchiuse le labbra, non per parlare, ma per lasciare passare meglio l’aria.
Il suo corpo cominciava a rispondere con minuscoli impercettibili movimenti: una gamba che si rilassa, il bacino che si solleva di un millimetro.
Senza pensarci.
La donna si spostò appena, il busto vicino al suo. Le sussurrò ancora:
«Lascia che ti sciolga, pezzo dopo pezzo.
Io so dove toccarti.
Ma voglio aspettare che sia il tuo corpo a chiamarmi lì.»
Le dita salirono lentamente verso il seno.
Si posarono sul bordo esterno, con una tenerezza spiazzante, poi cominciarono a girarci intorno, come per disegnarne la forma, per mapparlo.
Il capezzolo era già teso, duro, gonfio di sangue. La mano non lo toccava ancora. Solo il palmo sfiorava la pelle calda, il contorno, la curva.
Lorena si morse il labbro.
Le palpebre si abbassarono. Il collo si inarcò lievemente.
Poi, finalmente, un pollice lo sfiorò.
Una volta.
E poi niente.
Solo attesa.
Le labbra della donna si posarono sulla spalla, poi sul collo, lente, senza rumore. Le inspirava la pelle, come per assorbirla, come per impararne l’odore.
«Stai bene, Lorena?
Posso andare un po’ più in là?»
La risposta non arrivò con la voce, ma con il corpo.
Lorena si voltò verso di lei, le prese il polso con dolcezza, e lo guidò verso l’interno coscia.
Un gesto che non era un sì.
Era un adesso.
La mano scese.
Sfiorò il bordo del reggicalze.
Si infilò sotto il tessuto, accarezzando la pelle liscia e calda tra le gambe.
La trovò bagnata.
Non umida.
Bagnata.
Lorena aprì le cosce con lentezza. Nessuna timidezza. Nessun pudore.
Stava consegnando quella parte di sé che fino a ora aveva solo protetto.
Ed era pronta a farla vibrare.
«Brava...»
«Resta qui. Resta con me.
Ti porterò dove non si può tornare indietro.»
E finalmente, la bocca della donna scese.
Non in fretta.
Non per fare.
Ma per essere.
Le labbra si posarono sulla pelle tra le cosce, prima a lato, poi più al centro, sempre con quel tempo sospeso. La lingua sfiorò appena, solo un tocco che sembrava una domanda fatta con la carne.
Lorena ansimò. Ma ancora non gemeva.
Il corpo cominciava a tremare piano, come uno strumento che si accorda.
Ogni muscolo era teso, ma non rigido.
Ogni fibra pronta, ma non bruciata.
Il piacere stava salendo. Lentamente.
Le labbra della donna si aprirono appena.
La lingua sfiorò la pelle sensibile tra le gambe con una precisione quasi crudele, misurata, ripetuta, perfetta.
Lorena sentì un sussulto partire dal ventre e irradiarsi ovunque, fino ai polpastrelli, fino alle spalle, fino al cervello. Il respiro si spezzò. Il bacino si sollevò impercettibilmente.
Poi le dita.
Due, lente, calde, entrarono dentro di lei con una naturalezza sconvolgente, come se le aspettasse da sempre.
Erano profonde. Non spinte, non veloci: affondate piano, ma fino in fondo, fino a premere quel punto interno che nessuno prima aveva saputo trovare con tanta facilità.
E lì cominciarono a muoversi.
La lingua restava sul clitoride, disegnando cerchi piccoli e tesi, un ritmo costante, preciso, spietato nella sua dolcezza.
Le dita dentro, tese, curve, a carezzare la parete più sensibile, con colpi brevi e regolari.
Lorena gemette. Forte.
Il primo suono vero.
Le gambe si irrigidirono, i talloni affondarono nel letto, le mani cercarono qualcosa da stringere — il lenzuolo, l’aria, sé stessa.
«Oh Dio… sì…»
La voce le uscì spezzata, profonda, come se non l’avesse mai sentita prima.
Il piacere saliva, saliva veloce, le stringeva il ventre, le si aggrappava dentro, le faceva tremare le cosce, le faceva perdere il controllo del respiro.
Ci stava arrivando.
Poi, all’improvviso…
tutto si fermò.
La lingua si staccò.
Le dita si ritirarono con lentezza.
Un bacio, lento, quasi materno, sull’inguine.
Lorena spalancò gli occhi.
«No…»
Un sussurro. Un lamento. Una supplica che non aveva pensato di pronunciare.
La donna si sdraiò accanto a lei, le mani che accarezzavano l’interno coscia con la tenerezza di una promessa non dimenticata.
«Ssshhh… respira…»
«Lascia che scenda. Per poi salire più in alto.**
Lorena tremava. Il cuore impazzito. Le dita che stringevano l’aria. Le gambe ancora aperte, gonfia, bagnata, pronta.
La bocca della donna tornò a sfiorarla, ma non là.
Sul petto. Sui fianchi. Sul collo.
Poi — piano — la mano tornò giù.
Le accarezzò il clitoride con il polpastrello, piano, con una lentezza disumana.
Lorena si sollevò di nuovo.
Non era più solo eccitata.
Era disperata di piacere.
«Lo vuoi?»
«Te lo darò. Ma sarà mio. Tutto.»
E allora la bocca scese di nuovo.
E di nuovo le dita.
Stesse due. Stessa profondità.
Ma stavolta il ritmo era più spinto, più preciso, più brutale nella perfezione.
La lingua le batteva addosso, rapida, affamata, e Lorena si perse.
Il piacere la prese di nuovo, due volte più forte, tre volte più veloce, e quando sentì che stava esplodendo di nuovo…
si fermò ancora.
Un solo gemito.
«Ti prego.»
Improvvisamente, mentre le loro labbra si stavano sfiorando di nuovo, un ronzio basso saturò l’aria. Lorena sollevò la testa, confusa, il cuore ingolfato di piacere e imprevisto.
La donna si mosse di un millimetro, gli occhi che cercavano nella semioscurità.
Con un scatto meccanico, le pareti laterali della stanza incominciarono a scendere, silenziose come tende, rivelando dietro di sé dei pannelli di vetro. Lampi di luce, riflessi. Ombre in movimento.
Lorena si fermò. Respirò.
Il vetro le restituì sguardi, moltitudini di sguardi: alcuni ammirati, altri intensi, altri arrestati in un’espressione di sorpresa o brama.
Le pareti si abbassarono fino a terra. Lei vide forme, volti, figure che la guardavano.
Non ostili. Non invasive. Ma affascinate. Desiderose.
La donna si accostò, il corpo lucido accanto al suo. Le labbra al suo orecchio, mentre una mano scivolava sul suo fianco con decisione.
«Non sei più sola, Lorena.
Hai trasformato un privilegio in rituale. Ed ora… il tuo corpo è un tempio aperto a chi sa guardare.»
Lorena sentì il calore irradiarsi dal ventre al cuore. Non era vergogna. Non era panico.
Era consapevolezza espansa.
Si sentiva potente, dominatrice del proprio piacere, eppure generosa, capace di dare a chi voleva vedere.
Le dita della donna tornarono a lavorare, con quella sincronia brutale e dolce che le aveva già portate vicine all’orlo.
Il corpo di Lorena vibrò, ancora più forte, ora sotto mille occhi che la celebravano in silenzio.
E mentre le carezze continuavano, quel ronzio si trasformò in un sussurro collettivo: nulla di udibile, ma un’eco di respiro condiviso, un fremito che cresceva come un’onda.
Il desiderio divenne… gigantesco.
E proprio sul crinale dell’abisso, la donna rallentò.
Spense la lingua. Ritirò le dita.
Il corpo di Lorena era un campo minato di tensione pura.
Le dita della donna tornarono dentro di lei, decise, profonde, senza più esitazioni.
Nessuna carezza. Nessuna dolcezza.
Solo ritmo.
Solo intensità.
Lorena spalancò gli occhi e si piegò indietro sul letto, il corpo che si arcuava, le mani che scivolavano sopra le lenzuola in cerca di qualcosa da afferrare — ma nulla bastava.
Non c’erano più punti d’appoggio.
La voce della donna era un sussurro denso, veleno dolce all’orecchio:
«Adesso non ti fermerai.
Non ti salverà il silenzio.
Ogni suono che farai… lo sentiranno tutti.»
E mentre lo diceva, un click metallico si udì da qualche parte.
Un microfono.
Attivato.
Un attimo dopo, il primo gemito di Lorena — un suono ruvido, involontario, profondo —
esplose negli altoparlanti della sala, rimbalzando sui vetri, invadendo le stanze, raggiungendo ogni spettatore oltre il vetro.
Un sussulto tra gli ospiti. Ma nessuno parlava.
Solo occhi, solo respiri trattenuti, solo corpi immobili davanti alla scena.
E lei, nuda, spalancata sul letto, reggicalze e calze a reggere una dignità che si stava trasformando in un atto di culto.
La donna aumentò il ritmo. Le dita ora entravano e uscivano con forza, con maestria.
Niente era violento. Tutto era preciso.
Colpi contro il punto esatto. Sempre quello.
Sempre più forte.
Sempre più profondo.
Lorena non resisteva più.
«Ti prego... ti prego basta... un attimo... solo un attimo...»
La voce le usciva rotta, impastata dal piacere, ma non bastava: anche quelle suppliche venivano catturate dal microfono, rilanciate, ingigantite.
La sala intera udiva la sua voce mentre ansimava, mentre supplicava, mentre veniva smontata e ricostruita.
La donna la penetrava ora con tre dita.
Affondava, girava, afferrava l’interno come se sapesse dove abitasse l’anima.
Lorena si contorceva, le cosce tese, le ginocchia sollevate, i glutei che si staccavano dal letto.
La sua bocca si apriva, urlava, e tutto veniva amplificato: ogni parola, ogni sospiro, ogni parola sporca che non pensava nemmeno di avere in sé.
«Sì... sì continua... sei dentro… sei tutta dentro...»
«Dio… mi stai spezzando… non fermarti...non fermarti...»
La donna non si fermò.
Non cambiò ritmo.
Non guardò il pubblico.
Guardava solo lei.
E mentre Lorena veniva scossa da un primo orgasmo, tremando tutta, piegata su sé stessa, le dita non si fermarono.
Affondavano ancora.
E ancora.
Un secondo.
Più forte.
La bocca aperta. Gli occhi lucidi. Il ventre contratto in un nodo di pura estasi.
Poi un terzo.
Un’ondata. Un maremoto. Un’alluvione.
«Ti sto venendo addosso… lo senti?!»
«Prendimi tutta... davanti a tutti... sì... guardatemi, stronzi… sto godendo davvero!»
Le sue parole rimbombavano negli altoparlanti.
La donna le leccava il clitoride ora, rapida, violenta nella dolcezza, con movimenti del mento che la facevano tremare tutta.
La bocca su di lei. Le dita dentro.
Ancora. Sempre.
Lorena non era più una donna in un letto.
Era una creatura strappata al mondo reale, una tempesta visibile da tutti, un inno alla carne viva.
Non si tratteneva.
Non poteva.
Tutto il suo corpo si contraeva e si apriva, in un orgasmo lungo, torturante, liberatorio, amplificato, esibito, voluto.
E quando tutto sembrava finito…
la donna non si fermò ancora.
Le appoggiò il palmo pieno sul sesso ancora pulsante, le spinse il bacino con la mano, e iniziò a penetrarla a pugno chiuso, piano, poi più forte, con un solo obiettivo:
distruggerla di piacere.
E Lorena, con il volto arrossato, le guance bagnate di lacrime e sudore, urlò tutto quello che era rimasto da urlare.
«Ti amo… chiunque tu sia… ti amo... non mi fermare... mai... mai... mai...»
La sala era immobile.
Il corpo di Lorena tremava senza più ritmo.
Non era più una donna in preda all’orgasmo.
Era una corda tesa al limite della rottura, un arco piegato dalla passione, una creatura che aveva dimenticato ogni difesa.
La donna non le diede respiro.
Non rallentò.
Non smise di guardarla.
Aveva ancora la mano immersa dentro, le dita ben serrate, il palmo premuto in basso, e muoveva la mano a colpi profondi e spinti verso l’alto, centrando ogni volta quel punto interno, quello che la faceva trasalire e gemere come se venisse colpita da scariche elettriche.
Lorena urlava.
«Non ce la faccio… ti prego…
È troppo… è troppo…»
Ma la voce era un invito.
Non una resistenza.
Il microfono lo captava tutto:
il suono liquido delle dita dentro di lei,
le parole rotte dalla saliva,
i gemiti che ora erano grida disarticolate di piacere puro.
Poi la donna le afferrò il clitoride tra indice e medio, e cominciò a strofinarlo forte, veloce, in sincronia con i colpi profondi dell’altra mano.
Lorena si irrigidì di colpo.
Tutto il corpo.
Le braccia tese. Le gambe sollevate. Il bacino sollevato dal letto.
Un singhiozzo.
Un grido.
E poi — come se qualcosa si spezzasse dentro —
uno schiocco. Un’esplosione.
Un getto caldo, improvviso, le uscì dal corpo con violenza.
Le cosce si bagnarono. Il letto si inzuppò. Le calze rimbalzavano sotto la pressione.
E il pubblico vide.
Dietro i vetri, un silenzio teso, poi un sussurro collettivo.
Gli occhi sbarrati. I corpi immobili.
Era come se qualcosa di sacro fosse appena accaduto.
Lorena squirtava.
Più di una volta.
Getti pieni, incontrollati, pulsanti.
«Oh Dio sì… mi stai facendo impazzire…!»
«Sì… sì… ancora! Ancora ti prego… voglio morire così…!»
Il suono dei getti bagnava il silenzio. Il letto era inzuppato.
La donna non si fermava: la guardava, con occhi calmi, le dita ancora in movimento, ma più lente adesso, solo per prolungare. Per tenere aperta quella valvola del piacere che ormai non si richiudeva più.
Lorena non riusciva più a parlare.
I singhiozzi erano senza parole, il corpo ancora scosso da piccole contrazioni involontarie.
Il ventre le pulsava. Il sesso le batteva. Il cuore le ruggiva dentro.
E lei… rideva.
Rideva e piangeva.
«Cosa… cosa mi hai fatto?
Non… sono più io…»
E la voce della donna, accanto all’orecchio, le rispose con un bacio sul collo e un sussurro sottile:
«Ti ho solo liberata.»
Le ultime contrazioni scossero il suo ventre come onde residue dopo la tempesta.
Il respiro era spezzato, profondo, affannato. Le cosce ancora tremanti.
Il sesso caldo, gonfio, bagnato, spalancato, brillava sotto la luce delle candele come una ferita sacra.
La donna rimase dentro di lei ancora un istante, il palmo fermo, le dita immobili.
Poi, lentamente, scivolò fuori.
Lorena emise un gemito sottile, come se il corpo si rifiutasse di lasciarla andare.
Il suono delle dita che si ritiravano fu liquido, viscerale, intimamente osceno e bellissimo.
La donna si abbassò su di lei, le baciò il ventre, poi il seno, poi la spalla.
Si accovacciò accanto al suo corpo, e cominciò a carezzarla piano, con entrambe le mani.
La fronte. Le guance. Le braccia. Le cosce.
Ogni punto veniva toccato non per eccitare, ma per riportarla giù, per dirle che il viaggio era finito. Che era salva. Che era lì.
Dietro i vetri, le luci si affievolirono.
Un ronzio appena percettibile.
Poi, con la stessa lentezza con cui si erano abbassate, le pareti risalirono, ricoprendo la scena, proteggendola.
Restò solo la stanza.
Solo loro due.
Il letto disfatto.
Lorena nuda, vulnerabile, fiera, bagnata.
La donna le si accoccolò accanto. Le infilò una gamba tra le sue, le passò un braccio sotto il collo e le sussurrò parole che non avevano più bisogno di essere comprese.
Lorena chiuse gli occhi.
Non per fuga.
Non per debolezza.
Per gratitudine.
Il respiro rallentò.
Il corpo si fece morbido.
Cadde nel sonno.
Silenzioso.
Profondo.
Vero.
E tra le lenzuola ancora umide, avvolta dal profumo della donna e da un piacere che non aveva ancora finito di vibrare dentro di lei, Lorena dormì.
Dormì come non dormiva da anni.
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