In Vetta 4^ Parte
di
Ironwriter2025
genere
etero
Il volo per Montréal era previsto alle 9:45 del mattino. Lorena arrivò in aeroporto alle 7:00 precise, con il passo calmo di chi ha già previsto ogni dettaglio. La valigia rigida blu notte, lucida e minimale, scivolava al suo fianco. All’interno, tutto era stato scelto con cura: tailleur impeccabili per le riunioni, scarpe coordinate, l’intimo invisibile che lei indossava sempre, e infine, ben piegato e protetto, l’abito lungo di seta rossa indossato l’ultima volta a Dublino. Non lo aveva dimenticato. E nemmeno ciò che era accaduto dopo.
Durante il volo, si immerse in alcuni documenti tecnici, annotando con una penna stilografica appunti rapidi e ordinati. La testa era lucida, il trucco neutro, le gambe accavallate con naturale eleganza nei pantaloni aderenti del suo completo. A bordo, nessuno osò rivolgerle la parola.
Atterrò in Canada in pieno pomeriggio, accolta da un autista con cartello e nome della società. L’hotel era un cinque stelle nel cuore della città: moderno, discreto, essenziale. La suite al diciottesimo piano aveva vetrate che offrivano una vista spettacolare sul centro, ancora coperto da una sottile coltre di neve primaverile.
Il giorno successivo si aprì con una serie fitta di riunioni, incontri bilaterali, presentazioni. Lorena era precisa, ferma, autorevole. Tutti ne riconoscevano il valore, ma pochi riuscivano a distrarsi dalla figura che quella donna scolpiva con ogni movimento.
Il suo tailleur grigio antracite con camicia avorio non concedeva distrazioni, ma la tensione sensuale che emanava era innegabile. La postura, il tono, l’ordine. E poi quegli occhi verdi, che scrutavano e incidevano.
Quando ricevette il programma della serata di gala, non ebbe dubbi.
Quell’abito era ancora lì, pronto.
Alle 18:45 iniziò a prepararsi. Dopo la doccia, il corpo tonico e liscio venne avvolto in un accappatoio bianco, ma non si sedette mai: ogni gesto era parte di un rito.
Scelse una base leggera per la pelle, eyeliner marcato e ombretto in tonalità rame per esaltare i suoi occhi chiari, contour perfetto sulle guance e labbra rosso scarlatto lucidissime.
Raccolse i capelli in un’acconciatura pulita, lasciando alcune ciocche libere a incorniciare il viso.
Poi aprì la custodia e fece scivolare l’abito sul letto.
Seta lucida, rosso fuoco.
Aderente sul busto, un respiro infuocato di seta lungo il corpo. Lo infilò con lentezza, lasciandolo calzare come una seconda pelle. Sotto, niente reggiseno. Solo tanga coordinato, impercettibile. Ai piedi, décolleté nere con tacco a spillo.
Alle 20:10 uscì dalla stanza e prese l’ascensore. Quando le porte si aprirono nella hall, il brusio si abbassò per un istante.
Gli uomini si voltarono uno dopo l’altro, come attratti da un magnetismo inevitabile. Alcuni si aggiustarono la cravatta, altri si limitarono a seguirla con gli occhi.
Le donne si fecero improvvisamente più consapevoli delle proprie scollature, del proprio portamento, e la osservavano con un misto di ammirazione trattenuta e gelido sospetto.
La cena era andata oltre ogni aspettativa.
Lorena aveva conversato con diplomatici, imprenditori e consiglieri internazionali, rispondendo con intelligenza e ironia a ogni battuta. Aveva saputo essere brillante, ma mai troppo compiacente, affascinante ma sempre padrona di sé.
I complimenti erano piovuti uno dopo l’altro, talvolta velati da sorrisi, talvolta più espliciti, ma lei li aveva accolti con distacco.
Era consapevole del proprio aspetto, del modo in cui l’abito rosso fasciava la sua figura e accendeva gli sguardi, soprattutto maschili. Le donne la scrutavano con un misto di sospetto e ammirazione, come si guarda una rivale troppo bella per essere ignorata, troppo sicura per essere sottovalutata.
Appena il dessert fu servito, Lorena si alzò con grazia, declinò gli inviti per un ultimo brindisi e uscì dalla sala tra saluti e occhi che ancora la seguivano.
Non aveva sonno.
Non aveva voglia di spegnere la sera in una stanza d’hotel.
Scese direttamente al bar, ancora con l’abito addosso, senza sfiorare l’ascensore.
La seta scivolava silenziosa lungo le gambe, il passo deciso e regolare.
Entrò nel locale illuminato da luci basse e calde, diretto prolungamento del lusso discreto dell’hotel.
Non cercò un tavolino.
Si sedette al bancone, gambe accavallate, schiena dritta, sguardo rivolto verso il barista. Ordinò un gin con una fetta di lime. Non parlava mai molto con i camerieri, ma bastava il tono con cui chiedeva le cose per farli sentire rispettati.
Appoggiò le dita sottili sul bicchiere e ne assaporò un sorso. Liscio, deciso, aromatico. Perfetto.
Stava già abbandonandosi a una calma lucida e silenziosa, quando una voce dietro di lei la chiamò con timidezza.
«Posso offrirle un altro gin?»
Lorena si voltò lentamente.
Un uomo, sulla cinquantina, la osservava con un mezzo sorriso. Non aveva un aspetto particolarmente attraente: viso segnato, capelli radi ma ben pettinati, occhi intelligenti ma un po’ ansiosi.
Indossava una giacca scura semplice ma ben tagliata, una camicia blu con il primo bottone aperto.
Non era uno sfrontato. Aveva un’eleganza silenziosa e impacciata, che lo rendeva quasi simpatico.
«Solo se ne prende uno anche lei.»
Lui si illuminò.
Prese posto due sgabelli più in là, lasciando lo spazio necessario, come se avesse intuito che il rispetto era l’unico modo per restare.
Si presentarono. Il suo nome era Thomas.
Nessun ruolo, nessuna carica. Solo i loro nomi, come in un luogo neutro dove le etichette restavano fuori dalla porta.
Parlarono del freddo della città, del vino servito a tavola, delle luci del centro viste dall’alto.
Thomas non smetteva di guardarla.
Non con invadenza, ma con quel tipo di attenzione che pochi uomini ancora sapevano offrire. Non le guardava il seno, né lo spacco, né la bocca. La guardava come si osserva qualcosa di prezioso, con cautela, con rispetto, eppure con desiderio evidente.
Lorena lo lasciava fare.
Non c’era eccitazione, ma un senso di piacere sottile. Le piacevano le attenzioni garbate, la conversazione senza peso, e quel sentirsi cercata senza essere toccata.
«Non pensavo avrei finito la mia serata con una donna così bella al bancone di un bar.»
Lei sorrise appena, senza distogliere lo sguardo dal bicchiere.
«A volte le cose migliori arrivano proprio quando non le stai cercando.»
«Le dispiace se mi avvicino?»
La voce era la stessa: rispettosa, misurata, quasi trattenuta.
Lorena non rispose subito. Sollevò appena il mento, indicandogli lo sgabello vuoto accanto al suo.
Fu un gesto lieve, ma bastò.
Lui colse l’invito come si coglie un dono inatteso.
Con una destrezza quasi buffa, Thomas si sollevò e si sistemò accanto a lei con un piccolo balzo goffamente agile, come se temesse che il momento potesse sfuggirgli.
Lorena sorrise appena, senza voltarsi del tutto. Lo osservò con la coda dell’occhio mentre riprendeva fiato, visibilmente soddisfatto di essere lì, a un passo da lei.
Poi cominciarono ad arrivare i complimenti. Non pioggia fitta, ma gocce calde e scelte una a una.
Sulla bellezza, certo.
Ma anche sulla grazia con cui teneva il bicchiere, sulla postura perfetta delle spalle, sulla piega delle sue labbra quando sorrideva, sulla scelta del gin, “una bevanda da donne intelligenti e decise”, disse lui, aggiungendo che “il rosso dell’abito era un crimine contro la noia”.
Lorena non lo fermò.
Accettava ogni parola come se le spettasse, ma non con arroganza: con quella serenità solida che nasce solo quando una donna sa di meritare ogni attenzione.
E poi c’era il modo in cui lui la guardava.
Mai invadente.
Mai predatorio.
Uno sguardo pieno di stupore e desiderio, ma trattenuto da un senso di rispetto che la colpiva più di mille tentativi maldestri.
Lorena iniziò a inclinare lievemente la schiena per mostrarsi meglio, fece scivolare una ciocca dietro l’orecchio con un gesto lento, allungò le dita sul bicchiere con una posa che esaltava il polso e la curva morbida del braccio.
Non cercava di sedurlo.
Ma voleva farsi guardare bene.
Sentirsi bella sotto quello sguardo pulito le dava un piacere sottile, quasi infantile.
Thomas continuava a parlare, ma a tratti si perdeva, come se la presenza di Lorena cancellasse ogni discorso.
Thomas sembrava rapito. I suoi occhi vagavano tra il profilo di Lorena, il collo sottile, l'incavo appena visibile tra i seni, il modo in cui il tessuto lucido dell'abito rifletteva la luce del bancone. Era educato, deferente, persino un po' goffo nel modo in cui cercava di non sembrare troppo rapito.
Lorena sorseggiava il suo gin senza fretta. Una goccia le aveva appena sfiorato il labbro inferiore, e lei l’aveva raccolta con la lingua in un gesto del tutto istintivo.
Non aveva intenzione di sedurre quell’uomo, ma cominciava a percepire con piacere la forza che stava esercitando su di lui. Le piaceva sentirsi desiderata. Ammirata.
Era il privilegio di chi sa di non dover dare nulla in cambio.
Poi arrivò la frase.
Piana. Precisa.
Come un tuono secco, vicino, inaspettato.
«Quanto dovrebbe pagare un uomo come me per avere la tua compagnia questa notte?»
Lorena restò immobile.
Non fu uno scatto, né uno sdegno visibile. Non sussultò.
Solo lo sguardo si fece per un istante più fermo, tagliente, quasi trasparente. Le pupille si dilatarono lievemente, le labbra rimasero socchiuse a metà del gesto di bere.
Un istante eterno in cui le sue ciglia non batterono.
Era un’offesa?
Sì.
Ma non nel modo in cui l’avrebbe vissuta un’altra donna.
Non era rabbia quella che saliva. Era altro. Una miscela densa di stupore, disillusione e forse… un filo di colpa.
Thomas la guardava ancora, come se non avesse capito del tutto ciò che aveva appena detto. Oppure come se sapesse benissimo quanto fosse stato diretto, e stesse ora trattenendo il respiro in attesa di una sentenza.
Lorena si voltò lentamente verso di lui, con lo stesso sorriso che aveva prima.
Ma gli occhi erano diversi.
Dentro, un turbine di pensieri.
Forse non era poi così strano, si disse.
Una donna sola, in abito rosso fuoco, seduta al bancone di un bar d’albergo, senza anello, senza compagnia, senza fretta.
Forse era una proiezione troppo perfetta.
Forse, persino prevedibile.
Ma non era questo che faceva male.
Ciò che bruciava era essere ridotta a un ruolo. A una figura. A un prezzo.
Poi, con un tono quieto e perfetto, come se nulla l’avesse toccata, disse:
«Non sono qui in cerca di clienti. Sto partecipando a una convention di lavoro.»
Il tono non era glaciale, né altezzoso.
Era lucido.
Come una lama perfettamente affilata.
Non c’era vendetta nella voce. Solo la precisione di chi non lascia spazio all’ambiguità.
Lorena lo stava ancora osservando, con lo sguardo fisso e brillante, quando lui sorrise. Non era un sorriso imbarazzato, né arrogante. Era sincero, quasi malinconico.
«So bene che non sei una squillo, Lorena. Non esistono donne a pagamento del tuo livello. Ma la mia proposta rimane.»
Lei non disse nulla. Lo lasciò continuare.
«Una donna con la tua classe, con il tuo charme, potrebbe mai accettare di fare sesso con uno come me solo perché pagata? Ti sembro ridicolo, forse. Ma credimi, il valore non sarebbe un problema. L’ultimo dei miei problemi è il denaro. E credo che nemmeno a te manchi.»
Il tono di Thomas era misurato, composto, come se stesse enunciando un pensiero a lungo meditato, con pudore e una certa malinconica lucidità.
«Ma l’idea, Lorena… l’idea di essere stata comprata per una notte, di essere obbligata a giacere con uno sconosciuto, di farlo godere… contro ogni logica, forse… potrebbe anche eccitarti. Potrebbe perfino piacerti. Ci hai mai pensato?»
Silenzio.
Il ghiaccio nel bicchiere tintinnò appena mentre Lorena lo girava piano, senza guardarlo.
La sua espressione era rimasta impassibile.
Fu solo lo sguardo che si abbassò per un attimo verso il riflesso nel vetro a tradire una frattura.
Sì.
Aveva pensato a qualcosa di simile.
All’idea di cedere non per attrazione, non per gioco, ma per un meccanismo freddo e assoluto.
Essere scelta. Comprata. Dominata. Usata.
Non con violenza. Con lucidità.
Una transazione spogliata di tutto, tranne che della carica erotica di ciò che non può essere giustificato.
Senza parlare, riportò lo sguardo su di lui.
Le sue pupille erano un po’ più dilatate. Le guance lievemente arrossate. Le labbra, appena dischiuse, si incurvarono in un sorriso amabile, pieno di grazia.
«La proposta non è così squallida come sembrava all’inizio, Thomas. Anzi. C’è qualcosa di affascinante nella tua onestà.»
Lui non osava parlare. Aspettava.
Lei si voltò, lentamente, gli rivolse un ultimo sguardo.
Lo tenne sospeso qualche secondo. Poi disse:
«Facciamo così. Domani avrò un’altra giornata di riunioni. E anche la mattina del giorno dopo sarò ancora qui, in questo hotel.
Se domani sera, alle undici in punto, mi troverai di nuovo seduta a questo bancone, significherà che ho accettato la tua proposta.
Se non ci sarò, ti auguro buona vita, Thomas. È stato davvero bello e intrigante conoscerti.»
Si alzò.
I tacchi risuonarono sul pavimento lucido del bar.
Non si voltò indietro.
Uscì con la stessa eleganza con cui era entrata.
Mentre saliva in ascensore, sentiva il cuore più accelerato del previsto.
Appena chiusa la porta della suite, si spogliò lentamente, senza neppure accendere la luce.
Scivolò nel letto nuda.
E fu solo quando le cosce si sfiorarono che sentì con chiarezza l’umidità calda e densa tra le gambe.
La proposta l’aveva eccitata.
Molto più di quanto fosse disposta ad ammettere.
La giornata era iniziata presto, incastrata tra incontri serrati, presentazioni strategiche e confronti con colleghi di tre continenti. Lorena si muoveva tra una sala riunioni e l’altra con la consueta precisione, i pantaloni del tailleur perfettamente tesi lungo le gambe, la camicia chiusa sul collo a custodire ogni segreto, il volto impassibile, levigato dal trucco e dalla volontà. Parlava, decideva, ascoltava. Tutto scorreva come previsto.
Eppure, in ogni interstizio del tempo, nei silenzi fra un grafico e un sorriso di circostanza, il pensiero tornava lì. Alla frase sussurrata la sera prima.
“Quanto dovrebbe pagare un uomo come me per avere la tua compagnia questa notte?”
All’inizio l’aveva infastidita. Si era sentita offesa, ridotta, svuotata.
Poi era arrivata la curiosità.
E ora… qualcosa di diverso. Qualcosa di più profondo.
La possibilità di essere desiderata al punto da avere un prezzo.
Non un valore qualunque, ma quello attribuito da un uomo che sapeva benissimo di non poterla conquistare con mezzi ordinari. Un tentativo disperato? Forse.
O forse… il gesto estremo di chi aveva riconosciuto il suo potere e lo voleva piegare con un altro tipo di dominio.
Durante la pausa pranzo, seduta da sola nella lounge dell’hotel, si ritrovò a fissare per alcuni secondi il bordo della tazzina del caffè.
Non stava riflettendo su un contratto.
Stava scegliendo un rossetto.
Rosso? No. Troppo esplicito. Un bordeaux profondo, satinato. Seduzione contenuta, ma innegabile.
Poi pensò alle autoreggenti, al tanga in pizzo nero, al reggiseno con le coppe appena imbottite — non troppo, non doveva sembrare che volesse piacere, doveva sembrarle di appartenere già.
E quando si rese conto che stava già scegliendo le scarpe — quelle con il tacco più sottile, acciaio lucido sotto la suola nera — capì che la decisione era stata presa ore prima, forse nel momento stesso in cui gli aveva lasciato aperta quella porta.
Non era debolezza.
Era una forma diversa di potere.
Lasciare che lui credesse di averla comprata.
Quando in realtà era lei a vendersi, per scelta.
Perché voleva.
Perché le piaceva l’idea di non avere scuse.
Di non poter mentire nemmeno a sé stessa.
Di godere — totalmente — dell’abbandono.
Sentì il calore salire tra le gambe, come una pressione sorda.
Si inumidì le labbra e si alzò.
Sapeva già come si sarebbe vestita.
Sapeva già che sarebbe scesa al bar.
E sapeva già che a mezzanotte non sarebbe più stata la donna che era quella mattina.
Finalmente, le ultime parole dell’ultima riunione si dissolsero in un brindisi formale. Alle 19:00 precise, Lorena rientrò nella sua suite. Chiuse la porta dietro di sé senza nemmeno togliersi le scarpe, lasciò la borsa su una poltrona e si avvicinò alla grande finestra. La città cominciava a illuminarsi, le luci tremolanti nei vetri si riflettevano come frammenti d’attesa.
Aprì la valigia, quasi per abitudine, ma già sapeva che lì dentro non c’era nulla di adatto.
Niente reggeva il confronto con l’idea che aveva nella mente.
Né a ciò che stava per accadere.
Chiamò la reception, con voce ferma e perfettamente neutra.
«Una boutique per un abito da sera… molto particolare. Magari nei dintorni dell’hotel.»
Le fornirono l’indirizzo di un atelier a pochi isolati.
Ci andò subito, senza cambiarsi.
Entrò con passo sicuro, ignorando gli sguardi incuriositi delle commesse. Provò diversi modelli, ma fu solo uno a spezzare il fiato davanti allo specchio: un abito elasticizzato blu elettrico, corto a metà coscia, aderente come una seconda pelle, con tutta la schiena scoperta fino al punto più basso della curva lombare.
Nulla di più semplice. Nulla di più indecente.
Perfetto.
Tornò in hotel stringendo la busta con una grazia austera.
La sua mente era già altrove.
Appena entrata in camera, accese solo la lampada accanto al letto. Luci calde, morbide.
Spogliarsi fu un rituale lento: prima la camicia, poi i pantaloni, il reggiseno, infine le mutandine che scivolarono giù come un’ultima barriera lasciata cadere senza rimpianti.
Entrò in doccia e lasciò che l’acqua calda le colasse addosso, bagnando i capelli, scivolando lungo la schiena, tra i seni, sulle cosce.
Prese il rasoio, con movimenti lenti, accurati, silenziosi.
Ogni centimetro del suo corpo fu reso perfettamente liscio.
Quando uscì dalla doccia, si guardò allo specchio completamente nuda.
La pelle umida brillava alla luce dorata della stanza.
La depilazione totale le dava una sensazione di nudità assoluta.
Vulnerabilità scelta. Potere lucido.
Si asciugò i capelli con pazienza, poi li raccolse in una coda altissima e tirata, elegante e sensuale.
Il trucco fu un’opera d’arte minuziosa: eyeliner nero spesso, allungato verso l’esterno, ombretto blu petrolio sfumato con cura, mascara deciso, labbra bordeaux profonde e lucide.
Un filo di profumo — quello che usava solo in occasioni straordinarie — tra i seni, dietro le ginocchia, all’interno dei polsi.
Poi aprì la confezione dell’abito, lo srotolò lentamente sul letto e ne sentì la consistenza scivolosa, tesa, viva.
Non indossò nulla sotto.
Né reggiseno.
Né slip.
Né calze.
Si chinò lentamente e fece scivolare il vestito su di sé, facendolo aderire alle curve, al ventre, ai fianchi nudi, alle cosce nude.
Senza cuciture.
Nessun segno.
Solo pelle e tessuto.
Si infilò i tacchi alti: neri, lucidi, con tacco a spillo d’acciaio.
Fece qualche passo sul tappeto.
Si guardò allo specchio, di profilo, poi voltandosi a mostrare la schiena scoperta, che si curvava sensuale fino ai lombi.
L’orologio segnava le 22:50.
Giusto in tempo.
Raccolse la pochette, si avvicinò alla porta con passo lento.
Quando la aprì e sentì l’aria fresca del corridoio sfiorarle le gambe nude sotto l’abito, capì che non stava solo andando a un appuntamento.
Stava andando incontro a se stessa.
Il bar dell’hotel era immerso nella quiete dorata della sera.
Luci basse, sfumate, e il suono ovattato dei bicchieri che si toccavano di tanto in tanto.
Lorena fece il suo ingresso senza esitazioni, anche se ogni passo sembrava risuonarle dentro come un’eco.
L’abito aderiva perfettamente, il tessuto blu elettrico si tendeva sulle curve con una precisione quasi indecente. Ogni movimento, ogni respiro, ogni gesto rivelava che sotto non c’era nulla.
Eppure non era nuda.
Era vestita solo della propria volontà.
Si sedette al bancone, gambe accavallate con eleganza composta.
Il barista le si avvicinò. Giovane, curato, con lo sguardo attento.
«Un martini cocktail, grazie. Secco.»
La voce era calma, ma dentro di lei qualcosa pulsava. Aveva bisogno di quel primo sorso, di quel liquido chiaro e tagliente, come un vetro da rompere per respirare.
Il barista annuì e si mise al lavoro.
Quando tornò con il bicchiere, glielo porse lentamente, e prima di allontanarsi si chinò appena, quasi senza guardarla.
«Complimenti, signora… davvero. Complimenti.»
Lorena sollevò lo sguardo.
Il suo viso fino a quel momento teso si sciolse in un sorriso autentico, morbido, quasi grato.
Non rispose. Non ce n’era bisogno.
Sorseggiò lentamente, lasciando che il gin e il vermut le scivolassero sulla lingua, poi in gola, come un’iniezione di fuoco controllato.
Si voltò verso l’orologio tondo sopra il bancone.
Le lancette erano esattamente sulle undici.
Ma di Thomas, nessuna traccia.
Inarcò appena un sopracciglio.
Era in ritardo?
Aveva cambiato idea?
Forse l’aveva osservata da lontano e si era spaventato.
O forse, più semplicemente, l’intera proposta era stata una finzione codarda, un gioco per sentirsi desiderabile almeno una volta.
Terminò il primo cocktail con lentezza, poi ordinò il secondo.
Questa volta il barista non disse nulla.
Lorena affondò di nuovo lo sguardo nel bicchiere, ma non pensava più al drink.
Pensava al rasoio che aveva accarezzato ogni curva del suo sesso.
All’assenza assoluta di tessuto tra lei e l’abito.
All’odore sottile che sapeva di pelle calda, trucco, umidità trattenuta.
Si stava preparando per nulla?
E fu allora, a metà del secondo bicchiere, che sentì la voce alle sue spalle.
Ferma, familiare, lievemente tremante.
«Lorena… non speravo davvero di trovarti.»
Il bicchiere si fermò a pochi millimetri dalle sue labbra.
Un respiro.
Due.
Poi si voltò lentamente, senza sorridere.
Lo guardò.
E in quegli occhi ci mise tutto: la delusione appena sfiorata, la tensione accumulata, la voglia trattenuta, e quella goccia impercettibile di piacere per aver vinto lei. Ancora una volta.
Thomas era lì.
In piedi, accanto a lei, il sacchetto rigido tra le mani.
Lo stringeva con una cura che sembrava rivolta a qualcosa di vivo.
Un pacchetto elegante, dal bordo dorato, con il nome di una boutique che Lorena riconobbe subito: alta moda, solo su appuntamento.
Lei si voltò appena, con il martini ancora in mano.
Il liquido limpido, tagliato dal riflesso verde dell’oliva, tremò leggermente tra le sue dita, ma il gesto rimase perfetto.
Sorseggiò con lentezza, senza distogliere lo sguardo da lui.
Thomas la fissava.
Con lo stesso sguardo adorante della sera prima.
Ma stavolta qualcosa in lui era cambiato.
Parlava, sì, ma senza più un filo logico.
Le parole uscivano in libertà, come pensieri detti ad alta voce da chi non riesce più a tenersi nulla dentro.
«Non sapevo se saresti scesa. Davvero.
Ho camminato per ore, penso.
Avevo bisogno di muovermi. Di fare qualcosa.
Poi… poi ho pensato a te. Al fatto che, se ci fossi stata, se davvero fossi venuta, avresti meritato qualcosa di mio. Non mio nel senso materiale, ma… un gesto, capisci?»
Lorena lo guardava senza dire nulla.
Sorseggiava.
E dentro, già capiva.
Lui sollevò il sacchetto.
«Le ragazze di Dublino… le mie dipendenti… ho chiesto loro se ti conoscevano.
Hanno sorriso. Poi, dopo qualche drink, una di loro mi ha detto: “Lorena è l’unica donna per cui sappiamo già tutto. Le sue taglie, i suoi gusti, la rigidità con cui si veste. Ce lo insegna ogni giorno, anche quando non parla.”
E allora…
mi sono permesso.»
Lorena appoggiò il bicchiere, ancora a metà.
Lo sguardo divenne più stretto, le labbra ancora lucide del cocktail.
Thomas continuava:
«Ho chiesto alla boutique qualcosa che avresti potuto indossare stasera. Non per me.
Per te.
O forse anche per me.
Ma…
insomma, se vorrai, è tuo.
Se non vorrai, va bene lo stesso.
Tu sei già un regalo.
Non serve che ti spogli per essere nuda. Sei nuda adesso, lo senti?
Io sì.»
Lorena lo fissava.
Le sue parole erano confuse, quasi infantili.
Un flusso scomposto di emozioni che cercava forma, ma si rompeva sulle curve del desiderio.
Eppure… qualcosa in tutto questo le sembrava perfetto.
In quell’uomo che balbettava devozione, in quel regalo consegnato senza sapere nemmeno se sarebbe stato accettato.
Fu Lorena a rompere il silenzio.
Con quel tono deciso, asciutto, che aveva affinato in anni di trattative ad altissimo livello.
Niente esitazioni.
Solo il comando mascherato da proposta.
«Siediti, Thomas. Credo che dovremmo discutere i dettagli dell’accordo.»
Lui la guardò, quasi stordito.
Poi si issò sullo sgabello accanto a lei, con un sorriso che gli tremava sulle labbra.
Quando si sedette, per la prima volta la toccò.
Un gesto lento, quasi reverenziale: fece passare il dorso della mano lungo il suo braccio nudo, fino alla spalla scoperta dall’abito.
Non spinse, non accarezzò.
Sfiorò.
Lorena trattenne il respiro per un istante, impercettibile, mentre la pelle si tendeva sotto quel contatto.
«Certo, Lorena. Tutto quello che vuoi.»
Fece un cenno al barista, che li stava ancora osservando con attenzione discreta.
«Un bicchiere d’acqua… e un po’ di privacy, per cortesia.»
Il barista annuì, comprese subito.
Preparò l’acqua, poi si allontanò verso il fondo del locale, lasciandoli nella penombra dorata del bancone.
Thomas infilò una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una piccola pastiglia azzurra.
La posò per un istante sul palmo, quasi esponendola, poi la portò alle labbra con naturalezza e la ingoiò con un sorso d’acqua.
Lorena lo osservava senza dire nulla.
Solo uno sguardo tagliente, attento.
Professionale.
«Dimmi tutto, Lorena.
Che termini vuoi discutere?»
Si voltò appena, lasciando che le ginocchia si sfiorassero con le sue.
Poi si girò del tutto, con calma, e appoggiò un gomito al bancone, facendo scivolare lentamente l’altro braccio sulla gamba accavallata. Il gesto tirò il tessuto dell’abito, che risalì di pochi centimetri, svelando l’inizio della coscia liscia, nuda.
Sorseggiò il martini, le labbra leggermente dischiuse, e quando appoggiò il bicchiere parlò con voce bassa, piena, leggermente roca.
Non c’era esitazione.
Solo un elegante disvelamento.
«Sarò tua, Thomas. Per tutta la notte.
Fino all’alba. Mi concederò a te completamente.
Ma voglio che sia chiaro: tutto sarà protetto.
E non voglio che tu mi prenda... da dietro.
Non è in discussione.»
La voce si fece appena più ferma sull’ultima frase, ma senza cambiare tono.
Era una clausola, sì, ma detta con il controllo perfetto di chi sa che il proprio corpo è già parte della negoziazione.
Thomas la fissò per un istante, quasi stordito dalla chiarezza, e soprattutto da quella porzione di pelle che ora emergeva dalla seta tesa dell’abito.
Poi sorrise appena, ma era un sorriso diverso.
Niente più adorazione.
Solo desiderio e comando.
«No, Lorena. Non funziona così.
Io pago. Io decido.»
Lo disse inclinando leggermente il busto verso di lei, la voce più profonda, tagliente.
«Non ci saranno protezioni.
E tu dovrai essere mia.
Per davvero. Non a metà, non a parole.
Amorevole, presente, arrendevole.
Non mi interessa la durata. Non sono più giovane, lo so. Ma stasera...
mi basti tu. Così come sei.
Voglio che tu sia la mia amante. La mia compagna. La mia donna.
Per una notte sola.
Ma tutta mia. Senza limiti.»
Fece scorrere le dita sul bordo del sacchetto accanto a lui, poi alzò lo sguardo e concluse:
«Il tuo compenso sarà pari a dieci anni del tuo attuale stipendio.
Il bonifico partirà domattina, appena uscirai dalla mia suite.
Nessun vincolo dopo. Nessuna aspettativa.
Solo questa notte. E tu.»
Lorena lo fissava.
Aveva ascoltato ogni parola senza mai interromperlo.
Le mani erano posate sul bicchiere, le gambe ancora accavallate, ma ora si mosse lentamente: srotolò la schiena, fece scivolare un po’ l’abito lungo i fianchi, quanto bastava perché il tessuto si staccasse appena dalla pelle.
Un millimetro.
Forse due.
Ma bastava.
Si voltò verso di lui, e i capelli raccolti le lasciavano completamente scoperta la nuca e il profilo delle scapole, lisce e nude sotto la luce calda del bancone.
«Accetto tutto, Thomas. Tutto quello che hai detto.»
Si fermò un istante, poi abbassò leggermente il mento, lasciando che lo sguardo si alzasse da sotto le ciglia.
«Ma una cosa non cambia.
Quella parte di me non è in vendita.
Né stanotte, né mai.
Il resto è tuo. Se ti basta…»
Lo lasciò in sospeso, la frase aperta come una porta socchiusa, da cui filtrava il profumo caldo della sua pelle.
Thomas non rispose subito.
La guardò.
A lungo.
E capì che la donna che aveva davanti stava concedendo tutto, ma non cedeva nulla.
Non davvero.
Poi annuì, in silenzio.
Non servì una stretta di mano a suggellare l’accordo.
Thomas si mosse senza fretta, senza esitazioni. La guardava negli occhi mentre la sua mano, ferma da troppo tempo sul ginocchio, cominciava a scivolare lungo la coscia scoperta. Lorena non si ritrasse, non lo fermò. Rimase lì, con il fiato sottile e gli occhi accesi da una lucidità che conteneva tutto: calcolo, resa, desiderio.
Il palmo caldo salì lentamente, spingendo appena il bordo dell’abito verso l’alto. La seta seguì il movimento delle dita, si tese, poi si arricciò piano mentre lui si spingeva oltre. Non era un gesto violento. Non c’era urgenza, né bramosia. Solo un senso pieno, solenne, come se quell’atto avesse un peso preciso, già concordato.
Quando le dita raggiunsero la curva più alta, dove la pelle diventava più tenera e sensibile, Lorena trattenne il respiro appena. Una tensione invisibile le percorse la schiena. Lo sguardo di Thomas, fisso sul suo volto, si incupì di meraviglia, e il respiro gli cambiò appena quando la trovò così: calda, viva, già bagnata.
La umidità lo colpì come una certezza. Non si aspettava nulla, e trovò tutto.
Non disse niente.
Non c’era bisogno.
Lorena lo guardava, le labbra appena dischiuse, le guance segnate da un fremito, ma gli occhi pieni di controllo. Non era una resa, la sua. Era una conferma. La prova che sì, aveva accettato. Ma alle sue condizioni, con la sua intensità, con la sua pelle.
Il dito si fermò lì, all’ingresso di quel piacere promesso, come a tastare una porta che sarebbe stata aperta solo più tardi. Poi ritrasse la mano, lentamente, con la stessa grazia con cui l’aveva poggiata. Non c’era bisogno di altro.
Lei prese un sorso di martini senza distogliere lo sguardo.
Aveva vinto.
Ma anche perso qualcosa.
Il corridoio che li condusse alla suite era silenzioso, ovattato, come se l’intero hotel si fosse fermato in attesa del loro ingresso. Lorena camminava a fianco di Thomas con passo calmo, il suono regolare dei tacchi che si spegneva sulla moquette, la pochette tra le dita come un oggetto inutile, simbolico. Non c’erano più parole tra loro, solo respiri e promesse non dette.
Quando la porta si aprì, la stanza li accolse con la quiete lussuosa di uno spazio riservato a pochi. La suite era luminosa ma calda, pavimenti di legno scuro, pareti vellutate, grandi vetrate che mostravano la città nella notte.
Al centro, un salotto ampio con divani in pelle color crema, un tappeto spesso, luci morbide e basse.
La stanza migliore dell’hotel.
La più distante dal mondo reale.
Lorena lasciò cadere la pochette su una poltrona e si avvicinò al divano. Si sedette con eleganza, le gambe piegate da un lato, una mano che accarezzava distrattamente il bordo dell’abito tirato sulle cosce. Thomas si sedette accanto a lei, a distanza ravvicinata ma composta. I loro corpi non si toccavano ancora, ma l’aria era già densa.
Lei lo guardò con una dolcezza che non aveva mai mostrato prima. Gli sfiorò il volto con la punta delle dita, accarezzandogli la guancia, poi la mascella, e infine il profilo delle labbra, come a verificarne la presenza.
Poi, lentamente, lo baciò.
Non fu un bacio impaziente.
Fu un assaggio lungo, caldo, quasi timido.
La sua bocca cercava la sua con pazienza, con rispetto, con una dolce prepotenza che Thomas non seppe contenere. Le sue mani si mossero, prima esitanti, poi più sicure.
Cominciò dalle ginocchia.
Le toccò come si accarezzano superfici preziose, con la punta delle dita appena piegata.
Salì sulle cosce nude, sfiorandone la linea esterna, poi percorse lentamente la curva interna, senza forzare nulla.
Le mani tremavano appena, ma non si fermavano.
Salirono verso i fianchi, poi il ventre, che sentì contrarsi leggermente sotto il palmo caldo.
Lorena chiuse gli occhi, inspirò a fondo, non si ritrasse.
La stoffa sottile dell’abito si tendeva e si muoveva sotto ogni tocco.
Thomas la esplorava come se stesse componendo una melodia fatta di pelle e seta, rispetto e bisogno.
Toccò il seno, prima solo con il dorso delle dita, poi appoggiando una mano aperta che aderì alla forma piena, nascosta solo dal tessuto teso.
La sentì calda, compatta, viva.
Lorena lo guardava, con le pupille dilatate e le labbra dischiuse, mentre lui saliva ancora: le spalle, il collo, il profilo del braccio fino al polso, poi la mano, che strinse con delicatezza tra le sue, baciandola con una tenerezza disarmante.
Poi tornò su.
Le dita le sfiorarono il volto, la linea della mandibola, la curva sotto l’orecchio.
Si fermò a guardarla come se stesse cercando un segno, una conferma, una benedizione.
Lorena lo fissava in silenzio, ma dentro…
dentro il corpo cominciava a fremere davvero.
Le carezze non erano più solo un contatto: erano una lenta apertura.
Una resa dolce, che cresceva come un fuoco sottopelle, alimentato dalla delicatezza.
Da quell’attesa.
Da quel rispetto così profondo da diventare possesso.
All’improvviso, Lorena si scostò, con un movimento lento ma deciso, come se avesse bisogno di respirare, di riprendersi da quell’ondata di tenerezza che minacciava di scioglierle il controllo. Si tirò su con grazia, la schiena dritta, il mento alto, lo sguardo che lo attraversava.
Lo guardò per qualche secondo, poi sorrise, inclinando appena la testa.
«Ma il mio regalo…»
Una pausa.
«Non me lo dai?»
La voce era vellutata, ma tagliente.
Una lama lucida nascosta sotto un guanto di seta.
Thomas si alzò subito. Quasi scattò.
Raccolse la borsa che aveva appoggiato vicino all’ingresso e gliela porse con due mani, come un’offerta, come qualcosa che non osava nemmeno aprire lui stesso.
«Vai in bagno a cambiarti per me,» le disse, con un tono che voleva essere fermo ma si incrinava sotto l’emozione. «Sei già perfetta così come sei… ma ti voglio ancora più…»
Si fermò.
Non trovava la parola.
La fronte leggermente arrossata, il respiro più corto.
Lorena lo fissò con uno sguardo che sapeva esattamente dove lui stava andando.
Lasciò cadere lo sguardo sulla borsa, poi tornò su di lui.
Un sorriso lento le si disegnò sulle labbra lucide.
«Più… troia, vero?»
La parola uscì morbida, come una carezza sporca, sussurrata con tale sicurezza da spezzare ogni maschera.
Thomas arrossì, abbassando appena lo sguardo. Ma annuì.
Lo ammise.
Lo desiderava.
Lorena prese la borsa, senza fretta, e si incamminò verso il bagno.
I fianchi ondeggiavano con precisione controllata, l’abito che seguiva ogni curva come un riflesso.
La porta si richiuse alle sue spalle, lasciando la suite nel silenzio ovattato, sospeso.
Lorena rimase un attimo ferma davanti allo specchio, con ancora l’abito addosso.
Il suo riflesso la osservava, ma non era quello che avrebbe voluto mostrare.
Non quella sera.
Non così.
Abbassò lentamente la zip laterale e lasciò che il vestito le scivolasse giù, disegnando ogni curva prima di accasciarsi sul pavimento come un’ombra spogliata.
Era nuda, liscia, perfetta.
La pelle ancora calda per l’attesa.
Il sesso già teso, appena lucido.
Dal piano in marmo, scelse per primi il reggicalze e le calze in seta.
La fascia alta, in pizzo traforato nero, sembrava respirare tra le dita. La fece scorrere lentamente lungo i fianchi, fin sopra le anche, e la fissò con cura.
Poi si sedette sul bordo della vasca, gambe tese, e srotolò una calza dopo l’altra, guidandole con le dita lunghe e sicure.
La seta aderiva come un sussurro: una carezza continua, fredda, fluida.
I ganci in metallo si agganciarono con uno scatto secco, soddisfacente, preciso.
Erano il suono di una decisione.
Soltanto allora prese il tanga in vinile nero.
Lo alzò lentamente, facendolo passare tra le gambe con attenzione.
Lo tirò alto sui fianchi, in modo che le stringhe restassero tese e pulite.
Il tessuto centrale, liscio e brillante, si posava appena sul sesso rasato.
Un triangolo lucido a contenere il punto da cui tutto sarebbe partito.
Poi il bustino.
Aprì i ganci, lo fece aderire al busto.
La chiusura fu lenta, ritmata: ogni scatto un grado in più verso la nuova sé.
Il vinile si strinse in vita, costringendola, scolpendola.
Le coppe basse lasciavano completamente scoperti i capezzoli, che sporgevano dritti, già gonfi, già vivi.
La luce calda del bagno li faceva brillare.
Serrò le spalline.
Fece un passo indietro.
Perfetta. Ma non ancora finita.
Scelse per ultimo il collare in raso nero.
Lo passò attorno al collo, lo chiuse con la fibbia.
Si guardò.
Non c’era più alcun confine tra il suo corpo e la volontà.
Fece per aprire la porta… ma poi tornò indietro.
Le pinzette dorate per i capezzoli erano ancora sul marmo, come dimenticate.
Le prese, con calma.
Le guardò un attimo.
Poi, con mano ferma, le aprì.
Le applicò ai capezzoli, una per volta.
Lo scatto fu breve.
La tensione, immediata.
Un fremito le percorse la schiena.
La bocca si socchiuse.
Uscì dal bagno così.
Alta, lucida, armata.
L’unico suono era quello lieve dei suoi tacchi che mordevano la moquette.
Thomas era sul divano.
Indossava solo un paio di boxer scuri, seduto con le gambe divaricate, le braccia appoggiate ai fianchi.
Il suo corpo era quello di un uomo che non aveva più vent’anni da tempo: pancia piena, peluria virata al grigio sul petto e sull’addome, spalle larghe ma molli.
Non era bello. Non lo era mai stato.
Ma lo sguardo…
Quello la colpì con la forza di un pugno sotto lo sterno.
Cupidigia.
Desiderio.
Passione bruciante.
La stava guardando come se fosse un miracolo costruito per lui e solo per lui.
E Lorena, sentendo quegli occhi stringerla, seppe di aver vinto.
Seppe anche che si sarebbe lasciata perdere.
Arrivò davanti a lui senza parlare.
Le calze tirate, il bustino stretto, le pinzette dorate che segnavano i capezzoli e tra di esse la sottile catenella che li univa, oscillante a ogni passo.
Si fermò a meno di un metro.
Le labbra appena piegate in un sorriso ambiguo.
Poi sollevò una mano e, con polso leggero, tirò appena la catenella tra le mollette.
Un piccolo strattone, secco.
Il dolore fu breve e pungente.
Ma ciò che le vide negli occhi la fece bagnare ancora.
«Vado bene così?» chiese.
La voce era calma. Quasi ironica.
Poi fece un giro su se stessa, ruotando lenta, elegante, come un’offerta da museo.
I tacchi disegnavano un cerchio perfetto, la catenella tintinnava, la seta scivolava sulla luce.
Quando si fermò, tornò a guardarlo negli occhi.
Nessuna risposta.
Solo quel fuoco che non chiedeva più permessi.
Lorena si inginocchiò tra le sue gambe.
Lo fece con lentezza. Con grazia.
Le ginocchia affondarono nella moquette morbida, la schiena dritta, il bustino che brillava.
Lo guardò dal basso, con le pupille dilatate e un sorriso che non lasciava dubbi.
Aveva deciso.
«È ora che facciamo conoscenza, io e il tuo fratellino.»
Gli baciò le labbra con dolcezza, come una carezza pulita, quasi commovente.
Poi scese.
Le sue labbra scivolarono sul petto, tra i peli irregolari, poi sul ventre, caldo, pieno.
Arrivò ai boxer.
Li sfiorò con le dita.
Poi con la bocca.
Con un gesto fluido, sicuro, Lorena agganciò i boxer con le dita e li fece scivolare lentamente giù, senza mai staccare lo sguardo dal suo.
Thomas era rigido, quasi tratteneva il respiro.
Il membro era già eretto, alto, pulsante.
Una dotazione di tutto rispetto, resa ancora più impressionante dalla tensione accumulata, dal sangue accelerato dalla chimica, e da quello che stava vedendo:
una donna perfetta, inginocchiata davanti a lui, vestita di lucido e seta, con le labbra aperte in un mezzo sorriso e la luce negli occhi.
Lorena non lo prese subito.
Iniziò con piccoli baci, leggeri, quasi casti, lungo la base, poi sulla lunghezza, poi ancora più su, fino al prepuzio.
La sua lingua si fece strada con lentezza, descrivendo un cerchio attorno al bordo teso.
Ogni millimetro era un'esplorazione.
Un gesto di conoscenza carnale.
Quando la lingua cominciò a spingere più in là, il prepuzio si ritirò con un movimento naturale, rivelando il glande lucido, gonfio, vivo.
Lei lo guardò negli occhi.
E solo allora lo prese dentro la bocca.
L’ingresso fu lento, profondo, caldo.
Lo accolse come si accoglie un giuramento.
Le labbra si chiusero attorno a lui con delicatezza, ma anche con fame.
Il primo movimento fu morbido, calibrato.
Poi spinse più in fondo.
Un sospiro sfuggì a Thomas, denso, gutturale.
Non era solo piacere. Era stupore.
Non si aspettava tutto questo.
Lorena sentì la pelle calda riempirle la bocca, sentì la reazione dell’uomo sotto di lei, il fremito del ventre, le mani che si tendevano per toccarle i capelli ma non osavano ancora.
Lei continuò, fluida, elegante.
Senza fretta.
Senza mai distogliere lo sguardo dal suo.
Il respiro di Thomas si era fatto corto, irregolare. Le cosce si contraevano, il petto si sollevava più rapidamente. Aveva appoggiato una mano al bordo del divano, l’altra ancora sospesa, come se temesse che un gesto troppo diretto potesse rompere l’incanto.
Lorena non aveva fretta.
Alternava movimenti profondi a suzioni lente, mirate, ognuna accompagnata da un guizzo della lingua che lo faceva sobbalzare.
Le labbra scivolavano sulla pelle tesa, il vinile del bustino si tendeva con ogni gesto, le pinzette sul seno oscillavano leggermente, producendo una lieve trazione, dolce, continua.
Poi prese fiato.
Si abbassò ancora, guidandolo dentro di sé con decisione.
Sentì il glande toccarle la gola, poi superarla.
Il naso si schiacciò contro il ventre morbido di lui, il profumo della sua pelle piena, maschile, mescolato al desiderio.
Era tutto dentro.
Fino in fondo.
Nella gola.
Le mani di lei erano ferme. Una teneva lo scroto, lo accarezzava con gesti lenti, circolari, le dita appena umide, la pelle tesa e sensibile tra le sue dita.
L’altra si appoggiava alla coscia di lui, per dare spinta, equilibrio, intenzione.
Mentre lo teneva dentro, aspirava con forza, creando una pressione che Thomas non avrebbe saputo descrivere. La lingua non si fermava: girava, stringeva, accarezzava l’asta tesa, mentre il corpo di lui sembrava sul punto di cedere, contratto in un piacere che non aveva mai immaginato potesse essere così.
Lorena sollevò appena lo sguardo, ancora con lui dentro, e lo guardò.
Non fu il gesto, né la pressione perfetta delle labbra o il ritmo preciso della lingua.
Fu quello sguardo, fisso, lucido, che Thomas incontrò nel momento in cui era più vulnerabile.
Quel contatto diretto, caldo, che diceva: sei mio adesso. Totalmente mio.
E fu allora che crollò.
Il piacere si riversò dentro di lei come un’onda improvvisa, tesa e rovente.
Lorena non si mosse.
Lo tenne profondamente nella bocca, fino in fondo, senza allontanarsi, senza battere ciglio.
Lo accolse. Tutto.
Ogni spasmo, ogni fremito, ogni stilla.
Non ne sprecò nemmeno una.
Thomas si contorceva, la testa riversa all’indietro, il corpo scosso da un godimento totale, primitivo, quasi doloroso per quanto intenso.
Lorena non lo lasciò andare.
Solo quando sentì il respiro tornare regolare e le sue mani cedere la tensione, estrasse lentamente il membro dalla bocca.
Ancora turgido.
Ancora vivo.
Lo pulì con cura, con gesti precisi, quasi affettuosi.
Poi, ancora inginocchiata, lo appoggiò sulla propria guancia, inclinando appena la testa, e lo guardò con un sorriso lucido, profondo.
«Bella la chimica,» sussurrò.
Poi si alzò con grazia felina.
Si voltò.
E con la mano, ancora avvolta attorno al sesso di lui, lo guidò dentro di sé mentre si sedeva lentamente sulle sue gambe.
Il corpo si aprì per accoglierlo.
Scivolò dentro.
Tutto. Fino in fondo.
Un gemito le sfuggì dalle labbra, basso, denso.
Non era dolore.
Era una miccia accesa.
Una vertigine che le fece contrarre tutti i muscoli pelvici, stringendolo, accarezzandolo, facendolo sentire imprigionato dentro qualcosa di vivo, affamato, deciso.
Rimase così per qualche istante, respirando piano, sentendo ogni millimetro di quell’unione profonda.
Poi iniziò a muoversi.
Non su e giù.
Ma in cerchio, ruotando il bacino, cercando l’angolazione precisa per farsi toccare dentro.
Sapeva dove colpire, dove sentire.
Lo trovò al terzo cerchio.
E lì cominciò a giocare con la frizione, con la pressione, con il suo corpo che si stringeva attorno al suo con un’intelligenza antica.
Le mani si poggiarono sulle sue cosce.
Thomas tremava.
Lorena si stava prendendo il suo piacere, e quando l’onda le montò dentro, non lo avvisò.
Non gridò.
Non si agitò.
Si contrasse, lentamente.
Le spalle tese, la testa reclinata.
Il corpo che vibrava in silenzio, mentre il primo orgasmo della serata le esplodeva dentro.
Caldo. Profondo. Completo.
Quando le contrazioni si placarono e il respiro riprese lento, Lorena si lasciò restare un attimo addosso a lui, ancora con lui dentro.
Poi, senza dire nulla, si sollevò con calma, sentendo lo scivolamento caldo e umido del corpo che abbandonava il suo, e si voltò verso il letto matrimoniale, largo, imponente, con le lenzuola stirate come un invito.
«Vieni. Non è finita.»
La voce era bassa, roca, densa di piacere non ancora saziato.
Thomas si alzò, ancora in trance, il membro ancora duro e segnato dal corpo di lei, gonfio, tirato.
La seguì senza domande.
Lorena si sdraiò sul letto al centro, le gambe divaricate, le braccia tese sopra la testa.
La luce della lampada creava riflessi sensuali sul bustino lucido, sulle calze di seta agganciate, sulla catenella che oscillava tra le pinzette ancora strette sui capezzoli.
Il tanga era stato abbandonato sul tappeto.
Era nuda dove contava.
E pronta.
«Guardami bene adesso,» sussurrò, «perché da questo momento in poi… non sarò più la tua fantasia.
Sarò la tua realtà.»
Thomas si avvicinò come un uomo stordito dal miracolo.
Si inginocchiò tra le sue cosce, gliele sollevò lentamente, e la guardò da sotto.
Il sesso completamente rasato, gonfio, lucido.
Le labbra intime turgide, aperte, tese in attesa.
La catenella sopra il ventre.
Il bustino che le schiacciava il seno, le pinzette che le allungavano i capezzoli.
Era pornografia fatta carne.
Ma senza alcuna volgarità.
Solo potere.
Entrò di nuovo.
Lei lo accolse con un gemito, più basso, più profondo.
Le gambe gli si chiusero attorno ai fianchi.
Lo tirò dentro con forza, e iniziò a guidarlo con i fianchi, con piccoli colpi secchi, dritti al punto.
Il letto iniziò a cigolare.
Lorena si mordicchiava le labbra, lo guardava mentre lui si perdeva, mentre la prendeva come aveva sempre sognato: con forza, con fame, senza pietà, ma sempre con quella maledetta adorazione negli occhi.
Le sue mani le presero i seni, tirando con le pinzette, facendole male.
Lei ansimava, si contorceva, e in un momento lo afferrò per i fianchi, spingendolo più in fondo, fino a sentire la base premere sul suo sesso completamente dilatato.
«Più forte, Thomas.
Fammi tua.
Come se mi avessi davvero comprata.»
E lui obbedì.
La prendeva.
Contro il bustino.
Sopra le calze.
Tirandole la catenella, spingendo fino al fondo.
Lei venne ancora.
Senza avvertimento.
Un urlo sommesso.
Un’esplosione umida che gli bagnò la base.
Il secondo orgasmo la lasciò tesa, il petto che si sollevava rapidamente, la pelle sottile del ventre luccicante di sudore e piacere.
Thomas era ancora dentro di lei, ancora duro, bagnato dalla loro unione.
Ma Lorena si voltò di scatto, lo spinse via con dolcezza feroce, e si tirò su, a carponi, sul letto.
«Adesso voglio vederti… mentre mi guardi da dietro.»
Si voltò appena, la schiena arcuata, il bustino che ancora stringeva il busto, la catenella che pendeva tra i seni e le pinzette che ondeggiavano a ogni respiro.
Le calze di seta brillavano sulla pelle delle cosce, il reggicalze teso.
Il sesso esposto, aperto, lucido del suo desiderio, pulsava tra le cosce.
Thomas si inginocchiò dietro di lei, senza parole.
Le mani le afferrarono i fianchi, la punta del membro cercò l’ingresso che aveva appena lasciato e scivolò dentro con un colpo unico, pieno, carnale.
Lorena gemette, e si appoggiò ancora di più sui gomiti.
La posizione la apriva del tutto.
La esponeva, la offriva, la mostrava.
«Lorena, guarda sotto il cuscino» sussurrò.
La voce rotta. Calda. Implacabile.
Lei obbedì.
Trovò le manette sottili in pelle nera, con ganci in acciaio e interno foderato di raso.
Lorena porse i polsi all’indietro, ancora inginocchiata.
Glieli legò con delicatezza, ma con fermezza.
Le mani ora erano unite dietro la schiena, tra le scapole, i polsi tirati all’indietro, il petto sollevato.
I capezzoli scossi dalle pinzette e dalla catenella.
La prese così.
Legata.
Inarcata.
Completamente esposta.
La penetrò più a fondo, con movimenti lunghi, pesanti.
Le mani libere sui suoi fianchi, poi sulle calze, poi sulle natiche aperte.
Lei gemeva a ogni colpo, un suono profondo, vibrante.
Il suo sesso si stringeva attorno a lui con la stessa fame, la stessa voglia, ma ora c’era qualcosa di più: una rabbia sottile, una brama che sfiorava la follia.
«Usami, Thomas.
Fino in fondo.
Dammi ciò che hai pagato.
Ma prendilo davvero.»
Le parole gli esplosero nel petto.
La spinse in avanti, affondò con tutto se stesso, tirò la catenella con forza e la sentì urlare nel cuscino, tremare sotto di lui, mentre veniva ancora, un’onda violenta, profonda, interminabile.
Thomas era sul punto di esplodere di nuovo.
Ma lei non aveva ancora finito con lui.
Thomas sentiva la fine salire dal basso ventre come una marea travolgente.
Il corpo teso, i muscoli contratti, il respiro spezzato.
Ogni spinta dentro di lei era un passo verso l’abisso.
Lorena lo sentì.
Lo percepì dal tremore nelle sue mani, dalla presa che si faceva più incerta, dai colpi sempre più profondi ma meno regolari.
Si voltò appena, quanto bastava per fargli vedere i suoi occhi tra i capelli sparsi sul viso, e sussurrò come una condanna dolce:
«Vieni dentro di me. Fallo ora. Ma non pensare neanche per un istante che sia finita.»
La voce era bassa, graffiata, e insieme ipnotica.
E fu tutto ciò che servì.
Con un ultimo affondo, profondo, violento, Thomas la riempì di piacere.
Lungo, caldo, teso.
Un orgasmo che gli spaccò il corpo in due, che gli fece affondare le dita nella carne delle sue cosce.
Veniva tremando, grugnendo, piegandosi su di lei, mentre Lorena restava perfettamente aperta, inarcata, ancora stretta dalle manette.
Sentì tutto.
Ogni fremito.
Ogni scossa.
Ogni goccia.
E ne fu eccitata come non mai.
Quando lui si fermò, ansimante, quasi esausto, cercando di allontanarsi, lei si spinse indietro con i fianchi, lo trattenne dentro di sé.
Il sesso ancora turgido, appena ammorbidito, ma vivo.
La carne calda, ancora avvolgente.
E continuò a muoversi.
Piano. Ma senza fermarsi.
«Non ci pensare nemmeno.
Hai pagato, ora mi dai tutto.
Anche quando pensi di non averne più.
Anche quando implorerai di smettere.»
Si sollevò sulle ginocchia, ancora legata, e cominciò a cavalcarlo al contrario, come se volesse spremere l’ultimo briciolo di piacere.
Lo sentiva scivolare dentro di lei, umido del suo seme e del suo godimento.
Ogni movimento era più sporco, più carnale, più disperato.
Thomas gemeva, il corpo in fiamme, incapace di fermarla.
E Lorena, con la testa riversa all’indietro e la schiena arcuata, cominciò a godere di nuovo.
Ma questa volta era più violenta, più aperta, più animale.
Il letto scricchiolava, le mollette tiravano i capezzoli, la catenella le segnava la pelle, ma lei non si fermava.
Lorena si fermò solo quando sentì che lui era sul punto di crollare, il corpo madido di sudore, il sesso ancora dentro di lei, quasi esausto ma ancora pulsante.
Si sfilò lentamente da sopra di lui, lasciando che il contatto si spezzasse con un suono umido, quasi indecente.
Si voltò.
Lo guardò disteso sul letto, le cosce tremanti, il respiro spezzato.
Perfetto. Vulnerabile. E ancora suo.
Apri il cassetto del comodino, le disse Thomas.
Vi trovò una scatola nera, discreta.
Aprì il coperchio.
Dentro, un vibratore sottile, lungo, lucido.
Non troppo grande, non troppo piccolo.
Ma perfetto per ciò che voleva.
Thomas la guardava, senza fiato.
Non disse nulla.
Non poteva.
Ma nei suoi occhi c’era un misto di terrore e desiderio che Lorena conosceva fin troppo bene.
Lei sorrise.
Appoggiò l’oggetto sulla lingua per inumidirlo, lentamente, guardandolo.
Poi salì nuovamente su di lui, e mentre si abbassava per baciarlo, gli sussurrò:
«Ora tocca a me.
Ti voglio… mentre tremi.
Ti voglio mentre non sai più chi sei.»
Si girò sopra di lui.
Rimase a cavalcioni, la schiena voltata, e si fece scivolare il vibratore tra le cosce, lasciandolo affondare nel sesso già saturo, mentre il bustino ancora stretto le tagliava il respiro.
Poi cominciò a muoversi.
Lentamente.
Rotando i fianchi, ancora.
Ma la vera tortura era per lui.
Perché Lorena allungò una mano tra le gambe dell’uomo, e cominciò a stimolarlo di nuovo, con la bocca che tornava a cercarlo, mentre il vibratore lavorava dentro di lei, emettendo quel ronzio regolare e pieno che le faceva vibrare tutta la pelvi.
Il suo corpo si contraeva sopra il giocattolo, le cosce strette, il respiro corto.
Ma non si fermava.
Aveva deciso che lo avrebbe portato oltre.
«Ancora una volta, Thomas.
Dammi tutto quello che hai.
Anche se ti brucia.
Anche se implori.»
Lui gemette.
Le mani cercavano qualcosa da afferrare.
Le lenzuola, il materasso, i propri pensieri.
Ma era perso.
E quando Lorena venne ancora, gemendo mentre il vibratore la accarezzava dentro e le pinzette si tiravano al culmine del piacere, lo afferrò con la bocca un’ultima volta.
Bastò poco.
Lui esplose di nuovo.
Questa volta con un urlo.
Un dolore che era piacere.
Un godimento che rasentava lo sfinimento.
Un piacere così intenso da fargli cedere il corpo.
Lorena si lasciò andare accanto a lui.
Sorridendo.
Appagata.
Sporca.
Meravigliosa.
E lui, distrutto, ma felice, non riusciva più a distinguere dove finiva il piacere e iniziava la resa.
Il silenzio nella suite era irreale.
Solo il suono del loro respiro.
Solo il rumore umido della carne e della pelle ancora tesa, ancora viva.
Thomas giaceva sul letto, gli occhi socchiusi, i muscoli tesi nel tentativo di non cedere alla stanchezza. Ma non poteva sfuggire a Lorena.
Lei era lì, sdraiata di fianco, il bustino ancora allacciato stretto, il seno che si sollevava appena sotto il vinile lucido. I capelli disordinati, la bocca ancora arrossata dai baci, le guance accese.
Ma gli occhi…
Quegli occhi non avevano conosciuto il riposo.
Si sollevò piano, si portò a cavalcioni su di lui e chinandosi a pochi centimetri dal suo volto, lo guardò senza sorridere.
«Non è finita. Adesso vieni con me.»
Lo prese per mano e lo fece alzare.
Le gambe gli tremavano, le ginocchia cedevano.
Ma la seguì, nudo, sfinito, nel bagno della suite, dove la vasca idromassaggio già traboccava di vapore.
Lorena aprì l’acqua, la regolò con calma.
Poi si voltò.
Con un gesto rapido sganciò la catenella che univa le mollette ai capezzoli.
Non sussultò nemmeno.
Solo un lungo sospiro, profondo, di libertà e di potere.
Poi aprì le fibbie del bustino e lo lasciò cadere a terra.
Era nuda.
Sotto la luce calda e umida, appariva irreale.
La pelle chiara e lucida, le calze ancora perfette, i talloni sui tacchi.
Sembrava una creatura uscita da un sogno troppo potente per essere raccontato.
«Vieni dentro con me.»
Lo fece entrare nella vasca, poi si posizionò sopra di lui, le gambe piegate, il sesso di nuovo a pochi millimetri dal suo.
Il corpo di Thomas urlava di stanchezza, ma anche di bisogno.
Lorena non chiese il permesso.
Lo prese.
E si mosse.
Lenta.
Inesorabile.
Circolare.
I getti dell’idromassaggio li colpivano, amplificavano ogni contatto, ogni spinta.
Lorena chiudeva gli occhi a tratti, lasciandosi possedere e insieme possedendo, cavalcando il piacere come una furia morbida, senza mai perdere il controllo.
Thomas gemeva.
Ogni movimento gli strappava un suono nuovo.
Più basso.
Più profondo.
Più… perso.
E fu allora che Lorena capì che ci era vicina.
Lo afferrò per il volto.
Lo guardò negli occhi.
E con voce ferma, piena, imperiosa:
«Adesso vieni con me. Non da solo.
Adesso mi prendi. Ma con tutto.
Non col corpo, Thomas.
Con l’anima.**
Lui tremò.
E venne.
Ancora.
Con violenza.
Con urla che sembravano preghiere.
Con gli occhi persi nel vuoto.
Con il cuore completamente nelle mani di lei.
Lorena non si fermò.
Si lasciò andare insieme a lui.
E nel suo orgasmo, non c’era solo piacere.
C’era onnipotenza.
C’era rovina.
C’era amore.
C’era controllo.
C’era delirio.
La vasca si svuotò lentamente, lasciando dietro di sé il rumore lieve dell’acqua che gocciolava e il profumo del vapore che aleggiava ancora nell’aria.
Lorena si alzò per prima.
Senza parlare, uscì dalla vasca con un gesto lento, quasi teatrale.
L’acqua scivolava giù per il suo corpo come se avesse imparato ad amarla, disegnando curve e incavi con carezze invisibili.
I capelli bagnati sulle spalle, le calze ormai disfatte che sfilò con un gesto distratto.
Poi prese un asciugamano bianco, lo appoggiò sulle spalle di Thomas e gli allungò la mano.
«Vieni.**
Camminarono insieme verso il letto.
La stanza era tiepida, profumata.
Il lenzuolo ancora spiegazzato, intriso del loro odore.
Si distesero l’uno accanto all’altra, nudi, le membra pesanti, le bocche socchiuse.
Thomas le prese una mano, senza guardarla.
La strinse piano.
Non c’era bisogno di altro.
Lorena chiuse gli occhi.
Il busto che si sollevava lentamente, il respiro che si faceva regolare.
Non c’era rimorso.
Non c’era vergogna.
Solo la stanchezza dopo una battaglia vinta.
E mentre il sonno li prendeva, le sue cosce ancora umide si incrociarono alle gambe dell’uomo, che si era abbandonato nel sonno profondo dei vinti, degli amanti e di chi, per una notte, ha avuto tutto.
Le lenzuola bianche erano ancora leggermente umide, accartocciate in quel groviglio che aveva accolto i loro corpi per ore. Lorena si svegliò prima che il sole fosse sorto del tutto. La luce che filtrava dalla finestra era appena sufficiente a delineare le linee del suo corpo nudo mentre si sollevava con grazia dal letto. Aveva ancora addosso l’odore di lui, e sulla pelle la traccia invisibile del piacere.
Si mosse in silenzio, recuperò l’abito blu dal pavimento, lo infilò lentamente, lasciando che le accarezzasse la pelle. I tacchi, lucidi e altissimi, erano lì accanto. Li indossò con quel gesto naturale che appartiene solo a chi è abituata a dominare ogni scena, anche quelle che avvengono in una stanza chiusa. Si sistemò i capelli con le dita, poi si sedette di nuovo sul letto, di fianco a Thomas.
Lo osservò dormire, disteso, il torace ancora sollevato da un respiro profondo. Gli passò un dito lungo la linea della mandibola, poi si chinò e gli posò un bacio sulle labbra, lento, consapevole, come un sigillo.
Lui si stirò, aprì gli occhi appena. «Già sveglia...?»
«Sì,» sussurrò lei, accarezzandogli la spalla. «Volevo salutarti prima di andare. Grazie per la notte... mi hai fatta sentire... donna, e anche femmina. Non è la stessa cosa, e tu l’hai capito.»
Thomas sorrise, ancora tra sonno e realtà.
«Non voglio soldi da te. Se proprio non sai cosa fartene, fai una donazione per i bambini bisognosi. Ti prego, fallo davvero.»
Gli diede un ultimo bacio, più lento, con un tocco di malinconia nelle labbra. Si alzò, prese la clutch sul comodino, controllò allo specchio che fosse in ordine, poi uscì dalla suite senza voltarsi.
L’alba l’accolse con la sua luce fredda e pulita. Presto sarebbe tornata in aeroporto, poi a casa. A una vita diversa, forse. Ma quella notte sarebbe rimasta con lei, chiusa tra le pieghe del vestito, come un segreto da tenersi stretto.
Se avete commenti, suggerimenti e critiche potete lasciarli qua sotto o scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
Durante il volo, si immerse in alcuni documenti tecnici, annotando con una penna stilografica appunti rapidi e ordinati. La testa era lucida, il trucco neutro, le gambe accavallate con naturale eleganza nei pantaloni aderenti del suo completo. A bordo, nessuno osò rivolgerle la parola.
Atterrò in Canada in pieno pomeriggio, accolta da un autista con cartello e nome della società. L’hotel era un cinque stelle nel cuore della città: moderno, discreto, essenziale. La suite al diciottesimo piano aveva vetrate che offrivano una vista spettacolare sul centro, ancora coperto da una sottile coltre di neve primaverile.
Il giorno successivo si aprì con una serie fitta di riunioni, incontri bilaterali, presentazioni. Lorena era precisa, ferma, autorevole. Tutti ne riconoscevano il valore, ma pochi riuscivano a distrarsi dalla figura che quella donna scolpiva con ogni movimento.
Il suo tailleur grigio antracite con camicia avorio non concedeva distrazioni, ma la tensione sensuale che emanava era innegabile. La postura, il tono, l’ordine. E poi quegli occhi verdi, che scrutavano e incidevano.
Quando ricevette il programma della serata di gala, non ebbe dubbi.
Quell’abito era ancora lì, pronto.
Alle 18:45 iniziò a prepararsi. Dopo la doccia, il corpo tonico e liscio venne avvolto in un accappatoio bianco, ma non si sedette mai: ogni gesto era parte di un rito.
Scelse una base leggera per la pelle, eyeliner marcato e ombretto in tonalità rame per esaltare i suoi occhi chiari, contour perfetto sulle guance e labbra rosso scarlatto lucidissime.
Raccolse i capelli in un’acconciatura pulita, lasciando alcune ciocche libere a incorniciare il viso.
Poi aprì la custodia e fece scivolare l’abito sul letto.
Seta lucida, rosso fuoco.
Aderente sul busto, un respiro infuocato di seta lungo il corpo. Lo infilò con lentezza, lasciandolo calzare come una seconda pelle. Sotto, niente reggiseno. Solo tanga coordinato, impercettibile. Ai piedi, décolleté nere con tacco a spillo.
Alle 20:10 uscì dalla stanza e prese l’ascensore. Quando le porte si aprirono nella hall, il brusio si abbassò per un istante.
Gli uomini si voltarono uno dopo l’altro, come attratti da un magnetismo inevitabile. Alcuni si aggiustarono la cravatta, altri si limitarono a seguirla con gli occhi.
Le donne si fecero improvvisamente più consapevoli delle proprie scollature, del proprio portamento, e la osservavano con un misto di ammirazione trattenuta e gelido sospetto.
La cena era andata oltre ogni aspettativa.
Lorena aveva conversato con diplomatici, imprenditori e consiglieri internazionali, rispondendo con intelligenza e ironia a ogni battuta. Aveva saputo essere brillante, ma mai troppo compiacente, affascinante ma sempre padrona di sé.
I complimenti erano piovuti uno dopo l’altro, talvolta velati da sorrisi, talvolta più espliciti, ma lei li aveva accolti con distacco.
Era consapevole del proprio aspetto, del modo in cui l’abito rosso fasciava la sua figura e accendeva gli sguardi, soprattutto maschili. Le donne la scrutavano con un misto di sospetto e ammirazione, come si guarda una rivale troppo bella per essere ignorata, troppo sicura per essere sottovalutata.
Appena il dessert fu servito, Lorena si alzò con grazia, declinò gli inviti per un ultimo brindisi e uscì dalla sala tra saluti e occhi che ancora la seguivano.
Non aveva sonno.
Non aveva voglia di spegnere la sera in una stanza d’hotel.
Scese direttamente al bar, ancora con l’abito addosso, senza sfiorare l’ascensore.
La seta scivolava silenziosa lungo le gambe, il passo deciso e regolare.
Entrò nel locale illuminato da luci basse e calde, diretto prolungamento del lusso discreto dell’hotel.
Non cercò un tavolino.
Si sedette al bancone, gambe accavallate, schiena dritta, sguardo rivolto verso il barista. Ordinò un gin con una fetta di lime. Non parlava mai molto con i camerieri, ma bastava il tono con cui chiedeva le cose per farli sentire rispettati.
Appoggiò le dita sottili sul bicchiere e ne assaporò un sorso. Liscio, deciso, aromatico. Perfetto.
Stava già abbandonandosi a una calma lucida e silenziosa, quando una voce dietro di lei la chiamò con timidezza.
«Posso offrirle un altro gin?»
Lorena si voltò lentamente.
Un uomo, sulla cinquantina, la osservava con un mezzo sorriso. Non aveva un aspetto particolarmente attraente: viso segnato, capelli radi ma ben pettinati, occhi intelligenti ma un po’ ansiosi.
Indossava una giacca scura semplice ma ben tagliata, una camicia blu con il primo bottone aperto.
Non era uno sfrontato. Aveva un’eleganza silenziosa e impacciata, che lo rendeva quasi simpatico.
«Solo se ne prende uno anche lei.»
Lui si illuminò.
Prese posto due sgabelli più in là, lasciando lo spazio necessario, come se avesse intuito che il rispetto era l’unico modo per restare.
Si presentarono. Il suo nome era Thomas.
Nessun ruolo, nessuna carica. Solo i loro nomi, come in un luogo neutro dove le etichette restavano fuori dalla porta.
Parlarono del freddo della città, del vino servito a tavola, delle luci del centro viste dall’alto.
Thomas non smetteva di guardarla.
Non con invadenza, ma con quel tipo di attenzione che pochi uomini ancora sapevano offrire. Non le guardava il seno, né lo spacco, né la bocca. La guardava come si osserva qualcosa di prezioso, con cautela, con rispetto, eppure con desiderio evidente.
Lorena lo lasciava fare.
Non c’era eccitazione, ma un senso di piacere sottile. Le piacevano le attenzioni garbate, la conversazione senza peso, e quel sentirsi cercata senza essere toccata.
«Non pensavo avrei finito la mia serata con una donna così bella al bancone di un bar.»
Lei sorrise appena, senza distogliere lo sguardo dal bicchiere.
«A volte le cose migliori arrivano proprio quando non le stai cercando.»
«Le dispiace se mi avvicino?»
La voce era la stessa: rispettosa, misurata, quasi trattenuta.
Lorena non rispose subito. Sollevò appena il mento, indicandogli lo sgabello vuoto accanto al suo.
Fu un gesto lieve, ma bastò.
Lui colse l’invito come si coglie un dono inatteso.
Con una destrezza quasi buffa, Thomas si sollevò e si sistemò accanto a lei con un piccolo balzo goffamente agile, come se temesse che il momento potesse sfuggirgli.
Lorena sorrise appena, senza voltarsi del tutto. Lo osservò con la coda dell’occhio mentre riprendeva fiato, visibilmente soddisfatto di essere lì, a un passo da lei.
Poi cominciarono ad arrivare i complimenti. Non pioggia fitta, ma gocce calde e scelte una a una.
Sulla bellezza, certo.
Ma anche sulla grazia con cui teneva il bicchiere, sulla postura perfetta delle spalle, sulla piega delle sue labbra quando sorrideva, sulla scelta del gin, “una bevanda da donne intelligenti e decise”, disse lui, aggiungendo che “il rosso dell’abito era un crimine contro la noia”.
Lorena non lo fermò.
Accettava ogni parola come se le spettasse, ma non con arroganza: con quella serenità solida che nasce solo quando una donna sa di meritare ogni attenzione.
E poi c’era il modo in cui lui la guardava.
Mai invadente.
Mai predatorio.
Uno sguardo pieno di stupore e desiderio, ma trattenuto da un senso di rispetto che la colpiva più di mille tentativi maldestri.
Lorena iniziò a inclinare lievemente la schiena per mostrarsi meglio, fece scivolare una ciocca dietro l’orecchio con un gesto lento, allungò le dita sul bicchiere con una posa che esaltava il polso e la curva morbida del braccio.
Non cercava di sedurlo.
Ma voleva farsi guardare bene.
Sentirsi bella sotto quello sguardo pulito le dava un piacere sottile, quasi infantile.
Thomas continuava a parlare, ma a tratti si perdeva, come se la presenza di Lorena cancellasse ogni discorso.
Thomas sembrava rapito. I suoi occhi vagavano tra il profilo di Lorena, il collo sottile, l'incavo appena visibile tra i seni, il modo in cui il tessuto lucido dell'abito rifletteva la luce del bancone. Era educato, deferente, persino un po' goffo nel modo in cui cercava di non sembrare troppo rapito.
Lorena sorseggiava il suo gin senza fretta. Una goccia le aveva appena sfiorato il labbro inferiore, e lei l’aveva raccolta con la lingua in un gesto del tutto istintivo.
Non aveva intenzione di sedurre quell’uomo, ma cominciava a percepire con piacere la forza che stava esercitando su di lui. Le piaceva sentirsi desiderata. Ammirata.
Era il privilegio di chi sa di non dover dare nulla in cambio.
Poi arrivò la frase.
Piana. Precisa.
Come un tuono secco, vicino, inaspettato.
«Quanto dovrebbe pagare un uomo come me per avere la tua compagnia questa notte?»
Lorena restò immobile.
Non fu uno scatto, né uno sdegno visibile. Non sussultò.
Solo lo sguardo si fece per un istante più fermo, tagliente, quasi trasparente. Le pupille si dilatarono lievemente, le labbra rimasero socchiuse a metà del gesto di bere.
Un istante eterno in cui le sue ciglia non batterono.
Era un’offesa?
Sì.
Ma non nel modo in cui l’avrebbe vissuta un’altra donna.
Non era rabbia quella che saliva. Era altro. Una miscela densa di stupore, disillusione e forse… un filo di colpa.
Thomas la guardava ancora, come se non avesse capito del tutto ciò che aveva appena detto. Oppure come se sapesse benissimo quanto fosse stato diretto, e stesse ora trattenendo il respiro in attesa di una sentenza.
Lorena si voltò lentamente verso di lui, con lo stesso sorriso che aveva prima.
Ma gli occhi erano diversi.
Dentro, un turbine di pensieri.
Forse non era poi così strano, si disse.
Una donna sola, in abito rosso fuoco, seduta al bancone di un bar d’albergo, senza anello, senza compagnia, senza fretta.
Forse era una proiezione troppo perfetta.
Forse, persino prevedibile.
Ma non era questo che faceva male.
Ciò che bruciava era essere ridotta a un ruolo. A una figura. A un prezzo.
Poi, con un tono quieto e perfetto, come se nulla l’avesse toccata, disse:
«Non sono qui in cerca di clienti. Sto partecipando a una convention di lavoro.»
Il tono non era glaciale, né altezzoso.
Era lucido.
Come una lama perfettamente affilata.
Non c’era vendetta nella voce. Solo la precisione di chi non lascia spazio all’ambiguità.
Lorena lo stava ancora osservando, con lo sguardo fisso e brillante, quando lui sorrise. Non era un sorriso imbarazzato, né arrogante. Era sincero, quasi malinconico.
«So bene che non sei una squillo, Lorena. Non esistono donne a pagamento del tuo livello. Ma la mia proposta rimane.»
Lei non disse nulla. Lo lasciò continuare.
«Una donna con la tua classe, con il tuo charme, potrebbe mai accettare di fare sesso con uno come me solo perché pagata? Ti sembro ridicolo, forse. Ma credimi, il valore non sarebbe un problema. L’ultimo dei miei problemi è il denaro. E credo che nemmeno a te manchi.»
Il tono di Thomas era misurato, composto, come se stesse enunciando un pensiero a lungo meditato, con pudore e una certa malinconica lucidità.
«Ma l’idea, Lorena… l’idea di essere stata comprata per una notte, di essere obbligata a giacere con uno sconosciuto, di farlo godere… contro ogni logica, forse… potrebbe anche eccitarti. Potrebbe perfino piacerti. Ci hai mai pensato?»
Silenzio.
Il ghiaccio nel bicchiere tintinnò appena mentre Lorena lo girava piano, senza guardarlo.
La sua espressione era rimasta impassibile.
Fu solo lo sguardo che si abbassò per un attimo verso il riflesso nel vetro a tradire una frattura.
Sì.
Aveva pensato a qualcosa di simile.
All’idea di cedere non per attrazione, non per gioco, ma per un meccanismo freddo e assoluto.
Essere scelta. Comprata. Dominata. Usata.
Non con violenza. Con lucidità.
Una transazione spogliata di tutto, tranne che della carica erotica di ciò che non può essere giustificato.
Senza parlare, riportò lo sguardo su di lui.
Le sue pupille erano un po’ più dilatate. Le guance lievemente arrossate. Le labbra, appena dischiuse, si incurvarono in un sorriso amabile, pieno di grazia.
«La proposta non è così squallida come sembrava all’inizio, Thomas. Anzi. C’è qualcosa di affascinante nella tua onestà.»
Lui non osava parlare. Aspettava.
Lei si voltò, lentamente, gli rivolse un ultimo sguardo.
Lo tenne sospeso qualche secondo. Poi disse:
«Facciamo così. Domani avrò un’altra giornata di riunioni. E anche la mattina del giorno dopo sarò ancora qui, in questo hotel.
Se domani sera, alle undici in punto, mi troverai di nuovo seduta a questo bancone, significherà che ho accettato la tua proposta.
Se non ci sarò, ti auguro buona vita, Thomas. È stato davvero bello e intrigante conoscerti.»
Si alzò.
I tacchi risuonarono sul pavimento lucido del bar.
Non si voltò indietro.
Uscì con la stessa eleganza con cui era entrata.
Mentre saliva in ascensore, sentiva il cuore più accelerato del previsto.
Appena chiusa la porta della suite, si spogliò lentamente, senza neppure accendere la luce.
Scivolò nel letto nuda.
E fu solo quando le cosce si sfiorarono che sentì con chiarezza l’umidità calda e densa tra le gambe.
La proposta l’aveva eccitata.
Molto più di quanto fosse disposta ad ammettere.
La giornata era iniziata presto, incastrata tra incontri serrati, presentazioni strategiche e confronti con colleghi di tre continenti. Lorena si muoveva tra una sala riunioni e l’altra con la consueta precisione, i pantaloni del tailleur perfettamente tesi lungo le gambe, la camicia chiusa sul collo a custodire ogni segreto, il volto impassibile, levigato dal trucco e dalla volontà. Parlava, decideva, ascoltava. Tutto scorreva come previsto.
Eppure, in ogni interstizio del tempo, nei silenzi fra un grafico e un sorriso di circostanza, il pensiero tornava lì. Alla frase sussurrata la sera prima.
“Quanto dovrebbe pagare un uomo come me per avere la tua compagnia questa notte?”
All’inizio l’aveva infastidita. Si era sentita offesa, ridotta, svuotata.
Poi era arrivata la curiosità.
E ora… qualcosa di diverso. Qualcosa di più profondo.
La possibilità di essere desiderata al punto da avere un prezzo.
Non un valore qualunque, ma quello attribuito da un uomo che sapeva benissimo di non poterla conquistare con mezzi ordinari. Un tentativo disperato? Forse.
O forse… il gesto estremo di chi aveva riconosciuto il suo potere e lo voleva piegare con un altro tipo di dominio.
Durante la pausa pranzo, seduta da sola nella lounge dell’hotel, si ritrovò a fissare per alcuni secondi il bordo della tazzina del caffè.
Non stava riflettendo su un contratto.
Stava scegliendo un rossetto.
Rosso? No. Troppo esplicito. Un bordeaux profondo, satinato. Seduzione contenuta, ma innegabile.
Poi pensò alle autoreggenti, al tanga in pizzo nero, al reggiseno con le coppe appena imbottite — non troppo, non doveva sembrare che volesse piacere, doveva sembrarle di appartenere già.
E quando si rese conto che stava già scegliendo le scarpe — quelle con il tacco più sottile, acciaio lucido sotto la suola nera — capì che la decisione era stata presa ore prima, forse nel momento stesso in cui gli aveva lasciato aperta quella porta.
Non era debolezza.
Era una forma diversa di potere.
Lasciare che lui credesse di averla comprata.
Quando in realtà era lei a vendersi, per scelta.
Perché voleva.
Perché le piaceva l’idea di non avere scuse.
Di non poter mentire nemmeno a sé stessa.
Di godere — totalmente — dell’abbandono.
Sentì il calore salire tra le gambe, come una pressione sorda.
Si inumidì le labbra e si alzò.
Sapeva già come si sarebbe vestita.
Sapeva già che sarebbe scesa al bar.
E sapeva già che a mezzanotte non sarebbe più stata la donna che era quella mattina.
Finalmente, le ultime parole dell’ultima riunione si dissolsero in un brindisi formale. Alle 19:00 precise, Lorena rientrò nella sua suite. Chiuse la porta dietro di sé senza nemmeno togliersi le scarpe, lasciò la borsa su una poltrona e si avvicinò alla grande finestra. La città cominciava a illuminarsi, le luci tremolanti nei vetri si riflettevano come frammenti d’attesa.
Aprì la valigia, quasi per abitudine, ma già sapeva che lì dentro non c’era nulla di adatto.
Niente reggeva il confronto con l’idea che aveva nella mente.
Né a ciò che stava per accadere.
Chiamò la reception, con voce ferma e perfettamente neutra.
«Una boutique per un abito da sera… molto particolare. Magari nei dintorni dell’hotel.»
Le fornirono l’indirizzo di un atelier a pochi isolati.
Ci andò subito, senza cambiarsi.
Entrò con passo sicuro, ignorando gli sguardi incuriositi delle commesse. Provò diversi modelli, ma fu solo uno a spezzare il fiato davanti allo specchio: un abito elasticizzato blu elettrico, corto a metà coscia, aderente come una seconda pelle, con tutta la schiena scoperta fino al punto più basso della curva lombare.
Nulla di più semplice. Nulla di più indecente.
Perfetto.
Tornò in hotel stringendo la busta con una grazia austera.
La sua mente era già altrove.
Appena entrata in camera, accese solo la lampada accanto al letto. Luci calde, morbide.
Spogliarsi fu un rituale lento: prima la camicia, poi i pantaloni, il reggiseno, infine le mutandine che scivolarono giù come un’ultima barriera lasciata cadere senza rimpianti.
Entrò in doccia e lasciò che l’acqua calda le colasse addosso, bagnando i capelli, scivolando lungo la schiena, tra i seni, sulle cosce.
Prese il rasoio, con movimenti lenti, accurati, silenziosi.
Ogni centimetro del suo corpo fu reso perfettamente liscio.
Quando uscì dalla doccia, si guardò allo specchio completamente nuda.
La pelle umida brillava alla luce dorata della stanza.
La depilazione totale le dava una sensazione di nudità assoluta.
Vulnerabilità scelta. Potere lucido.
Si asciugò i capelli con pazienza, poi li raccolse in una coda altissima e tirata, elegante e sensuale.
Il trucco fu un’opera d’arte minuziosa: eyeliner nero spesso, allungato verso l’esterno, ombretto blu petrolio sfumato con cura, mascara deciso, labbra bordeaux profonde e lucide.
Un filo di profumo — quello che usava solo in occasioni straordinarie — tra i seni, dietro le ginocchia, all’interno dei polsi.
Poi aprì la confezione dell’abito, lo srotolò lentamente sul letto e ne sentì la consistenza scivolosa, tesa, viva.
Non indossò nulla sotto.
Né reggiseno.
Né slip.
Né calze.
Si chinò lentamente e fece scivolare il vestito su di sé, facendolo aderire alle curve, al ventre, ai fianchi nudi, alle cosce nude.
Senza cuciture.
Nessun segno.
Solo pelle e tessuto.
Si infilò i tacchi alti: neri, lucidi, con tacco a spillo d’acciaio.
Fece qualche passo sul tappeto.
Si guardò allo specchio, di profilo, poi voltandosi a mostrare la schiena scoperta, che si curvava sensuale fino ai lombi.
L’orologio segnava le 22:50.
Giusto in tempo.
Raccolse la pochette, si avvicinò alla porta con passo lento.
Quando la aprì e sentì l’aria fresca del corridoio sfiorarle le gambe nude sotto l’abito, capì che non stava solo andando a un appuntamento.
Stava andando incontro a se stessa.
Il bar dell’hotel era immerso nella quiete dorata della sera.
Luci basse, sfumate, e il suono ovattato dei bicchieri che si toccavano di tanto in tanto.
Lorena fece il suo ingresso senza esitazioni, anche se ogni passo sembrava risuonarle dentro come un’eco.
L’abito aderiva perfettamente, il tessuto blu elettrico si tendeva sulle curve con una precisione quasi indecente. Ogni movimento, ogni respiro, ogni gesto rivelava che sotto non c’era nulla.
Eppure non era nuda.
Era vestita solo della propria volontà.
Si sedette al bancone, gambe accavallate con eleganza composta.
Il barista le si avvicinò. Giovane, curato, con lo sguardo attento.
«Un martini cocktail, grazie. Secco.»
La voce era calma, ma dentro di lei qualcosa pulsava. Aveva bisogno di quel primo sorso, di quel liquido chiaro e tagliente, come un vetro da rompere per respirare.
Il barista annuì e si mise al lavoro.
Quando tornò con il bicchiere, glielo porse lentamente, e prima di allontanarsi si chinò appena, quasi senza guardarla.
«Complimenti, signora… davvero. Complimenti.»
Lorena sollevò lo sguardo.
Il suo viso fino a quel momento teso si sciolse in un sorriso autentico, morbido, quasi grato.
Non rispose. Non ce n’era bisogno.
Sorseggiò lentamente, lasciando che il gin e il vermut le scivolassero sulla lingua, poi in gola, come un’iniezione di fuoco controllato.
Si voltò verso l’orologio tondo sopra il bancone.
Le lancette erano esattamente sulle undici.
Ma di Thomas, nessuna traccia.
Inarcò appena un sopracciglio.
Era in ritardo?
Aveva cambiato idea?
Forse l’aveva osservata da lontano e si era spaventato.
O forse, più semplicemente, l’intera proposta era stata una finzione codarda, un gioco per sentirsi desiderabile almeno una volta.
Terminò il primo cocktail con lentezza, poi ordinò il secondo.
Questa volta il barista non disse nulla.
Lorena affondò di nuovo lo sguardo nel bicchiere, ma non pensava più al drink.
Pensava al rasoio che aveva accarezzato ogni curva del suo sesso.
All’assenza assoluta di tessuto tra lei e l’abito.
All’odore sottile che sapeva di pelle calda, trucco, umidità trattenuta.
Si stava preparando per nulla?
E fu allora, a metà del secondo bicchiere, che sentì la voce alle sue spalle.
Ferma, familiare, lievemente tremante.
«Lorena… non speravo davvero di trovarti.»
Il bicchiere si fermò a pochi millimetri dalle sue labbra.
Un respiro.
Due.
Poi si voltò lentamente, senza sorridere.
Lo guardò.
E in quegli occhi ci mise tutto: la delusione appena sfiorata, la tensione accumulata, la voglia trattenuta, e quella goccia impercettibile di piacere per aver vinto lei. Ancora una volta.
Thomas era lì.
In piedi, accanto a lei, il sacchetto rigido tra le mani.
Lo stringeva con una cura che sembrava rivolta a qualcosa di vivo.
Un pacchetto elegante, dal bordo dorato, con il nome di una boutique che Lorena riconobbe subito: alta moda, solo su appuntamento.
Lei si voltò appena, con il martini ancora in mano.
Il liquido limpido, tagliato dal riflesso verde dell’oliva, tremò leggermente tra le sue dita, ma il gesto rimase perfetto.
Sorseggiò con lentezza, senza distogliere lo sguardo da lui.
Thomas la fissava.
Con lo stesso sguardo adorante della sera prima.
Ma stavolta qualcosa in lui era cambiato.
Parlava, sì, ma senza più un filo logico.
Le parole uscivano in libertà, come pensieri detti ad alta voce da chi non riesce più a tenersi nulla dentro.
«Non sapevo se saresti scesa. Davvero.
Ho camminato per ore, penso.
Avevo bisogno di muovermi. Di fare qualcosa.
Poi… poi ho pensato a te. Al fatto che, se ci fossi stata, se davvero fossi venuta, avresti meritato qualcosa di mio. Non mio nel senso materiale, ma… un gesto, capisci?»
Lorena lo guardava senza dire nulla.
Sorseggiava.
E dentro, già capiva.
Lui sollevò il sacchetto.
«Le ragazze di Dublino… le mie dipendenti… ho chiesto loro se ti conoscevano.
Hanno sorriso. Poi, dopo qualche drink, una di loro mi ha detto: “Lorena è l’unica donna per cui sappiamo già tutto. Le sue taglie, i suoi gusti, la rigidità con cui si veste. Ce lo insegna ogni giorno, anche quando non parla.”
E allora…
mi sono permesso.»
Lorena appoggiò il bicchiere, ancora a metà.
Lo sguardo divenne più stretto, le labbra ancora lucide del cocktail.
Thomas continuava:
«Ho chiesto alla boutique qualcosa che avresti potuto indossare stasera. Non per me.
Per te.
O forse anche per me.
Ma…
insomma, se vorrai, è tuo.
Se non vorrai, va bene lo stesso.
Tu sei già un regalo.
Non serve che ti spogli per essere nuda. Sei nuda adesso, lo senti?
Io sì.»
Lorena lo fissava.
Le sue parole erano confuse, quasi infantili.
Un flusso scomposto di emozioni che cercava forma, ma si rompeva sulle curve del desiderio.
Eppure… qualcosa in tutto questo le sembrava perfetto.
In quell’uomo che balbettava devozione, in quel regalo consegnato senza sapere nemmeno se sarebbe stato accettato.
Fu Lorena a rompere il silenzio.
Con quel tono deciso, asciutto, che aveva affinato in anni di trattative ad altissimo livello.
Niente esitazioni.
Solo il comando mascherato da proposta.
«Siediti, Thomas. Credo che dovremmo discutere i dettagli dell’accordo.»
Lui la guardò, quasi stordito.
Poi si issò sullo sgabello accanto a lei, con un sorriso che gli tremava sulle labbra.
Quando si sedette, per la prima volta la toccò.
Un gesto lento, quasi reverenziale: fece passare il dorso della mano lungo il suo braccio nudo, fino alla spalla scoperta dall’abito.
Non spinse, non accarezzò.
Sfiorò.
Lorena trattenne il respiro per un istante, impercettibile, mentre la pelle si tendeva sotto quel contatto.
«Certo, Lorena. Tutto quello che vuoi.»
Fece un cenno al barista, che li stava ancora osservando con attenzione discreta.
«Un bicchiere d’acqua… e un po’ di privacy, per cortesia.»
Il barista annuì, comprese subito.
Preparò l’acqua, poi si allontanò verso il fondo del locale, lasciandoli nella penombra dorata del bancone.
Thomas infilò una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una piccola pastiglia azzurra.
La posò per un istante sul palmo, quasi esponendola, poi la portò alle labbra con naturalezza e la ingoiò con un sorso d’acqua.
Lorena lo osservava senza dire nulla.
Solo uno sguardo tagliente, attento.
Professionale.
«Dimmi tutto, Lorena.
Che termini vuoi discutere?»
Si voltò appena, lasciando che le ginocchia si sfiorassero con le sue.
Poi si girò del tutto, con calma, e appoggiò un gomito al bancone, facendo scivolare lentamente l’altro braccio sulla gamba accavallata. Il gesto tirò il tessuto dell’abito, che risalì di pochi centimetri, svelando l’inizio della coscia liscia, nuda.
Sorseggiò il martini, le labbra leggermente dischiuse, e quando appoggiò il bicchiere parlò con voce bassa, piena, leggermente roca.
Non c’era esitazione.
Solo un elegante disvelamento.
«Sarò tua, Thomas. Per tutta la notte.
Fino all’alba. Mi concederò a te completamente.
Ma voglio che sia chiaro: tutto sarà protetto.
E non voglio che tu mi prenda... da dietro.
Non è in discussione.»
La voce si fece appena più ferma sull’ultima frase, ma senza cambiare tono.
Era una clausola, sì, ma detta con il controllo perfetto di chi sa che il proprio corpo è già parte della negoziazione.
Thomas la fissò per un istante, quasi stordito dalla chiarezza, e soprattutto da quella porzione di pelle che ora emergeva dalla seta tesa dell’abito.
Poi sorrise appena, ma era un sorriso diverso.
Niente più adorazione.
Solo desiderio e comando.
«No, Lorena. Non funziona così.
Io pago. Io decido.»
Lo disse inclinando leggermente il busto verso di lei, la voce più profonda, tagliente.
«Non ci saranno protezioni.
E tu dovrai essere mia.
Per davvero. Non a metà, non a parole.
Amorevole, presente, arrendevole.
Non mi interessa la durata. Non sono più giovane, lo so. Ma stasera...
mi basti tu. Così come sei.
Voglio che tu sia la mia amante. La mia compagna. La mia donna.
Per una notte sola.
Ma tutta mia. Senza limiti.»
Fece scorrere le dita sul bordo del sacchetto accanto a lui, poi alzò lo sguardo e concluse:
«Il tuo compenso sarà pari a dieci anni del tuo attuale stipendio.
Il bonifico partirà domattina, appena uscirai dalla mia suite.
Nessun vincolo dopo. Nessuna aspettativa.
Solo questa notte. E tu.»
Lorena lo fissava.
Aveva ascoltato ogni parola senza mai interromperlo.
Le mani erano posate sul bicchiere, le gambe ancora accavallate, ma ora si mosse lentamente: srotolò la schiena, fece scivolare un po’ l’abito lungo i fianchi, quanto bastava perché il tessuto si staccasse appena dalla pelle.
Un millimetro.
Forse due.
Ma bastava.
Si voltò verso di lui, e i capelli raccolti le lasciavano completamente scoperta la nuca e il profilo delle scapole, lisce e nude sotto la luce calda del bancone.
«Accetto tutto, Thomas. Tutto quello che hai detto.»
Si fermò un istante, poi abbassò leggermente il mento, lasciando che lo sguardo si alzasse da sotto le ciglia.
«Ma una cosa non cambia.
Quella parte di me non è in vendita.
Né stanotte, né mai.
Il resto è tuo. Se ti basta…»
Lo lasciò in sospeso, la frase aperta come una porta socchiusa, da cui filtrava il profumo caldo della sua pelle.
Thomas non rispose subito.
La guardò.
A lungo.
E capì che la donna che aveva davanti stava concedendo tutto, ma non cedeva nulla.
Non davvero.
Poi annuì, in silenzio.
Non servì una stretta di mano a suggellare l’accordo.
Thomas si mosse senza fretta, senza esitazioni. La guardava negli occhi mentre la sua mano, ferma da troppo tempo sul ginocchio, cominciava a scivolare lungo la coscia scoperta. Lorena non si ritrasse, non lo fermò. Rimase lì, con il fiato sottile e gli occhi accesi da una lucidità che conteneva tutto: calcolo, resa, desiderio.
Il palmo caldo salì lentamente, spingendo appena il bordo dell’abito verso l’alto. La seta seguì il movimento delle dita, si tese, poi si arricciò piano mentre lui si spingeva oltre. Non era un gesto violento. Non c’era urgenza, né bramosia. Solo un senso pieno, solenne, come se quell’atto avesse un peso preciso, già concordato.
Quando le dita raggiunsero la curva più alta, dove la pelle diventava più tenera e sensibile, Lorena trattenne il respiro appena. Una tensione invisibile le percorse la schiena. Lo sguardo di Thomas, fisso sul suo volto, si incupì di meraviglia, e il respiro gli cambiò appena quando la trovò così: calda, viva, già bagnata.
La umidità lo colpì come una certezza. Non si aspettava nulla, e trovò tutto.
Non disse niente.
Non c’era bisogno.
Lorena lo guardava, le labbra appena dischiuse, le guance segnate da un fremito, ma gli occhi pieni di controllo. Non era una resa, la sua. Era una conferma. La prova che sì, aveva accettato. Ma alle sue condizioni, con la sua intensità, con la sua pelle.
Il dito si fermò lì, all’ingresso di quel piacere promesso, come a tastare una porta che sarebbe stata aperta solo più tardi. Poi ritrasse la mano, lentamente, con la stessa grazia con cui l’aveva poggiata. Non c’era bisogno di altro.
Lei prese un sorso di martini senza distogliere lo sguardo.
Aveva vinto.
Ma anche perso qualcosa.
Il corridoio che li condusse alla suite era silenzioso, ovattato, come se l’intero hotel si fosse fermato in attesa del loro ingresso. Lorena camminava a fianco di Thomas con passo calmo, il suono regolare dei tacchi che si spegneva sulla moquette, la pochette tra le dita come un oggetto inutile, simbolico. Non c’erano più parole tra loro, solo respiri e promesse non dette.
Quando la porta si aprì, la stanza li accolse con la quiete lussuosa di uno spazio riservato a pochi. La suite era luminosa ma calda, pavimenti di legno scuro, pareti vellutate, grandi vetrate che mostravano la città nella notte.
Al centro, un salotto ampio con divani in pelle color crema, un tappeto spesso, luci morbide e basse.
La stanza migliore dell’hotel.
La più distante dal mondo reale.
Lorena lasciò cadere la pochette su una poltrona e si avvicinò al divano. Si sedette con eleganza, le gambe piegate da un lato, una mano che accarezzava distrattamente il bordo dell’abito tirato sulle cosce. Thomas si sedette accanto a lei, a distanza ravvicinata ma composta. I loro corpi non si toccavano ancora, ma l’aria era già densa.
Lei lo guardò con una dolcezza che non aveva mai mostrato prima. Gli sfiorò il volto con la punta delle dita, accarezzandogli la guancia, poi la mascella, e infine il profilo delle labbra, come a verificarne la presenza.
Poi, lentamente, lo baciò.
Non fu un bacio impaziente.
Fu un assaggio lungo, caldo, quasi timido.
La sua bocca cercava la sua con pazienza, con rispetto, con una dolce prepotenza che Thomas non seppe contenere. Le sue mani si mossero, prima esitanti, poi più sicure.
Cominciò dalle ginocchia.
Le toccò come si accarezzano superfici preziose, con la punta delle dita appena piegata.
Salì sulle cosce nude, sfiorandone la linea esterna, poi percorse lentamente la curva interna, senza forzare nulla.
Le mani tremavano appena, ma non si fermavano.
Salirono verso i fianchi, poi il ventre, che sentì contrarsi leggermente sotto il palmo caldo.
Lorena chiuse gli occhi, inspirò a fondo, non si ritrasse.
La stoffa sottile dell’abito si tendeva e si muoveva sotto ogni tocco.
Thomas la esplorava come se stesse componendo una melodia fatta di pelle e seta, rispetto e bisogno.
Toccò il seno, prima solo con il dorso delle dita, poi appoggiando una mano aperta che aderì alla forma piena, nascosta solo dal tessuto teso.
La sentì calda, compatta, viva.
Lorena lo guardava, con le pupille dilatate e le labbra dischiuse, mentre lui saliva ancora: le spalle, il collo, il profilo del braccio fino al polso, poi la mano, che strinse con delicatezza tra le sue, baciandola con una tenerezza disarmante.
Poi tornò su.
Le dita le sfiorarono il volto, la linea della mandibola, la curva sotto l’orecchio.
Si fermò a guardarla come se stesse cercando un segno, una conferma, una benedizione.
Lorena lo fissava in silenzio, ma dentro…
dentro il corpo cominciava a fremere davvero.
Le carezze non erano più solo un contatto: erano una lenta apertura.
Una resa dolce, che cresceva come un fuoco sottopelle, alimentato dalla delicatezza.
Da quell’attesa.
Da quel rispetto così profondo da diventare possesso.
All’improvviso, Lorena si scostò, con un movimento lento ma deciso, come se avesse bisogno di respirare, di riprendersi da quell’ondata di tenerezza che minacciava di scioglierle il controllo. Si tirò su con grazia, la schiena dritta, il mento alto, lo sguardo che lo attraversava.
Lo guardò per qualche secondo, poi sorrise, inclinando appena la testa.
«Ma il mio regalo…»
Una pausa.
«Non me lo dai?»
La voce era vellutata, ma tagliente.
Una lama lucida nascosta sotto un guanto di seta.
Thomas si alzò subito. Quasi scattò.
Raccolse la borsa che aveva appoggiato vicino all’ingresso e gliela porse con due mani, come un’offerta, come qualcosa che non osava nemmeno aprire lui stesso.
«Vai in bagno a cambiarti per me,» le disse, con un tono che voleva essere fermo ma si incrinava sotto l’emozione. «Sei già perfetta così come sei… ma ti voglio ancora più…»
Si fermò.
Non trovava la parola.
La fronte leggermente arrossata, il respiro più corto.
Lorena lo fissò con uno sguardo che sapeva esattamente dove lui stava andando.
Lasciò cadere lo sguardo sulla borsa, poi tornò su di lui.
Un sorriso lento le si disegnò sulle labbra lucide.
«Più… troia, vero?»
La parola uscì morbida, come una carezza sporca, sussurrata con tale sicurezza da spezzare ogni maschera.
Thomas arrossì, abbassando appena lo sguardo. Ma annuì.
Lo ammise.
Lo desiderava.
Lorena prese la borsa, senza fretta, e si incamminò verso il bagno.
I fianchi ondeggiavano con precisione controllata, l’abito che seguiva ogni curva come un riflesso.
La porta si richiuse alle sue spalle, lasciando la suite nel silenzio ovattato, sospeso.
Lorena rimase un attimo ferma davanti allo specchio, con ancora l’abito addosso.
Il suo riflesso la osservava, ma non era quello che avrebbe voluto mostrare.
Non quella sera.
Non così.
Abbassò lentamente la zip laterale e lasciò che il vestito le scivolasse giù, disegnando ogni curva prima di accasciarsi sul pavimento come un’ombra spogliata.
Era nuda, liscia, perfetta.
La pelle ancora calda per l’attesa.
Il sesso già teso, appena lucido.
Dal piano in marmo, scelse per primi il reggicalze e le calze in seta.
La fascia alta, in pizzo traforato nero, sembrava respirare tra le dita. La fece scorrere lentamente lungo i fianchi, fin sopra le anche, e la fissò con cura.
Poi si sedette sul bordo della vasca, gambe tese, e srotolò una calza dopo l’altra, guidandole con le dita lunghe e sicure.
La seta aderiva come un sussurro: una carezza continua, fredda, fluida.
I ganci in metallo si agganciarono con uno scatto secco, soddisfacente, preciso.
Erano il suono di una decisione.
Soltanto allora prese il tanga in vinile nero.
Lo alzò lentamente, facendolo passare tra le gambe con attenzione.
Lo tirò alto sui fianchi, in modo che le stringhe restassero tese e pulite.
Il tessuto centrale, liscio e brillante, si posava appena sul sesso rasato.
Un triangolo lucido a contenere il punto da cui tutto sarebbe partito.
Poi il bustino.
Aprì i ganci, lo fece aderire al busto.
La chiusura fu lenta, ritmata: ogni scatto un grado in più verso la nuova sé.
Il vinile si strinse in vita, costringendola, scolpendola.
Le coppe basse lasciavano completamente scoperti i capezzoli, che sporgevano dritti, già gonfi, già vivi.
La luce calda del bagno li faceva brillare.
Serrò le spalline.
Fece un passo indietro.
Perfetta. Ma non ancora finita.
Scelse per ultimo il collare in raso nero.
Lo passò attorno al collo, lo chiuse con la fibbia.
Si guardò.
Non c’era più alcun confine tra il suo corpo e la volontà.
Fece per aprire la porta… ma poi tornò indietro.
Le pinzette dorate per i capezzoli erano ancora sul marmo, come dimenticate.
Le prese, con calma.
Le guardò un attimo.
Poi, con mano ferma, le aprì.
Le applicò ai capezzoli, una per volta.
Lo scatto fu breve.
La tensione, immediata.
Un fremito le percorse la schiena.
La bocca si socchiuse.
Uscì dal bagno così.
Alta, lucida, armata.
L’unico suono era quello lieve dei suoi tacchi che mordevano la moquette.
Thomas era sul divano.
Indossava solo un paio di boxer scuri, seduto con le gambe divaricate, le braccia appoggiate ai fianchi.
Il suo corpo era quello di un uomo che non aveva più vent’anni da tempo: pancia piena, peluria virata al grigio sul petto e sull’addome, spalle larghe ma molli.
Non era bello. Non lo era mai stato.
Ma lo sguardo…
Quello la colpì con la forza di un pugno sotto lo sterno.
Cupidigia.
Desiderio.
Passione bruciante.
La stava guardando come se fosse un miracolo costruito per lui e solo per lui.
E Lorena, sentendo quegli occhi stringerla, seppe di aver vinto.
Seppe anche che si sarebbe lasciata perdere.
Arrivò davanti a lui senza parlare.
Le calze tirate, il bustino stretto, le pinzette dorate che segnavano i capezzoli e tra di esse la sottile catenella che li univa, oscillante a ogni passo.
Si fermò a meno di un metro.
Le labbra appena piegate in un sorriso ambiguo.
Poi sollevò una mano e, con polso leggero, tirò appena la catenella tra le mollette.
Un piccolo strattone, secco.
Il dolore fu breve e pungente.
Ma ciò che le vide negli occhi la fece bagnare ancora.
«Vado bene così?» chiese.
La voce era calma. Quasi ironica.
Poi fece un giro su se stessa, ruotando lenta, elegante, come un’offerta da museo.
I tacchi disegnavano un cerchio perfetto, la catenella tintinnava, la seta scivolava sulla luce.
Quando si fermò, tornò a guardarlo negli occhi.
Nessuna risposta.
Solo quel fuoco che non chiedeva più permessi.
Lorena si inginocchiò tra le sue gambe.
Lo fece con lentezza. Con grazia.
Le ginocchia affondarono nella moquette morbida, la schiena dritta, il bustino che brillava.
Lo guardò dal basso, con le pupille dilatate e un sorriso che non lasciava dubbi.
Aveva deciso.
«È ora che facciamo conoscenza, io e il tuo fratellino.»
Gli baciò le labbra con dolcezza, come una carezza pulita, quasi commovente.
Poi scese.
Le sue labbra scivolarono sul petto, tra i peli irregolari, poi sul ventre, caldo, pieno.
Arrivò ai boxer.
Li sfiorò con le dita.
Poi con la bocca.
Con un gesto fluido, sicuro, Lorena agganciò i boxer con le dita e li fece scivolare lentamente giù, senza mai staccare lo sguardo dal suo.
Thomas era rigido, quasi tratteneva il respiro.
Il membro era già eretto, alto, pulsante.
Una dotazione di tutto rispetto, resa ancora più impressionante dalla tensione accumulata, dal sangue accelerato dalla chimica, e da quello che stava vedendo:
una donna perfetta, inginocchiata davanti a lui, vestita di lucido e seta, con le labbra aperte in un mezzo sorriso e la luce negli occhi.
Lorena non lo prese subito.
Iniziò con piccoli baci, leggeri, quasi casti, lungo la base, poi sulla lunghezza, poi ancora più su, fino al prepuzio.
La sua lingua si fece strada con lentezza, descrivendo un cerchio attorno al bordo teso.
Ogni millimetro era un'esplorazione.
Un gesto di conoscenza carnale.
Quando la lingua cominciò a spingere più in là, il prepuzio si ritirò con un movimento naturale, rivelando il glande lucido, gonfio, vivo.
Lei lo guardò negli occhi.
E solo allora lo prese dentro la bocca.
L’ingresso fu lento, profondo, caldo.
Lo accolse come si accoglie un giuramento.
Le labbra si chiusero attorno a lui con delicatezza, ma anche con fame.
Il primo movimento fu morbido, calibrato.
Poi spinse più in fondo.
Un sospiro sfuggì a Thomas, denso, gutturale.
Non era solo piacere. Era stupore.
Non si aspettava tutto questo.
Lorena sentì la pelle calda riempirle la bocca, sentì la reazione dell’uomo sotto di lei, il fremito del ventre, le mani che si tendevano per toccarle i capelli ma non osavano ancora.
Lei continuò, fluida, elegante.
Senza fretta.
Senza mai distogliere lo sguardo dal suo.
Il respiro di Thomas si era fatto corto, irregolare. Le cosce si contraevano, il petto si sollevava più rapidamente. Aveva appoggiato una mano al bordo del divano, l’altra ancora sospesa, come se temesse che un gesto troppo diretto potesse rompere l’incanto.
Lorena non aveva fretta.
Alternava movimenti profondi a suzioni lente, mirate, ognuna accompagnata da un guizzo della lingua che lo faceva sobbalzare.
Le labbra scivolavano sulla pelle tesa, il vinile del bustino si tendeva con ogni gesto, le pinzette sul seno oscillavano leggermente, producendo una lieve trazione, dolce, continua.
Poi prese fiato.
Si abbassò ancora, guidandolo dentro di sé con decisione.
Sentì il glande toccarle la gola, poi superarla.
Il naso si schiacciò contro il ventre morbido di lui, il profumo della sua pelle piena, maschile, mescolato al desiderio.
Era tutto dentro.
Fino in fondo.
Nella gola.
Le mani di lei erano ferme. Una teneva lo scroto, lo accarezzava con gesti lenti, circolari, le dita appena umide, la pelle tesa e sensibile tra le sue dita.
L’altra si appoggiava alla coscia di lui, per dare spinta, equilibrio, intenzione.
Mentre lo teneva dentro, aspirava con forza, creando una pressione che Thomas non avrebbe saputo descrivere. La lingua non si fermava: girava, stringeva, accarezzava l’asta tesa, mentre il corpo di lui sembrava sul punto di cedere, contratto in un piacere che non aveva mai immaginato potesse essere così.
Lorena sollevò appena lo sguardo, ancora con lui dentro, e lo guardò.
Non fu il gesto, né la pressione perfetta delle labbra o il ritmo preciso della lingua.
Fu quello sguardo, fisso, lucido, che Thomas incontrò nel momento in cui era più vulnerabile.
Quel contatto diretto, caldo, che diceva: sei mio adesso. Totalmente mio.
E fu allora che crollò.
Il piacere si riversò dentro di lei come un’onda improvvisa, tesa e rovente.
Lorena non si mosse.
Lo tenne profondamente nella bocca, fino in fondo, senza allontanarsi, senza battere ciglio.
Lo accolse. Tutto.
Ogni spasmo, ogni fremito, ogni stilla.
Non ne sprecò nemmeno una.
Thomas si contorceva, la testa riversa all’indietro, il corpo scosso da un godimento totale, primitivo, quasi doloroso per quanto intenso.
Lorena non lo lasciò andare.
Solo quando sentì il respiro tornare regolare e le sue mani cedere la tensione, estrasse lentamente il membro dalla bocca.
Ancora turgido.
Ancora vivo.
Lo pulì con cura, con gesti precisi, quasi affettuosi.
Poi, ancora inginocchiata, lo appoggiò sulla propria guancia, inclinando appena la testa, e lo guardò con un sorriso lucido, profondo.
«Bella la chimica,» sussurrò.
Poi si alzò con grazia felina.
Si voltò.
E con la mano, ancora avvolta attorno al sesso di lui, lo guidò dentro di sé mentre si sedeva lentamente sulle sue gambe.
Il corpo si aprì per accoglierlo.
Scivolò dentro.
Tutto. Fino in fondo.
Un gemito le sfuggì dalle labbra, basso, denso.
Non era dolore.
Era una miccia accesa.
Una vertigine che le fece contrarre tutti i muscoli pelvici, stringendolo, accarezzandolo, facendolo sentire imprigionato dentro qualcosa di vivo, affamato, deciso.
Rimase così per qualche istante, respirando piano, sentendo ogni millimetro di quell’unione profonda.
Poi iniziò a muoversi.
Non su e giù.
Ma in cerchio, ruotando il bacino, cercando l’angolazione precisa per farsi toccare dentro.
Sapeva dove colpire, dove sentire.
Lo trovò al terzo cerchio.
E lì cominciò a giocare con la frizione, con la pressione, con il suo corpo che si stringeva attorno al suo con un’intelligenza antica.
Le mani si poggiarono sulle sue cosce.
Thomas tremava.
Lorena si stava prendendo il suo piacere, e quando l’onda le montò dentro, non lo avvisò.
Non gridò.
Non si agitò.
Si contrasse, lentamente.
Le spalle tese, la testa reclinata.
Il corpo che vibrava in silenzio, mentre il primo orgasmo della serata le esplodeva dentro.
Caldo. Profondo. Completo.
Quando le contrazioni si placarono e il respiro riprese lento, Lorena si lasciò restare un attimo addosso a lui, ancora con lui dentro.
Poi, senza dire nulla, si sollevò con calma, sentendo lo scivolamento caldo e umido del corpo che abbandonava il suo, e si voltò verso il letto matrimoniale, largo, imponente, con le lenzuola stirate come un invito.
«Vieni. Non è finita.»
La voce era bassa, roca, densa di piacere non ancora saziato.
Thomas si alzò, ancora in trance, il membro ancora duro e segnato dal corpo di lei, gonfio, tirato.
La seguì senza domande.
Lorena si sdraiò sul letto al centro, le gambe divaricate, le braccia tese sopra la testa.
La luce della lampada creava riflessi sensuali sul bustino lucido, sulle calze di seta agganciate, sulla catenella che oscillava tra le pinzette ancora strette sui capezzoli.
Il tanga era stato abbandonato sul tappeto.
Era nuda dove contava.
E pronta.
«Guardami bene adesso,» sussurrò, «perché da questo momento in poi… non sarò più la tua fantasia.
Sarò la tua realtà.»
Thomas si avvicinò come un uomo stordito dal miracolo.
Si inginocchiò tra le sue cosce, gliele sollevò lentamente, e la guardò da sotto.
Il sesso completamente rasato, gonfio, lucido.
Le labbra intime turgide, aperte, tese in attesa.
La catenella sopra il ventre.
Il bustino che le schiacciava il seno, le pinzette che le allungavano i capezzoli.
Era pornografia fatta carne.
Ma senza alcuna volgarità.
Solo potere.
Entrò di nuovo.
Lei lo accolse con un gemito, più basso, più profondo.
Le gambe gli si chiusero attorno ai fianchi.
Lo tirò dentro con forza, e iniziò a guidarlo con i fianchi, con piccoli colpi secchi, dritti al punto.
Il letto iniziò a cigolare.
Lorena si mordicchiava le labbra, lo guardava mentre lui si perdeva, mentre la prendeva come aveva sempre sognato: con forza, con fame, senza pietà, ma sempre con quella maledetta adorazione negli occhi.
Le sue mani le presero i seni, tirando con le pinzette, facendole male.
Lei ansimava, si contorceva, e in un momento lo afferrò per i fianchi, spingendolo più in fondo, fino a sentire la base premere sul suo sesso completamente dilatato.
«Più forte, Thomas.
Fammi tua.
Come se mi avessi davvero comprata.»
E lui obbedì.
La prendeva.
Contro il bustino.
Sopra le calze.
Tirandole la catenella, spingendo fino al fondo.
Lei venne ancora.
Senza avvertimento.
Un urlo sommesso.
Un’esplosione umida che gli bagnò la base.
Il secondo orgasmo la lasciò tesa, il petto che si sollevava rapidamente, la pelle sottile del ventre luccicante di sudore e piacere.
Thomas era ancora dentro di lei, ancora duro, bagnato dalla loro unione.
Ma Lorena si voltò di scatto, lo spinse via con dolcezza feroce, e si tirò su, a carponi, sul letto.
«Adesso voglio vederti… mentre mi guardi da dietro.»
Si voltò appena, la schiena arcuata, il bustino che ancora stringeva il busto, la catenella che pendeva tra i seni e le pinzette che ondeggiavano a ogni respiro.
Le calze di seta brillavano sulla pelle delle cosce, il reggicalze teso.
Il sesso esposto, aperto, lucido del suo desiderio, pulsava tra le cosce.
Thomas si inginocchiò dietro di lei, senza parole.
Le mani le afferrarono i fianchi, la punta del membro cercò l’ingresso che aveva appena lasciato e scivolò dentro con un colpo unico, pieno, carnale.
Lorena gemette, e si appoggiò ancora di più sui gomiti.
La posizione la apriva del tutto.
La esponeva, la offriva, la mostrava.
«Lorena, guarda sotto il cuscino» sussurrò.
La voce rotta. Calda. Implacabile.
Lei obbedì.
Trovò le manette sottili in pelle nera, con ganci in acciaio e interno foderato di raso.
Lorena porse i polsi all’indietro, ancora inginocchiata.
Glieli legò con delicatezza, ma con fermezza.
Le mani ora erano unite dietro la schiena, tra le scapole, i polsi tirati all’indietro, il petto sollevato.
I capezzoli scossi dalle pinzette e dalla catenella.
La prese così.
Legata.
Inarcata.
Completamente esposta.
La penetrò più a fondo, con movimenti lunghi, pesanti.
Le mani libere sui suoi fianchi, poi sulle calze, poi sulle natiche aperte.
Lei gemeva a ogni colpo, un suono profondo, vibrante.
Il suo sesso si stringeva attorno a lui con la stessa fame, la stessa voglia, ma ora c’era qualcosa di più: una rabbia sottile, una brama che sfiorava la follia.
«Usami, Thomas.
Fino in fondo.
Dammi ciò che hai pagato.
Ma prendilo davvero.»
Le parole gli esplosero nel petto.
La spinse in avanti, affondò con tutto se stesso, tirò la catenella con forza e la sentì urlare nel cuscino, tremare sotto di lui, mentre veniva ancora, un’onda violenta, profonda, interminabile.
Thomas era sul punto di esplodere di nuovo.
Ma lei non aveva ancora finito con lui.
Thomas sentiva la fine salire dal basso ventre come una marea travolgente.
Il corpo teso, i muscoli contratti, il respiro spezzato.
Ogni spinta dentro di lei era un passo verso l’abisso.
Lorena lo sentì.
Lo percepì dal tremore nelle sue mani, dalla presa che si faceva più incerta, dai colpi sempre più profondi ma meno regolari.
Si voltò appena, quanto bastava per fargli vedere i suoi occhi tra i capelli sparsi sul viso, e sussurrò come una condanna dolce:
«Vieni dentro di me. Fallo ora. Ma non pensare neanche per un istante che sia finita.»
La voce era bassa, graffiata, e insieme ipnotica.
E fu tutto ciò che servì.
Con un ultimo affondo, profondo, violento, Thomas la riempì di piacere.
Lungo, caldo, teso.
Un orgasmo che gli spaccò il corpo in due, che gli fece affondare le dita nella carne delle sue cosce.
Veniva tremando, grugnendo, piegandosi su di lei, mentre Lorena restava perfettamente aperta, inarcata, ancora stretta dalle manette.
Sentì tutto.
Ogni fremito.
Ogni scossa.
Ogni goccia.
E ne fu eccitata come non mai.
Quando lui si fermò, ansimante, quasi esausto, cercando di allontanarsi, lei si spinse indietro con i fianchi, lo trattenne dentro di sé.
Il sesso ancora turgido, appena ammorbidito, ma vivo.
La carne calda, ancora avvolgente.
E continuò a muoversi.
Piano. Ma senza fermarsi.
«Non ci pensare nemmeno.
Hai pagato, ora mi dai tutto.
Anche quando pensi di non averne più.
Anche quando implorerai di smettere.»
Si sollevò sulle ginocchia, ancora legata, e cominciò a cavalcarlo al contrario, come se volesse spremere l’ultimo briciolo di piacere.
Lo sentiva scivolare dentro di lei, umido del suo seme e del suo godimento.
Ogni movimento era più sporco, più carnale, più disperato.
Thomas gemeva, il corpo in fiamme, incapace di fermarla.
E Lorena, con la testa riversa all’indietro e la schiena arcuata, cominciò a godere di nuovo.
Ma questa volta era più violenta, più aperta, più animale.
Il letto scricchiolava, le mollette tiravano i capezzoli, la catenella le segnava la pelle, ma lei non si fermava.
Lorena si fermò solo quando sentì che lui era sul punto di crollare, il corpo madido di sudore, il sesso ancora dentro di lei, quasi esausto ma ancora pulsante.
Si sfilò lentamente da sopra di lui, lasciando che il contatto si spezzasse con un suono umido, quasi indecente.
Si voltò.
Lo guardò disteso sul letto, le cosce tremanti, il respiro spezzato.
Perfetto. Vulnerabile. E ancora suo.
Apri il cassetto del comodino, le disse Thomas.
Vi trovò una scatola nera, discreta.
Aprì il coperchio.
Dentro, un vibratore sottile, lungo, lucido.
Non troppo grande, non troppo piccolo.
Ma perfetto per ciò che voleva.
Thomas la guardava, senza fiato.
Non disse nulla.
Non poteva.
Ma nei suoi occhi c’era un misto di terrore e desiderio che Lorena conosceva fin troppo bene.
Lei sorrise.
Appoggiò l’oggetto sulla lingua per inumidirlo, lentamente, guardandolo.
Poi salì nuovamente su di lui, e mentre si abbassava per baciarlo, gli sussurrò:
«Ora tocca a me.
Ti voglio… mentre tremi.
Ti voglio mentre non sai più chi sei.»
Si girò sopra di lui.
Rimase a cavalcioni, la schiena voltata, e si fece scivolare il vibratore tra le cosce, lasciandolo affondare nel sesso già saturo, mentre il bustino ancora stretto le tagliava il respiro.
Poi cominciò a muoversi.
Lentamente.
Rotando i fianchi, ancora.
Ma la vera tortura era per lui.
Perché Lorena allungò una mano tra le gambe dell’uomo, e cominciò a stimolarlo di nuovo, con la bocca che tornava a cercarlo, mentre il vibratore lavorava dentro di lei, emettendo quel ronzio regolare e pieno che le faceva vibrare tutta la pelvi.
Il suo corpo si contraeva sopra il giocattolo, le cosce strette, il respiro corto.
Ma non si fermava.
Aveva deciso che lo avrebbe portato oltre.
«Ancora una volta, Thomas.
Dammi tutto quello che hai.
Anche se ti brucia.
Anche se implori.»
Lui gemette.
Le mani cercavano qualcosa da afferrare.
Le lenzuola, il materasso, i propri pensieri.
Ma era perso.
E quando Lorena venne ancora, gemendo mentre il vibratore la accarezzava dentro e le pinzette si tiravano al culmine del piacere, lo afferrò con la bocca un’ultima volta.
Bastò poco.
Lui esplose di nuovo.
Questa volta con un urlo.
Un dolore che era piacere.
Un godimento che rasentava lo sfinimento.
Un piacere così intenso da fargli cedere il corpo.
Lorena si lasciò andare accanto a lui.
Sorridendo.
Appagata.
Sporca.
Meravigliosa.
E lui, distrutto, ma felice, non riusciva più a distinguere dove finiva il piacere e iniziava la resa.
Il silenzio nella suite era irreale.
Solo il suono del loro respiro.
Solo il rumore umido della carne e della pelle ancora tesa, ancora viva.
Thomas giaceva sul letto, gli occhi socchiusi, i muscoli tesi nel tentativo di non cedere alla stanchezza. Ma non poteva sfuggire a Lorena.
Lei era lì, sdraiata di fianco, il bustino ancora allacciato stretto, il seno che si sollevava appena sotto il vinile lucido. I capelli disordinati, la bocca ancora arrossata dai baci, le guance accese.
Ma gli occhi…
Quegli occhi non avevano conosciuto il riposo.
Si sollevò piano, si portò a cavalcioni su di lui e chinandosi a pochi centimetri dal suo volto, lo guardò senza sorridere.
«Non è finita. Adesso vieni con me.»
Lo prese per mano e lo fece alzare.
Le gambe gli tremavano, le ginocchia cedevano.
Ma la seguì, nudo, sfinito, nel bagno della suite, dove la vasca idromassaggio già traboccava di vapore.
Lorena aprì l’acqua, la regolò con calma.
Poi si voltò.
Con un gesto rapido sganciò la catenella che univa le mollette ai capezzoli.
Non sussultò nemmeno.
Solo un lungo sospiro, profondo, di libertà e di potere.
Poi aprì le fibbie del bustino e lo lasciò cadere a terra.
Era nuda.
Sotto la luce calda e umida, appariva irreale.
La pelle chiara e lucida, le calze ancora perfette, i talloni sui tacchi.
Sembrava una creatura uscita da un sogno troppo potente per essere raccontato.
«Vieni dentro con me.»
Lo fece entrare nella vasca, poi si posizionò sopra di lui, le gambe piegate, il sesso di nuovo a pochi millimetri dal suo.
Il corpo di Thomas urlava di stanchezza, ma anche di bisogno.
Lorena non chiese il permesso.
Lo prese.
E si mosse.
Lenta.
Inesorabile.
Circolare.
I getti dell’idromassaggio li colpivano, amplificavano ogni contatto, ogni spinta.
Lorena chiudeva gli occhi a tratti, lasciandosi possedere e insieme possedendo, cavalcando il piacere come una furia morbida, senza mai perdere il controllo.
Thomas gemeva.
Ogni movimento gli strappava un suono nuovo.
Più basso.
Più profondo.
Più… perso.
E fu allora che Lorena capì che ci era vicina.
Lo afferrò per il volto.
Lo guardò negli occhi.
E con voce ferma, piena, imperiosa:
«Adesso vieni con me. Non da solo.
Adesso mi prendi. Ma con tutto.
Non col corpo, Thomas.
Con l’anima.**
Lui tremò.
E venne.
Ancora.
Con violenza.
Con urla che sembravano preghiere.
Con gli occhi persi nel vuoto.
Con il cuore completamente nelle mani di lei.
Lorena non si fermò.
Si lasciò andare insieme a lui.
E nel suo orgasmo, non c’era solo piacere.
C’era onnipotenza.
C’era rovina.
C’era amore.
C’era controllo.
C’era delirio.
La vasca si svuotò lentamente, lasciando dietro di sé il rumore lieve dell’acqua che gocciolava e il profumo del vapore che aleggiava ancora nell’aria.
Lorena si alzò per prima.
Senza parlare, uscì dalla vasca con un gesto lento, quasi teatrale.
L’acqua scivolava giù per il suo corpo come se avesse imparato ad amarla, disegnando curve e incavi con carezze invisibili.
I capelli bagnati sulle spalle, le calze ormai disfatte che sfilò con un gesto distratto.
Poi prese un asciugamano bianco, lo appoggiò sulle spalle di Thomas e gli allungò la mano.
«Vieni.**
Camminarono insieme verso il letto.
La stanza era tiepida, profumata.
Il lenzuolo ancora spiegazzato, intriso del loro odore.
Si distesero l’uno accanto all’altra, nudi, le membra pesanti, le bocche socchiuse.
Thomas le prese una mano, senza guardarla.
La strinse piano.
Non c’era bisogno di altro.
Lorena chiuse gli occhi.
Il busto che si sollevava lentamente, il respiro che si faceva regolare.
Non c’era rimorso.
Non c’era vergogna.
Solo la stanchezza dopo una battaglia vinta.
E mentre il sonno li prendeva, le sue cosce ancora umide si incrociarono alle gambe dell’uomo, che si era abbandonato nel sonno profondo dei vinti, degli amanti e di chi, per una notte, ha avuto tutto.
Le lenzuola bianche erano ancora leggermente umide, accartocciate in quel groviglio che aveva accolto i loro corpi per ore. Lorena si svegliò prima che il sole fosse sorto del tutto. La luce che filtrava dalla finestra era appena sufficiente a delineare le linee del suo corpo nudo mentre si sollevava con grazia dal letto. Aveva ancora addosso l’odore di lui, e sulla pelle la traccia invisibile del piacere.
Si mosse in silenzio, recuperò l’abito blu dal pavimento, lo infilò lentamente, lasciando che le accarezzasse la pelle. I tacchi, lucidi e altissimi, erano lì accanto. Li indossò con quel gesto naturale che appartiene solo a chi è abituata a dominare ogni scena, anche quelle che avvengono in una stanza chiusa. Si sistemò i capelli con le dita, poi si sedette di nuovo sul letto, di fianco a Thomas.
Lo osservò dormire, disteso, il torace ancora sollevato da un respiro profondo. Gli passò un dito lungo la linea della mandibola, poi si chinò e gli posò un bacio sulle labbra, lento, consapevole, come un sigillo.
Lui si stirò, aprì gli occhi appena. «Già sveglia...?»
«Sì,» sussurrò lei, accarezzandogli la spalla. «Volevo salutarti prima di andare. Grazie per la notte... mi hai fatta sentire... donna, e anche femmina. Non è la stessa cosa, e tu l’hai capito.»
Thomas sorrise, ancora tra sonno e realtà.
«Non voglio soldi da te. Se proprio non sai cosa fartene, fai una donazione per i bambini bisognosi. Ti prego, fallo davvero.»
Gli diede un ultimo bacio, più lento, con un tocco di malinconia nelle labbra. Si alzò, prese la clutch sul comodino, controllò allo specchio che fosse in ordine, poi uscì dalla suite senza voltarsi.
L’alba l’accolse con la sua luce fredda e pulita. Presto sarebbe tornata in aeroporto, poi a casa. A una vita diversa, forse. Ma quella notte sarebbe rimasta con lei, chiusa tra le pieghe del vestito, come un segreto da tenersi stretto.
Se avete commenti, suggerimenti e critiche potete lasciarli qua sotto o scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
5
voti
voti
valutazione
6.2
6.2
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
In Vetta 3^ Parte
Commenti dei lettori al racconto erotico