Vergine
di
AngelicaBellaWriter
genere
prime esperienze
Milano, Hotel NH Collection, ore 00:00
Non ho mai avuto una donna.
Non ho mai nemmeno baciato davvero qualcuno, di quelli con la lingua, con la fame, con l’urgenza. Ho ventisei anni, una laurea inutile, una camicia sempre sgualcita, e vivo ancora con mia madre. Il mio contratto dice “assistente operativo”, ma in pratica prendo appunti, fotocopio, preparo il caffè per il capo e le seguo le slide come un cagnolino.
Il capo è lei.
Si chiama Valeria. Quarantaquattro anni. Direttore vendite area Nord Italia. Tacchi da dieci, tailleur sempre scuri, scollature dosate, ma letali. Ha una voce che spezza. Uno sguardo che ti piega.
Quando mi parla, io sudo. Sempre. Anche in inverno. Anche se fuori nevica.
Questa trasferta è la mia prima. Mi avevano detto: «Impara, ascolta, non parlare troppo». Ho ascoltato. Non ho parlato. E poi ho sbagliato.
Ho prenotato una sola stanza.
Una sola. Per due.
Me ne sono accorto al check-in. Lei ha letto la prenotazione, ha sollevato un sopracciglio, ha chiesto:
— Tutto qui? —
E io ho fatto sì con la testa, in silenzio, come un deficiente.
Il receptionist ha sorriso.
— Purtroppo siamo pieni. È periodo fieristico, lo sa… —
Lei non ha detto nulla. Ha preso la chiave, mi ha guardato e ha fatto:
— Andiamo. Tanto, uno dei due dorme per terra. O no?
Siamo saliti.
Stanza doppia uso singolo, letto matrimoniale, grande. Troppo grande.
Lei si è tolta la giacca, si è slacciata lentamente i polsini della camicia, ha lasciato che un bottone saltasse.
— Prendi qualcosa dal frigobar. Io mi tolgo ‘sti tacchi — ha detto.
L’ho fatto.
Spritz per me. Vino per lei.
Abbiamo bevuto in silenzio, poi abbiamo parlato. Lavoro, vita, aneddoti. Lei rideva. Si è seduta sul letto, poi si è lasciata cadere all’indietro, le gambe ancora accavallate.
Il tailleur si era aperto un po’. Gambe nude, cosce piene, ginocchia lucide.
— Sei sempre così rigido? — mi ha chiesto a un certo punto.
— In che senso? —
— Così… trattenuto. Ti muovi come se avessi paura di fare rumore. Come se chiedere fosse peccato.
Non ho risposto.
Lei si è tolta la camicia. Sotto aveva solo il reggiseno. Nero, pizzo, niente imbottitura.
Tette vere, grandi, pesanti.
Le ho guardate. Lei se n’è accorta.
— Ti piacciono? —
— Sì. Molto. —
— E allora guardale, Cristo. Non fingere di no. Hai vent’anni meno di me, non fingere niente. Non mi offendo.
Io ero in piedi. La bocca secca.
Lei si è girata di lato, la schiena nuda, la gonna ancora addosso.
— Vieni qui. Vieni — ha detto.
— Valeria… —
— Non fare il timido adesso. Se ti scopi la capa non ti licenzia nessuno. Forse ti promuove.
Mi sono avvicinato.
Avevo il cuore in gola. Ero duro da minuti.
Lei mi ha afferrato per la cintura, ha slacciato i pantaloni. Senza fretta. Poi ha guardato.
— Carino — ha detto. — Sei pronto?
Non sapevo se fosse un sogno, un incubo, o la vita vera che finalmente, per una sera, si ricordava di me.
Non ho mai avuto una donna.
Non ho mai nemmeno baciato davvero qualcuno, di quelli con la lingua, con la fame, con l’urgenza. Ho ventisei anni, una laurea inutile, una camicia sempre sgualcita, e vivo ancora con mia madre. Il mio contratto dice “assistente operativo”, ma in pratica prendo appunti, fotocopio, preparo il caffè per il capo e le seguo le slide come un cagnolino.
Il capo è lei.
Si chiama Valeria. Quarantaquattro anni. Direttore vendite area Nord Italia. Tacchi da dieci, tailleur sempre scuri, scollature dosate, ma letali. Ha una voce che spezza. Uno sguardo che ti piega.
Quando mi parla, io sudo. Sempre. Anche in inverno. Anche se fuori nevica.
Questa trasferta è la mia prima. Mi avevano detto: «Impara, ascolta, non parlare troppo». Ho ascoltato. Non ho parlato. E poi ho sbagliato.
Ho prenotato una sola stanza.
Una sola. Per due.
Me ne sono accorto al check-in. Lei ha letto la prenotazione, ha sollevato un sopracciglio, ha chiesto:
— Tutto qui? —
E io ho fatto sì con la testa, in silenzio, come un deficiente.
Il receptionist ha sorriso.
— Purtroppo siamo pieni. È periodo fieristico, lo sa… —
Lei non ha detto nulla. Ha preso la chiave, mi ha guardato e ha fatto:
— Andiamo. Tanto, uno dei due dorme per terra. O no?
Siamo saliti.
Stanza doppia uso singolo, letto matrimoniale, grande. Troppo grande.
Lei si è tolta la giacca, si è slacciata lentamente i polsini della camicia, ha lasciato che un bottone saltasse.
— Prendi qualcosa dal frigobar. Io mi tolgo ‘sti tacchi — ha detto.
L’ho fatto.
Spritz per me. Vino per lei.
Abbiamo bevuto in silenzio, poi abbiamo parlato. Lavoro, vita, aneddoti. Lei rideva. Si è seduta sul letto, poi si è lasciata cadere all’indietro, le gambe ancora accavallate.
Il tailleur si era aperto un po’. Gambe nude, cosce piene, ginocchia lucide.
— Sei sempre così rigido? — mi ha chiesto a un certo punto.
— In che senso? —
— Così… trattenuto. Ti muovi come se avessi paura di fare rumore. Come se chiedere fosse peccato.
Non ho risposto.
Lei si è tolta la camicia. Sotto aveva solo il reggiseno. Nero, pizzo, niente imbottitura.
Tette vere, grandi, pesanti.
Le ho guardate. Lei se n’è accorta.
— Ti piacciono? —
— Sì. Molto. —
— E allora guardale, Cristo. Non fingere di no. Hai vent’anni meno di me, non fingere niente. Non mi offendo.
Io ero in piedi. La bocca secca.
Lei si è girata di lato, la schiena nuda, la gonna ancora addosso.
— Vieni qui. Vieni — ha detto.
— Valeria… —
— Non fare il timido adesso. Se ti scopi la capa non ti licenzia nessuno. Forse ti promuove.
Mi sono avvicinato.
Avevo il cuore in gola. Ero duro da minuti.
Lei mi ha afferrato per la cintura, ha slacciato i pantaloni. Senza fretta. Poi ha guardato.
— Carino — ha detto. — Sei pronto?
Non sapevo se fosse un sogno, un incubo, o la vita vera che finalmente, per una sera, si ricordava di me.
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