Mi chiamo Serena e voglio essere una schiava

di
genere
dominazione

Mi chiamo Serena.
Ho trentadue anni, un marito, un lavoro modesto e un corpo che a volte mi sembra l’unica cosa viva che mi sia rimasta addosso.
Faccio la collaboratrice scolastica in una scuola secondaria di provincia. Suono la campanella, apro a chi arriva in ritardo, pulisco le aule quando gli studenti vanno via. Nessuno mi guarda davvero, tranne qualche madre gelosa che pensa io possa insidiare il marito durante i ricevimenti.

Non sa che sono sposata anch’io.
Non sa che non scopo da mesi.
E che ormai mi basta sfiorare il manico della scopa con la mano bagnata per sentirmi tremare tra le cosce.

Mio marito si chiama Gabriele.
Fa il contabile in uno studio che puzza di carta vecchia e deodoranti da supermercato. Parla poco, sorride meno, scopa mai.
Dice che è lo stress, che passa. Che ho troppo bisogno di attenzioni.
Ma io non voglio attenzioni. Io voglio che mi sbatta contro una parete e mi dica di stare zitta.
Voglio sentirmi usata, svuotata, accesa.

A volte sogno di essere chiusa dentro un armadio a chiave, nuda. Sento qualcuno entrare, restare in silenzio. Lo sento respirare, ma non vedo nulla.
Poi la porta si apre. Una mano mi afferra i capelli.
E lì mi sveglio, madida, con le dita tra le gambe e il respiro che sa già di colpa.

Il mio corpo non è quello delle riviste.
Non sono magra, non sono tonica.
Ma ho fianchi larghi, tette che chiedono solo di essere toccate, e una pelle così chiara che ogni arrossamento, ogni morso, ogni impronta, resta visibile per ore.
Lo so perché a volte mi graffio da sola. Solo per ricordarmi che esisto.

A scuola il tempo passa lento. Le ragazze si truccano troppo, i ragazzi si credono uomini. Nessuno sa nulla. Nessuno ha ancora fame di vero.
Io invece la sento sempre, questa fame.
Nella gola, tra le gambe, nella schiena.
Come una febbre che mi tiene sveglia anche quando tutto è buio.

E poi c’è lui.

Il direttore.

Nessuno sa il suo nome, tutti lo chiamano solo così: il direttore.
Avrà cinquant’anni, forse poco meno.
Elegante, distante. La sua voce è bassa, tagliente.
Non guarda mai nessuno troppo a lungo.
Tranne me.

Me ne sono accorta.
Quando passo nel corridoio. Quando gli porgo i documenti da firmare. Quando mi piego a raccogliere qualcosa.
Non dice nulla. Ma i suoi occhi parlano. E sono occhi che non perdonano.

Stamattina mi ha chiesto di salire nel suo ufficio.
La segretaria mi ha detto:
«Vuole vederti subito. Porta con te i registri di presenza.»

Ma io lo so che non sono i registri.

So che lui sa.
So che ha visto nei miei occhi la stessa febbre che sento sotto la pelle.

E mentre salivo le scale, con la camicetta troppo leggera e il cuore in gola, ho capito che qualcosa stava per cambiare.
scritto il
2025-06-28
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