Oltre la soglia - Seconda parte

di
genere
etero

Il cielo aveva ancora quella sfumatura lattiginosa dell’alba, quando Anna spinse piano il cancelletto di casa, il clic del metallo coperto dalle prime note nelle cuffiette. Indossava un paio di leggings da running color antracite, opachi, dal taglio essenziale, scelti più per comodità che per stile. La stoffa sottile e tecnica aderiva alle gambe muscolose e affusolate, seguendone i movimenti con naturalezza. Non stringeva, non solcava, ma accompagnava. Come la seconda pelle di un corpo che non aveva bisogno di artifici per essere notato.

Sopra, una canotta traspirante color petrolio lasciava scoperta la parte alta della schiena, dove una sottile scia di sudore cominciava già a luccicare sotto la coda di capelli rossi, alta e tirata. Sotto la canotta, il reggiseno sportivo modellava il seno importante, contenendolo, sì, ma non celandone né il peso né la morbidezza. Ad ogni passo, quel corpo vibrava con armonia, i muscoli guizzavano sotto la pelle chiara, le caviglie affusolate disegnavano traiettorie morbide sull’asfalto.

Anna correva come si respira: senza sforzo apparente. Concentrata, assorta, quasi dimentica del suo stesso corpo. Ma chiunque l’avesse incrociata, anche solo per un istante, avrebbe sentito un brivido attraversare lo sguardo. Perché c’era qualcosa in lei che sfuggiva al controllo, una sensualità involontaria e per questo più dirompente, più autentica. Il modo in cui le dita si asciugavano il sudore sulla tempia, il labbro inferiore morso piano mentre accelerava, il respiro profondo che scuoteva il petto, sollevando il tessuto in onde impercettibili.

Non c’era nessuna volontà di sedurre in quei gesti. Ma bastava osservarla, anche di spalle, per sentire un calore salire dalla bocca dello stomaco. Lei non lo sapeva. O forse sì, ma non ancora del tutto.

Mentre le gambe spingevano il corpo in avanti con ritmo regolare, la mente di Anna si staccava lentamente dal respiro, dal cuore, dai muscoli. Correre l’aiutava a pensare, anche se a volte preferiva illudersi che fosse il contrario.

Quel mattino, invece, i pensieri si imposero come onde calde, insistenti, e avevano un solo nome: Marco.

Ripensava alle parole che lui le aveva sussurrato poche sere prima, con quello sguardo acceso che non le lasciava scampo. Non era stato esplicito, come sempre. Ma chiaro sì. Da tempo, ormai, cercava di portarla oltre. Di spingerla in quella direzione in cui il piacere si mescola con l’esibizione, con la consapevolezza di sé. Ma lei… lei si sentiva ancora impigliata in un’idea antica. Si vedeva come una madre, una donna concreta, affettuosa, ma non più quella figura capace di stordire con un semplice movimento di fianchi.

Eppure, certe immagini le tornavano in mente con una nitidezza sorprendente. Ricordava bene i capi che Marco aveva iniziato a regalarle, come piccoli messaggi cuciti nel tessuto.

C’era quella minigonna in ecopelle bordeaux, a tubo, con una zip posteriore che correva pericolosamente lungo i glutei. La volta che lui gliel’aveva regalata, lei l’aveva indossata di nascosto in camera, curiosa e titubante. Quando si era messa davanti allo specchio, si era osservata in silenzio.

La luce calda della lampada da comodino accarezzava le sue gambe lunghe e compatte, fasciate dalla stoffa aderente che sembrava risalirle da sola. Il top che accompagnava la gonna era nero, lucido, senza spalline, e lasciava nudo l’intero dorso. Si chiudeva con un solo nodo dietro al collo. Le spalle erano esposte, così come la parte alta del seno, che sembrava voler traboccare a ogni respiro.

Lei si guardava. Si osservava a lungo, in cerca di qualcosa. Il corpo era bellissimo, non poteva negarlo. I capelli rossi sciolti le cadevano morbidi sulle scapole, le curve erano ancora toniche, vive. Ma nei suoi occhi c’era qualcosa di trattenuto. Non riusciva a vedersi con gli stessi occhi di Marco. Non del tutto.

“Troppo,” aveva sussurrato a se stessa, togliendosi il top. “Non sono più quella di una volta…”

Eppure, quella sera aveva ripiegato l’abito con una cura particolare, lasciandolo sopra il cuscino, come se volesse tenerlo vicino. Come se una parte di lei volesse ritornarci, a quello sguardo. A quella pelle che sfidava.

Anche il costume da bagno, l’ultimo, era stato una prova. Un bikini color corallo, lucido, con coppe appena sagomate e uno slip che più che coprire, abbracciava le sue curve come una promessa. Lo aveva indossato in spiaggia, con titubanza, ma Marco l’aveva vista come se fosse la prima volta. E mentre le metteva la crema sulla schiena, le sue mani avevano indugiato sui fianchi, sulle natiche, sul tratto finale della schiena, mentre il mondo intorno si fermava. Lei si sentiva esposta, vulnerabile. Eppure viva. Vibrante. Ma poi, tornata in camera, davanti allo specchio, il dubbio la aveva raggiunta di nuovo.

Forse non era il suo ruolo, forse era troppo, troppo tardi, troppo esagerato.

Ora, mentre correva, i ricordi si rincorrevano tra le immagini e le emozioni. La stoffa sottile dei leggings si tendeva sulle sue cosce mentre accelerava. Sentiva il corpo forte, ancora capace. Ma la mente era piena di resistenze.

Il ritmo dei passi era regolare, costante. Ma dentro di lei, il battito era scomposto. Anna correva, eppure sembrava che fosse la corsa a fuggire da lei. Il vento tra i capelli, il sudore sulla schiena, la stoffa della canotta ormai incollata al seno. Ma non era il corpo a tremare. Era il pensiero.

Una frase. Solo una frase. Tornata a galla come un colpo improvviso nello stomaco.

"E se invece fosse stato un altro…? Ti ha fatto venire cinque volte. Sicura che avresti davvero qualcosa di cui lamentarti?"

Lo aveva detto Marco. Dopo quella notte. Dopo che le aveva tolto la benda, dopo averla slegata con una lentezza piena di soddisfazione. Le aveva baciato la fronte, come se nulla fosse. E poi, quella frase. Sottovoce. Ironica. Ambigua.

Allora lei aveva riso, tesa, confusa, ancora stordita dal piacere. L’aveva presa come una provocazione, una delle sue, per scuoterla, per eccitarla. Ma ora… ora quella frase tornava con una tonalità diversa. Cupa. Spessa.

E se fosse stato vero?

Il dubbio si insinuava con forza. Gli occhi di Anna si socchiusero mentre continuava a correre, cercando di scacciare quel pensiero. Ma non ci riusciva. Ogni parola si faceva più nitida. Ogni sguardo di lui, ogni pausa, ogni sorriso malizioso ripreso nella memoria prendeva un senso diverso. Non era solo un gioco. Forse non lo era mai stato.

Una scossa la attraversò. Sentì il calore salire tra le cosce, bagnarla. Era una sensazione conosciuta, ma in quel momento la turbò. Perché non era sudore. Era desiderio. Reazione. Risposta.

Si sentiva sporca. Viva. Sbagliata. E terribilmente eccitata.

Il dubbio non se ne sarebbe andato. Mai. E forse, in fondo, Marco lo sapeva. Forse voleva proprio questo: lasciarle quella domanda cucita nella carne, come un marchio.

Il passo era ancora regolare, ma dentro di lei non c’era più ordine.

E se fosse stato un altro?
Quel pensiero, scivolato nella sua mente come una lama di ghiaccio, adesso ribolliva sotto la pelle. Non riusciva a capire se a farla tremare fosse il disgusto o un’onda improvvisa di eccitazione. L’idea di essere stata presa da uno sconosciuto, legata, bendata, esposta, usata, la spaventava. Ma non la respingeva. No. C’era qualcosa in quella fantasia che le toglieva il respiro. La faceva sentire viva. In bilico.

Fu in quell’istante che accadde. Come se una parte sopita del suo cervello si fosse improvvisamente attivata. Uno switch invisibile, che accendeva un radar nuovo. Sentiva. Percepiva. Uomini.
Cominciò a notarlo con chiarezza, come se indossasse un paio di lenti appena pulite: ogni volta che passava accanto a un uomo — a piedi, in bici, persino dentro un’auto ferma — lo sguardo si posava su di lei. Non era un’illusione. Non più. Lo vedeva nei dettagli: negli occhi che si alzavano di scatto, nel collo che ruotava, nelle labbra socchiuse di chi non aspettava di vedere lei, ma non riusciva più a guardare altro.
All’inizio la colpì il loro sguardo basso. Seguivano il movimento del suo petto, il sobbalzare naturale e deciso dei suoi seni abbondanti sotto il reggiseno sportivo. Nonostante la compressione, si muovevano, respiravano, suggerivano. Un’onda lenta e piena che li ipnotizzava. Poi lo sguardo calava ancora, scivolava sul ventre piatto, sui fianchi, fino ai glutei. La curva piena, alta, scolpita ma ancora morbida, che si muoveva al ritmo della corsa, disegnata dai leggings come da una matita precisa.
La sentiva, quella fame. Quella bramosia animale. Non era immaginazione. Erano occhi che volevano toccare. Che si muovevano con la lingua asciutta e la mente sporca.

Un brivido le attraversò la schiena. E subito dopo un’ondata calda, rossa, imbarazzata. Si sentiva nuda. Esibita. E non lo voleva. O forse sì.
Un’emozione incontenibile si fece largo nel petto. Una vertigine. Come se ogni passo la avvicinasse a un precipizio interiore. Stava per crollare. O per spiccare il volo.
Vergogna. Euforia. Disgusto. Desiderio.
Erano tutti lì, in lei. Miscelati. Impastati nella sua carne. E ogni sguardo maschile le faceva da specchio. Le diceva che il suo corpo era ancora potere. Che lei, nel profondo, poteva scegliere se usarlo… o subirlo.

Chiuse il portone alle spalle con un gesto lento, stanco. Ma non era la corsa ad averla svuotata. Era quello che le esplodeva dentro. La testa pulsava, il respiro era ancora irregolare, ma non per lo sforzo. Una voglia muta, oscura, le si era insediata tra le gambe, cresciuta passo dopo passo, sguardo dopo sguardo.
Salì le scale a piedi, senza neanche rendersene conto. Entrò in bagno, lasciando che la porta si richiudesse da sola dietro di sé. Si fermò davanti allo specchio, come attratta. Le mani tremavano mentre tirava su la canotta, che si staccava dalla pelle con un suono sordo, bagnata di sudore.

Il reggiseno sportivo seguì a fatica. Liberò il seno con un gesto impaziente, e i due globi si mossero pesanti, ancora tesi dal respiro irregolare. La pelle era arrossata, lucida di umidità. Le spalle, le braccia, il ventre ancora contratto. Il sudore scivolava lungo la linea sottile tra i seni, lungo l’ombelico, e si raccoglieva proprio lì, dove il desiderio le pulsava sordo e affamato.
Tolse i leggings lentamente, sfilandoli con cura come se ogni gesto potesse esplodere. Lo slip era umido. Lo sentiva, lo vede. Lo sfilò piano, trattenendo il respiro. Il suo corpo, riflesso nello specchio, non era quello di una donna finita. Era il corpo di una donna viva. Accesa. In rivolta.

Si avvicinò alla doccia, aprì l’acqua calda. Il vapore cominciò a riempire l’aria, ad appannare lo specchio. Entrò lentamente, lasciando che il calore le abbracciasse la pelle, la rianimasse. Le gocce le scorrevano sul seno, sui fianchi, lungo le cosce. Ma era una sola zona, là in basso, che sembrava bruciare.
Prese il doccino e lo portò tra le gambe, sfiorandosi appena. Bastò un tocco. Il respiro si spezzò. Chiuse gli occhi, lasciò che l’acqua scorresse, insistente, precisa, come se sapesse esattamente dove premere.
Si lasciò andare. Prima in piedi, poi lentamente scivolò in ginocchio, le mani sulle piastrelle, la fronte che quasi toccava il muro. Il piacere le salì dentro con la forza di un’onda, calda, devastante. Gemette, mormorò il suo nome. O forse no. Forse non era il nome di Marco quello che le sfuggì dalle labbra.
Quando riaprì gli occhi, l’acqua continuava a scorrere, ma lei era ferma. Nuda, in ginocchio nella doccia, il cuore che ancora batteva forte, il ventre che ancora palpitava.

Aveva trovato un sollievo. Ma non una risposta. E adesso, quella domanda — era lui? o era un altro? — le si era incisa dentro.

Aveva preso la decisione nel silenzio bollente del pomeriggio. Non poteva più vivere con quel dubbio che le scavava dentro, quella frase che Marco le aveva lasciato addosso come una scheggia: “E se invece fosse stato un altro…? Ti ha fatto venire cinque volte. Sicura che avresti davvero qualcosa di cui lamentarti?”
Non riusciva più a ignorarla. Doveva affrontarlo. Guardarlo negli occhi. Costringerlo a rispondere. Ma non lo avrebbe fatto da moglie ferita, da donna smarrita. Lo avrebbe fatto vestendo quel dubbio. Sfidandolo.

Portò la bambina dai genitori con una scusa credibile, un sorriso trattenuto sulle labbra. Poi tornò a casa e salì le scale lentamente, come se ogni gradino fosse una preparazione. Una trasformazione.

Aprì il cassetto e scelse. La minigonna in similpelle rossa. Aderente, cortissima, la zip posteriore lucida che saliva tra i glutei come una linea di fuoco. La infilò piano, sentendo la stoffa stringerle i fianchi, disegnare il profilo tondo e sodo del sedere. Poi il top nero, dello stesso materiale, incrociato dietro il collo, completamente aperto sulla schiena. Sotto, niente reggiseno. Il seno nudo si muoveva appena, libero, pieno, vibrante sotto il tessuto teso.
Scelse un tanga in raso blu elettrico. Minuscolo. Fresco sulla pelle già calda. Lo sentiva a malapena, ma bastava sapere che c’era. Era come un segreto. Intimo. Solo suo.
Le calze a rete fine, di quelle eleganti, sensuali ma non volgari, completarono il quadro. Niente autoreggenti: la gonna era troppo corta, troppo rischioso. Eppure, anche senza volerlo, ogni dettaglio urlava qualcosa.
Quando si vide allo specchio, qualcosa dentro si incrinò.
Il riflesso la colpì con violenza. Era bellissima. Ma troppo. Troppo scoperta. Troppo audace. Troppo esposta.
Lo sguardo si abbassò sul seno pieno, che si intuiva attraverso il tessuto teso e lucido del top. I capezzoli, la cui impronta era visibile. Le gambe lunghe, fasciate nella rete. I fianchi stretti, il ventre teso. Il tanga che si intravedeva se solo si chinava appena.
Si sentì arrossire. Si strinse le braccia al petto. Le mani tremavano.
«È troppo…», sussurrò a se stessa.

Fece per togliersi tutto. Per cambiarsi. Ma le dita si fermarono.
Non era paura. Era qualcosa di più profondo. Una vergogna che non le apparteneva davvero, ma che la accendeva. Sentiva il sangue scorrere più veloce, il cuore battere nelle orecchie. Un calore pulsante e cupo cresceva dentro di lei. Era umida. Non di sudore. Lo sentiva chiaramente.
Respirò a fondo. Prese il trucco e cominciò con movimenti lenti. Una base leggera sulle guance, quanto bastava a dar colore. Poi gli occhi: eyeliner verde smeraldo, profondo, per incorniciare lo sguardo che tremava di forza trattenuta. Ciglia incurvate, ciglia da felina. E infine, le labbra: rossetto arancione lucido, deciso, vibrante.

Un lampo di colore sulle labbra e un incendio tra le gambe.

Si guardò ancora. Era pronta. O forse no. Ma non poteva tornare indietro.

Scese lentamente in salotto. I tacchi sottili rintoccavano sul pavimento come battiti d’attesa. Si sedette sul divano, una gamba elegantemente accavallata, il busto in avanti. Ma dopo pochi secondi prese un cuscino e se lo portò sulle cosce nude, come se volesse nascondersi. Proteggersi. O forse solo reggere l’urto di quell’attesa.
La casa era silenziosa. Il cielo fuori virava all’arancio. E Marco stava per arrivare.

Marco richiuse la porta con il solito gesto e attraversò il corridoio in silenzio. I passi lo portarono in salotto, dove la luce calda illuminava la stanza in modo sospeso, quasi irreale. Poi la vide.

Anna era lì, seduta sul divano, le gambe accavallate con compostezza, le mani posate su un cuscino adagiato sul grembo. Il busto leggermente proteso in avanti, lo sguardo fisso su di lui. Era vestita con quel completo. La minigonna rossa in similpelle, aderente, lucida. Il top nero, senza spalline, fasciato sul seno nudo. Le gambe coperte da calze a rete sottili, eleganti, disegnavano geometrie morbide sulla pelle.

Nulla era scoperto, eppure tutto sembrava lì, a portata di sguardo. Il trucco intenso sugli occhi, l’eyeliner verde smeraldo che le rendeva lo sguardo magnetico, le labbra lucide di un arancione vivo e pieno. Marco si fermò. Il cuore rallentò. Un misto di desiderio e allarme lo attraversò.

«Vieni. Siediti qui, vicino a me. Dobbiamo parlare.»

La voce era ferma, senza esitazione. Non c’era dolcezza, ma nemmeno rabbia. Solo controllo. Marco obbedì in silenzio, si avvicinò, si sedette accanto a lei. Il divano sembrava più piccolo, più stretto. Sentiva il calore della sua pelle anche senza toccarla.
Anna lasciò scivolare via il cuscino con calma, quasi con disprezzo. Poi si voltò verso di lui, piegò lentamente una gamba e appoggiò il ginocchio sulla seduta del divano. Una posizione aperta, quasi rilassata. Ma studiata. La minigonna si sollevò appena, quanto bastava a lasciar intuire il profilo del suo basso ventre, la stoffa sottile che sfiorava il segreto custodito sotto.
Lo guardò negli occhi, fredda. Diretta.
«Devi dirmi la verità. Chi c’era nel letto con me l’altra sera.»
Marco la guardò. E sorrise. Non con ironia, ma con quella calma imperturbabile che a volte l’aveva fatta impazzire. «Te l’ho già detto. Ovviamente ero io. Ma anche se fosse stato un altro… cosa cambierebbe? Hai avuto il tuo piacere, no?»

Lo sguardo di Anna si indurì. Le labbra non tremarono, ma la voce si fece più tagliente.
«Cambierebbe tutto. Primo: se devo decidere di farti cornuto, voglio esserne consapevole. Secondo: vorrei avere voce in capitolo nella scelta del maschio. Terzo: non sono una tua proprietà da prestare agli amici.»

Poi fece una pausa. Non abbassò lo sguardo. La tensione tra loro era palpabile.

«Ma davvero… vedermi scopare con un altro ti ecciterebbe?»

Marco la fissò un lungo istante. Non distolse lo sguardo, nemmeno per un attimo. Poi, con un tono pacato, quasi affettuoso, ma acceso da un brivido sottile, rispose:

«Sì, davvero mi ecciterebbe. Ma non vederti scopare e basta. Sapere che stai godendo. Sapere che il capolavoro che sei accende altri uomini. Vedere il desiderio nei loro occhi trasformarsi nel tuo piacere, mentre ti prendono, mentre ti possiedono a pieno… e tu glielo lasci fare.»

Anna lo fissò un attimo, impassibile. Poi, con voce più bassa, più tagliente:
«Quindi mi hai fatta scopare… e inculare da un altro?»
«Ancora, tesoro…» rispose lui con calma, «ti ho già detto di no.»
Ma il modo in cui lo disse, quella sottile inclinazione ironica della voce, fece scattare qualcosa.
Lo sguardo di Anna si fece di colpo più duro, affilato. Divenne una lama.

Senza parlare, sciolse con un solo gesto il nodo dietro al collo. Il top si allentò e cadde leggero, liberando i seni. Rimasero lì, perfetti, nudi, pieni, ancora tesi dalla tensione della scena. Lei non si coprì. Non arrossì.
Fece un passo avanti, lenta, lo sguardo sempre fisso nei suoi occhi. Si fermò davanti a lui.
Allargò le sue gambe con le mani, decisa ma senza brutalità, e poi si inginocchiò tra esse, il petto che si appoggiava morbido sulle sue cosce, la pelle calda che sfiorava il tessuto dei pantaloni. Il profumo della pelle, il respiro, tutto si fece intimo.

«Vorresti vedermi così… con un altro?» sussurrò, senza rabbia. Solo veleno.
Poi, con lentezza chirurgica, passò la mano sopra l’erezione che premeva evidente sotto il tessuto. Non gli diede piacere. Gli diede una domanda.
«Vorresti vedermi… mentre faccio questo?»

Anna rimase lì, in ginocchio tra le sue gambe, lo sguardo inchiodato nei suoi occhi. Le labbra socchiuse, il fiato caldo, i seni nudi che premevano contro le sue cosce. Un contrasto di pelle e tessuto, di tensione e carne viva. La sua mano era ancora posata su quell'evidente gonfiore, ferma, come se lo stesse studiando.
Poi lo fece. Con una lentezza che non era esitazione, ma pura padronanza, sbottonò la cintura, abbassò la zip, lo liberò. Non servivano parole. Solo il rumore ovattato del tessuto, il respiro che si fece più profondo, più trattenuto.
Lo guardò un’ultima volta, con uno sguardo che non chiedeva più il permesso. Poi abbassò il capo.
Le labbra si posarono su di lui con una delicatezza bruciante. Un primo tocco morbido, umido, seguito da un movimento lento, deciso. Lo prese tra le labbra con una naturalezza che sembrava istinto, ma era dominio. Non c’era fretta. Non c’era finzione.
Usò la bocca e i seni insieme, lasciandolo scivolare tra la carne morbida, calda, accogliente. Il ritmo era lento, profondo. Ogni gesto calibrato per sentire, per farlo sentire. Il suo piacere diventava il proprio, mentre lo accoglieva sempre più, con movimenti avvolgenti, fluidi, quasi rituali.

Il suono del respiro di Marco si spezzava. Le sue mani affondarono nei capelli di lei, ma non per guidarla: per tenersi aggrappato a qualcosa, mentre lei lo conduceva dove voleva.

In quel momento non era più la donna dubbiosa, la moglie smarrita. Era Anna, nuda, consapevole, intensa. E il piacere che stava prendendo in bocca non era solo fisico.

Marco si lasciò andare indietro sul divano, gli occhi socchiusi, il respiro spezzato. Anna continuava, decisa, profonda, sensuale come mai. Lo stava guidando lei, con la bocca e i seni, con quel movimento perfetto che lo lasciava senza difese. Ogni secondo era un'escalation, ogni respiro più corto, ogni battito più forte.

E poi, arrivò.
Il piacere lo attraversò con un brivido violento, trattenuto troppo a lungo. Il corpo si irrigidì, le mani si aggrapparono ai cuscini. Anna non si fermò. Lo accolse tutto. Ogni impulso. Ogni stilla. Lo assaporò. Gli occhi chiusi, le labbra tese. Una femmina in totale controllo.

Ma proprio mentre lui stava ancora tremando, ancora perso nel piacere, lo sentì. Lei lo sentì.
Un sapore. Diverso.
Gli occhi si aprirono all’improvviso, iniettati di furore. Il volto cambiò. In un secondo.
E fu allora che lo fece.
Chiuse la bocca su di lui con violenza. Un morso potente. Non abbastanza da ferire, ma quanto bastava a farlo urlare. Lo sputò fuori con disprezzo, lasciandolo scivolare umido e vulnerabile sul suo ventre.
«Figlio di puttana!»
La voce esplose come una frustata. Gli occhi le brillavano di rabbia e di orrore.
«Lo sapevo! Quel sapore non era il tuo! Bastardo! Bastardo schifoso!»
Marco fece per parlare, ma non ne ebbe il tempo.
Anna si alzò di scatto, nuda dalla vita in su, con i capelli scompigliati, le labbra ancora lucide, il petto che si alzava e si abbassava con violenza. Alzò la mano e gli rifilò uno schiaffo secco, pieno, in pieno volto. La testa di lui scattò di lato. Il rumore fu assordante.
«Mi hai fatta scopare da un altro mentre ero legata! Mi hai usata! Come un giocattolo!»

Si voltò, il seno ancora scosso dal respiro agitato, la gonna che saliva sulle cosce mentre correva via. Sparì nel corridoio, a piedi nudi, e la porta della camera da letto si chiuse con uno schianto.

Il silenzio nella casa era improvviso, assordante. Marco era rimasto sul divano, ancora scosso, la pelle che bruciava dove lo schiaffo l’aveva colpito. Lì, tra le cosce, sentiva ancora la scia del piacere interrotto, sfigurato. Il respiro lento, ma non calmo. Carico di qualcosa che ancora non riusciva a nominare.

Poi, pochi istanti dopo, il rumore secco di una porta spalancata nel corridoio lo fece scattare. Voltò appena la testa. Non fece in tempo a rialzarsi.
Anna attraversò l’ingresso con una furia gelida. Indossava un paio di jeans e una maglietta semplice, il trucco appena sbavato agli angoli degli occhi, i capelli ancora umidi di rabbia. Ma non era fuggitiva. Era decisa. Ogni passo era un colpo.
Si fermò solo per un attimo accanto alla porta. Lo guardò con uno sguardo che sembrava più di parole. Poi esplose di nuovo.
«Sei un miserabile. Un codardo. Hai distrutto tutto per il tuo fottuto ego malato!»
prì la porta con violenza, la mano che tremava, ma non d’emozione. D’ira.
«Mi hai umiliata. Mi hai ingannata. Ti sei goduto ogni secondo mentre io… io pensavo fossi tu.»
Fece per uscire, ma si voltò un’ultima volta, gli occhi lucidi ma feroci.
«Te la farò pagare.»

E sbatté la porta con una forza che scosse i vetri. Poi, solo il rumore dei suoi passi giù per le scale. Rapidi. Implacabili.

Marco rimase lì. Immobile. Il cuore ancora martellante. Le mani sulle cosce. Il vuoto attorno.

E la voce di Anna che rimbombava nel silenzio.

Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-06-25
3 0 6
visite
2
voti
valutazione
9.5
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Oltre la soglia
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.