Mia cugina: Parte 19

di
genere
incesti

La sera stessa non andiamo al bar, non usciamo con i nostri amici. Rimaniamo nel mio appartamento a fingere di guardare un film che danno in TV.
Dopo che ci siamo fatti la doccia, l’atmosfera si è raffreddata. Qualcosa è cambiato nell’aria. Non ci parliamo da oggi pomeriggio, né ci guardiamo. Restiamo vicini come se avessimo paura che una sola parola possa distruggere tutto. Ci amiamo così tanto?
Il suo cellulare squilla sul basso tavolino. Lo prende. — Sì? Ok… Ora non posso… Domani… Capisco. Ok, ciao. — Posa il cellulare e mi lancia un’occhiata di sottecchi.
— Tutto bene? — domando di getto.
— Sì…
Restiamo in silenzio per un momento.
— Lavoro? — chiedo.
— Sì…
— Capisco.
Altro silenzio.
Si alza. — Forse è meglio che vada.
— Aspetta. Non andare.
Mi guarda per un attimo, torna a sedersi.
— Riguardo a prima… — dico.
— Non parlare.
— Dobbiamo.
— Non serve.
— Voglio stare con te.
Non risponde.
La pubblicità di un bagnoschiuma in TV. Il rombo del motore di una moto che sfreccia a tutta velocità fuori dalla finestra.
La guardo. — Senti, sono serio. Voglio davvero stare con te.
— Non ti credo.
— Perché?
Mi guarda. — Non sei stanco di tutto questo? Siamo ripetitivi…
— Sei tu quella che fa storie.
— Quindi è così?! Faccio storie?
Sospiro frustrato. — Hai paura. È tutta paura. Sei spaventata che le cose possano andare male tra di noi, che…
— Già. Ho paura…
— Quindi che facciamo?
Sposta lo sguardo sulla TV. Non risponde.
Mi massaggio la fronte. — Dammi una risposta.
— Non ce l’ho.
— Io voglio stare con te. Tu?
Nessuna risposta.
Poso una mano sulla sua. Lei la ritrae, ma la stringo. — Dimenticherò mia cugina.
Gira di scatto la testa verso di me. — Non mentire.
— È ciò che vuoi, no?
— Non devi farlo per me.
— Allora per chi lo devo fare, se non per te?
Sospira. Ritrae la mano dalla mia e torna a guardare la tv. — Anche se lo fai, io…
Sbuffo esasperato. — Allora che cazzo devo fare?! Dimmelo!
Mi guarda, gli occhi spalancati. Silenzio.
— Ti ho detto che dimenticherò mia cugina e tu continui a fare… — Tiro un altro sbuffo irritato, mi alzo e mi affaccio alla finestra per tranquillizzarmi.
Un silenzio pesante cala nel soggiorno, i suoni della tv di sottofondo.
— Vuoi davvero stare con me? — chiede Ilaria.
Non rispondo.
Altro silenzio.
Lei si mette accanto a me, osserva il cielo notturno. Nuvole ovunque. — Credo che pioverà.
— Voglio stare con te — rispondo secco, senza guardarla.
— Anch’io...
Un lampo in lontananza.
Comincia a piovere.

Il mattino seguente, mentre esco dal mio condominio, la mia ex assistente è appoggiata contro la portiera della mia auto. Indossa un tailleur da ufficio blu scuro sotto una camicetta bianca. Il suo sguardo è diverso dalle altre volte, ma è solo una trappola. Lo so già.
La raggiungo. — Che ci fai qui?
Lei mi sorride con il suo solito fare infantile. — Non sei contento di vedermi?
— Tua madre lo sa che sei qui?
— Pensi che mi possa fermare?
— L’altro giorno sembrava così.
Mi stringe l’indice col suo, lo ritraggo. Fa una risatina nervosa. — Te l’ho detto. Non ti libererai di me. Siamo fatti per stare insieme.
— Sto con Ilaria.
Il suo volto si deforme in una maschera di rabbia e odio. — Ah, è così?
— Già, quindi…
— Non importa. Posso stare lo stesso con te.
La sposto con un braccio ed entro in macchina.
Lei cerca di aprire la portiera, ma non ci riesce. Corre dall’altra parte e tira la maniglia. — Fammi entrare.
Ingrano la prima e vado via.
La mia ex assistente mi rincorre per un tratto mentre grida qualcosa.
Qualunque cosa sia, non m’interessa. Non più.

Mezz’ora dopo sono in ufficio. L’incontro con la mia ex assistente mi ha rovinato la giornata. Sospiro, bevo un bicchiere d’acqua e controllo alcuni fascicoli per un momento.
Federica bussa e apre la porta. Sembra stare meglio degli altri giorni. — Tra venti minuti c’è la riunione.
— Va bene.
Va via.
Riesamino ancora una volta i documenti per concentrarmi. Niente. Non ci riesco. La testa è da tutt’altra parte. L’immagine della mia ex assistente che corre dietro la mia auto gridando di fermarmi ancora mi perseguita. Pensavo di averci dato un taglio, invece non è così.
Un altro sospiro. Più pesante.
Mi alzo ed esco dall’ufficio. I dipendenti stanno entrando nella sala riunione. Ilaria è già lì, lo sguardo che vaga nella mia direzione oltre le pareti di vetro. Ci guardiamo, abbozziamo un sorriso impercettibile.
Varco la porta e prendo posto attorno al tavolo. Mi sento irrequieto. Ilaria comincia la riunione parlando di un cliente specifico, ma le sue parole mi arrivano ovattate. Cerco di rimanere concentrato, di seguire le parole, le slide sullo schermo, i grafici, le percentuali, i numeri. Niente. Non mi entra nulla in testa. Credo siano i sensi di colpa, eppure sapevo che sarebbe finita così. Non c’era altra soluzione. E poi io e Ilaria ci siamo messi insieme. Certo, non l’abbiamo specificato, ma è così.
Ilaria fa il mio nome. Apro subito il fascicolo del cliente e do la mia opinione. Me la sono cavata. Ricordo a memoria numeri e percentuali. Lei attende che dica qualche nota finale, ma non lo faccio. Non riesco. Sono annebbiato. Lei passa al prossimo cliente. E la riunione si prolunga di mezz’ora.
Prima di uscire, Ilaria mi fa segno con lo sguardo di seguirla in ufficio.
La seguo e mi accomodo sul divano.
Lei si siede sulla poltrona accanto. — Oggi eri assente. C’è qualche problema?
— No, nulla. Forse ho dormito male.
— Non è che ci hai ripensato?
— Ripensato?
— A noi. Ci hai ripensato?
La guardo serio. — Per niente.
Annuisce come se avesse capito che ho detto la verità. — Allora cosa c’è?
— Niente. Non preoccuparti.
Si limita a guardarmi senza dire una parola.
— Dico sul serio — aggiungo.
— Mmmh… Qualcosa è successo. Su questo non ci piove. Ti conosco troppo bene. So quando hai qualcosa per la mente, perciò…
Sospiro, mi alzo e vado davanti alla grande vetrata che si affaccia sulla città illuminata da sole. Non rispondo.
— Immagino che sia così — dice Ilaria. — È tornata?
— Chi?
— La tua ex assistente. Quella che ti sta sempre tra i piedi.
Non rispondo.
— Suppongo di sì — dice lei con tono piatto. — Per questo sei preoccupato?
Mi volto a guardarla. — Sei troppo calma.
— Dovrei arrabbiarmi?
— Beh… non saprei.
Sorride melliflua. — Hai detto che vuoi stare con me, quindi… — Mi fissa in silenzio per un momento. — Non ho motivo di… arrabbiarmi, giusto?
— No.
— Bene.
Torno a sedermi sul divano, la guardo. — Stamattina era davanti alla mia macchina.
Arriccia le labbra. — Mmmh…
— Che c’è?
— Niente. Continua.
— Non c’è niente da dire.
— A me sembra di sì.
Distolgo lo sguardo. — Beh, ti sbagli. Era lì è…
— Visto? Ne vuoi parlare.
— Ti sto solo dicendo…
Ilaria scuote la testa, gli occhi grevi. — Che vuoi dirmi?
Alzo le mani in aria con uno sbuffo esasperato. — Niente. Non voglio dire niente.
— Ci giri intorno come sempre.
La guardo. Non rispondo.
Il suo telefono squilla sulla scrivania. Si alza e risponde. — Sì? Ok… Va bene… — Ripone la cornetta e mi guarda. — Continueremo stasera.
— Non c’è bisogno.
— Credo proprio di sì.
Mi alzo e lascio il suo ufficio.

Ore dopo, verso le cinque del pomeriggio, entro nell’ascensore in cui c’è Ilaria. Siamo solo noi due.
Preme il bottone per il primo piano e mi guarda. L’ascensore comincia a scendere. — Riguardo a prima…
— Lasciamo perdere — rispondo.
— Quella là…
— Se n’è andrà. Deve solo capire che è tutto nella sua testa.
— Pensi che sia così facile?
— No, ma…
— Persino sua madre non è riuscita a tenerla lontana da te.
L’ascensore si ferma. Le porte si aprono. Ci incamminiamo lungo l’atrio punteggiato di gente.
Ilaria aumenta il passo ed esce dall’edificio.
L’afferro per un polso. — Aspetta. Sei arrabbiata con me?
Si guarda intorno, le persone che ci osservano incuriosite. Ritrae il polso dalla mia presa e si dirige verso il parcheggio. La seguo alle spalle.
Apre la portiera della macchina, ma la chiudo con una mano. — Che hai? — domando.
Mi fissa per un attimo. — Tu cos’hai?
— Io? Niente.
— Sei sicuro?
— E per quella là?
Sospira, caccia via la mia mano ferma sul finestrino e apre la portiera.
La richiudo. — Sto parlando con te.
Abbozza un sorriso nervoso. — Sei che ti dico? Che sono stata una stupida. Non dovevo dirti… — Si ammutolisce e sospira irritata.
— Cosa? Cosa non dovevi dirmi?
— Con te c’è sempre un problema. Se non è tua cugina, allora è quella ragazzina. E sinceramente sono stufa di litigare ogni volta per queste cose.
— Pensi che a me piaccia farlo?! — domando infastidito. — Ma ero serio ieri. Voglio stare con te. Ma sei tu hai problemi a… Lascia stare. Mi sembra di seguire il solito copione quando parlo con te. È stancante… ripetitivo.
— Anche per me.
Cala un silenzio pesante mentre ci fissiamo intensamente per un momento.
Vorrei saltarle addosso. Baciarla, toccarla, farci l’amore. Tutto e di più, ma non posso. Ogni volta finiamo per litigare. Ogni santa volta e comincio a stancarmi anch’io.
Ilaria apre la portiera e si siede al posto di guida. Corro dall’altra parte e mi siedo anch’io.
— Che stai facendo? — chiede lei con uno sguardo torvo.
— Litighiamo sempre per cazzate. Davvero… Sono tutte cazzate.
— Ah, quindi ti sembrano cazzate.
— Non lo sono?
— No. Per niente.
— Beh, lo sono. Quella là non significa niente per me e lo sai. Se non fosse così, non…
— …Non saresti qui? — conclude Ilaria con un sorrisetto sarcastico. — Ho già sentito queste frasi… fatte. Sono inutili. Tutte parole.
Sbuffo. — Senti…
— Scendi.
— Parliamone.
Mi fulmina con lo sguardo. Non risponde.
— Ho capito, me ne vado — dico. Scendo e chiudo la portiera.
L’auto si allontana lungo il parcheggio vuoto. Non mi ha nemmeno guardato. È davvero la fine?
scritto il
2025-06-15
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