La festa delle madri

di
genere
incesti

Non so che ora fosse. La musica era già un battito liquido nelle ossa e le bottiglie vuote galleggiavano in piscina come cadaveri eleganti. La casa era buia e piena. Le luci psichedeliche si rifrangevano sui corpi nudi, sudati, che si contorcevano come serpenti ubriachi di carne e cocaina.
Quando sono arrivata, avevano appena iniziato. Ora eravamo già oltre.
Una donna bionda, cinquantenne portati con ostinazione, era in ginocchio. Portava ancora le perle al collo, come se volesse ricordare al mondo che veniva da una certa classe. Ma quelle perle le oscillavano sul ventre nudo di un ragazzo nero, il più giovane lì dentro. Avrà avuto vent’anni, non di più. Aveva un corpo da atleta e una faccia da bambino. Rideva mentre le affondava le mani nei capelli.
La bocca della donna era piena del suo cazzo duro e lucido di saliva.
L’ho riconosciuta solo dopo: era Claudia, la madre del miglior amico di mio figlio. Era stata lei a invitarmi. «Dai, vieni. Niente di serio. Una notte fuori. Tra adulti.» Così aveva detto. Tra adulti.
Non l’ho mai vista vestita così poco. Reggiseno in pizzo nero, le tette fuori che dondolavano ad ogni colpo di bacino. I collant rotti, le calze ancora tirate fino alle cosce. I tacchi alti, come in una sfilata. Solo che qui non c’erano passerelle. Solo cazzi, bocche, dita, ansimi, droga.
Mi sono seduta sul divano bianco, le cosce nude appiccicate alla pelle del cuscino. Avevo ancora addosso l’abito lungo, nero, senza reggiseno sotto. Sotto, niente mutande.
Un bicchiere in mano, vodka liscia. La coca girava. Strisce tirate su da smartphone e da specchi improvvisati. Un’altra madre — non so il nome — si è piegata sul tavolino e ha tirato due righe con la stessa grazia con cui si serve un sorbetto. Poi si è girata verso un ragazzo coi capelli ricci e gli ha sussurrato qualcosa. Lui l’ha fatta sdraiare, le ha tirato su la gonna e ha iniziato a leccarla come un cane affamato. Lei rideva. Urlava.
Un’altra — quella coi capelli rossi, il corpo da pornostar invecchiata — stava cavalcando il proprio figlio. Giuro. L’ho riconosciuto. Tommaso, occhi chiari, la bocca identica alla madre. Lei lo teneva per i polsi e gli mordeva le labbra. Lui la chiamava «mamma» mentre la scopava.
Non c’era più nessuna differenza. Nessuna regola. Nessuna pietà.
Mi sono chiesta perché non me ne fossi andata. Ma lo sapevo.
Perché volevo vedere.
Volevo sapere fin dove poteva arrivare il desiderio. Il mio, soprattutto.
Un ragazzo mi ha guardata. Avrà avuto venticinque anni. Occhi scuri, pelle color miele, maglietta tagliata. Si è avvicinato.
«Sei la più bella qua dentro» ha detto.
Avevo quarantotto anni, due rughe agli angoli degli occhi e un marito che non mi toccava da mesi.
«Non mentire» ho risposto.
«Non mento. Ti voglio in ginocchio.»
L’ho guardato in silenzio. Sentivo la musica dentro il petto, le risate, le grida di chi veniva e si faceva venire.
Dietro di lui, Claudia aveva appena finito. Si è asciugata la bocca con il dorso della mano, si è rimessa il reggiseno come fosse una giacca da sera. Poi mi ha guardata.
Mi ha fatto un cenno, lento, impercettibile.
Come a dire: Adesso tocca a te.
scritto il
2025-06-01
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