La puttana del sottopasso

di
genere
dominazione

C’è un sottopasso sotto la ferrovia. Un buco di cemento, luci al neon sporche, odore di piscio e muffa. Nessuno ci passa volentieri. Io sì. Ogni sera, tornando a casa, taglio di lì.

È lì che l’ho vista.
Seduta su un gradino, la schiena contro il muro, le gambe aperte.
Minigonna lurida, stivaletti sfonati, giubbotto slacciato. Niente mutande.
Lo capisci subito. Il modo in cui si muove. Il modo in cui si lascia guardare.

Per tre sere non mi ha detto nulla. Solo uno sguardo lungo, fermo.
Alla quarta, ho rallentato.
Lei ha alzato la testa.
Mi ha guardato dritto.
E ha detto:

«Vuoi farmi quello che mi merito?»



Non ho risposto.
Mi si è indurito il cazzo all’istante.
Lei si è piegata in avanti.
Ha aperto le cosce.
La figa gliela vedevi tutta: rasata, lucida, già bagnata.

Mi sono avvicinato.
Lei si è messa in ginocchio.
Ha aperto la bocca.
«Fammi male. Fammi star zitta col tuo cazzo.»

Le ho tirato indietro i capelli. Le ho sputato in faccia.
Lei ha sorriso.



Mi sono sbottonato i pantaloni.
Il cazzo era già duro come pietra. Gliel’ho infilato in bocca senza chiedere niente.
Lei l’ha preso tutto. Si è strozzata e ha continuato.
Bava ovunque.
Mi guardava dal basso come una cagna affamata.
Ogni colpo era un suono viscido, la sua gola che inghiottiva.

«Mmmfh… mmm… fammi tacere…» sussurrava, la bocca piena.
La scopavo in faccia.
L’ho presa per le guance, le ho ficcato due dita in gola.
«Soffoca, troia. Soffoca per me.»

Lei veniva. Sì, veniva davvero.
Le si piegavano le ginocchia mentre si prendeva tutto.
«Sborra dentro… fammi sentire il tuo schifo…»

Non l’ho accontentata.
L’ho spinta a terra, a faccia in giù.
Le ho allargato il culo. Il buco dell’ano le pulsava.
Con due dita gliel’ho preparato. Lei gemeva.
«Sì. Lì. Inculami come se fossi tua.»

L’ho preso e gliel’ho ficcato dentro.
Un grido secco. Ma non di dolore.
«Di più. Fammi sanguinare, se vuoi.»

Le ho preso i polsi, glieli ho bloccati dietro la schiena.
Scoparla lì, con il viso schiacciato sul cemento e le cosce larghe, era come scopare un’ossessione.

Mi usciva, la rispingevo.
Mi stringeva l’anima con quel culo.
Ogni colpo era un insulto, una punizione.
Le sbattevo la testa per terra.
«Di’ che sei niente.»
«Sono niente. Un buco. Una cosa. Tua.»



Ho sborato nel culo. Forte.
Lei si è girata, tutta sporca, rossa in viso.
Ha passato una mano tra le chiappe, se l’è portata alla bocca.
«Mmm… sa di te. E anche di me.»

Poi si è rialzata.
Ha raccolto una busta nera accartocciata. Dentro c’erano due corde, un collare, un vibratore sporco.
Me li ha messi in mano.
«Domani porto io la corda. Tu porta un amico.»

E se n’è andata, nuda sotto la giacca, coi segni delle mie mani sul culo.
scritto il
2025-05-31
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