Mio figlio Elia mi scopa 2
di
AngelicaBellaWriter
genere
incesti
Non lo rividi per tre giorni.
Tre giorni in cui ogni goccia che scendeva tra le cosce era il ricordo di lui dentro di me.
Ogni gesto era una replica. Ogni pensiero un’eco.
Mi ero lavata. Più volte. Ma la pelle sembrava trattenere il suo odore.
Avevo il ventre gonfio e le labbra arrossate, come se il suo cazzo ci fosse ancora piantato dentro.
Il terzo giorno si presentò a casa all’ora di cena.
Silenzioso. Sfrontato.
Aveva lo zaino, ancora. E quella fame negli occhi. Ma più calma, stavolta.
Più… predatoria.
«Non ti aspettavo.»
«Io sì.»
Non c’erano altri in casa. Nessuno a salvarmi, a fermarmi.
E nemmeno io volevo.
Mi versai un bicchiere di vino. Lo guardai da sopra il bordo, mentre lo bevevo.
«Sei venuto per fottermi di nuovo?»
«No.»
Pausa.
«Stavolta voglio sentire come scopi tu.»
Mi fece sedere sul tavolo della cucina. Mi tolse le mutande con lentezza, come si scarta un regalo.
Poi si appoggiò alla parete. Mani dietro la schiena. Cazzo già duro.
«Mostrami.»
Mi masturbai per lui.
Dita lente, poi veloci.
Due dentro. Poi tre.
Il clitoride sotto pollice.
La bocca aperta, gli occhi nei suoi.
Venni così, da sola. Davanti a lui. Sporca. Sudata. Umida.
«Ancora» disse.
Mi chinai e mi leccai le dita.
«Ora vengo io» mormorai.
Lo raggiunsi. Gli slacciai i jeans. Il cazzo balzò fuori, dritto, pulsante.
Lo presi in bocca senza dire nulla.
Lo succhiai con la rabbia di tre giorni. Con la lingua e con i denti.
Lui gemeva, si conteneva.
«Fermati o vengo» disse.
Non mi fermai.
Lo feci venire in bocca.
Ma non lo ingoiai.
Mi alzai e glielo sputai addosso, sul petto.
Poi lo guardai.
«Ora scopami. Ma tienimi per la gola.»
Lo fece.
Mi prese per il collo. Mi sollevò contro la parete e mi fece sua. Di nuovo.
Ma stavolta senza poesia.
Solo carne. Solo rabbia. Solo voglia.
E io?
Io lo presi tutto. E di più.
Dopo quella sera, non ci fu più alcuna distanza.
Non ruoli. Non pudore. Solo fame.
La casa divenne il nostro rifugio e il nostro bordello.
Scopavamo ovunque.
Senza limiti. Senza tregua. Senza pietà per i mobili, i vestiti, le regole.
Sul divano, con la testa nel cuscino e il culo in aria, mentre lui mi apriva come si apre un frutto troppo maturo.
In bagno, mentre mi lavavo i denti e lui mi si infilava dietro, nudo, sbattendomi contro lo specchio appannato.
Nella cameretta che era stata sua, ora tempio del peccato: pareti bianche e lenzuola macchiate.
Un giorno lo trovai con una cintura in mano.
«Posso?»
Annuii.
Il primo colpo mi fece urlare. Il secondo, bagnare.
Al terzo, stavo già chiedendo: «Più forte.»
Mi legava ai piedi del letto.
Mi chiudeva gli occhi. Mi faceva aspettare.
Veniva in silenzio. Mi faceva indovinare con cosa mi stesse toccando: un pennello, una candela, il manico del cucchiaio.
Poi, di colpo, il cazzo. Caldo, duro, implacabile.
Un giorno mi disse: «Ti va se ti porto un amico?»
Mi si strinse la gola. Ma annuii.
Lo aspettammo nudi.
Lui mi aprì le gambe sul tavolo della cucina e si mise a leccarmi.
Quando l’altro arrivò, mi trovò così. Sguardo perso. Figa all’aria.
Non ci fu bisogno di parole.
Fu la prima volta in due.
Uno davanti, l’altro dietro.
Le mani a tenermi ferma, la bocca tappata, il culo dilatato.
Venni tre volte.
Loro due una a testa. Dentro. Senza condom.
Mi sentii riempita, posseduta, adorata come una puttana di lusso.
Poi arrivarono i giochi con l’urina. Con il ghiaccio. Con il sapone.
Mi faceva lavare i piatti con la figa all’aria e un plug infilato.
Mi lasciava così finché non perdevo la testa.
Un giorno mi chiese: «Ti faresti scopare davanti a tuo marito?»
Non risposi.
Ma sapevo già la risposta.
Tre giorni in cui ogni goccia che scendeva tra le cosce era il ricordo di lui dentro di me.
Ogni gesto era una replica. Ogni pensiero un’eco.
Mi ero lavata. Più volte. Ma la pelle sembrava trattenere il suo odore.
Avevo il ventre gonfio e le labbra arrossate, come se il suo cazzo ci fosse ancora piantato dentro.
Il terzo giorno si presentò a casa all’ora di cena.
Silenzioso. Sfrontato.
Aveva lo zaino, ancora. E quella fame negli occhi. Ma più calma, stavolta.
Più… predatoria.
«Non ti aspettavo.»
«Io sì.»
Non c’erano altri in casa. Nessuno a salvarmi, a fermarmi.
E nemmeno io volevo.
Mi versai un bicchiere di vino. Lo guardai da sopra il bordo, mentre lo bevevo.
«Sei venuto per fottermi di nuovo?»
«No.»
Pausa.
«Stavolta voglio sentire come scopi tu.»
Mi fece sedere sul tavolo della cucina. Mi tolse le mutande con lentezza, come si scarta un regalo.
Poi si appoggiò alla parete. Mani dietro la schiena. Cazzo già duro.
«Mostrami.»
Mi masturbai per lui.
Dita lente, poi veloci.
Due dentro. Poi tre.
Il clitoride sotto pollice.
La bocca aperta, gli occhi nei suoi.
Venni così, da sola. Davanti a lui. Sporca. Sudata. Umida.
«Ancora» disse.
Mi chinai e mi leccai le dita.
«Ora vengo io» mormorai.
Lo raggiunsi. Gli slacciai i jeans. Il cazzo balzò fuori, dritto, pulsante.
Lo presi in bocca senza dire nulla.
Lo succhiai con la rabbia di tre giorni. Con la lingua e con i denti.
Lui gemeva, si conteneva.
«Fermati o vengo» disse.
Non mi fermai.
Lo feci venire in bocca.
Ma non lo ingoiai.
Mi alzai e glielo sputai addosso, sul petto.
Poi lo guardai.
«Ora scopami. Ma tienimi per la gola.»
Lo fece.
Mi prese per il collo. Mi sollevò contro la parete e mi fece sua. Di nuovo.
Ma stavolta senza poesia.
Solo carne. Solo rabbia. Solo voglia.
E io?
Io lo presi tutto. E di più.
Dopo quella sera, non ci fu più alcuna distanza.
Non ruoli. Non pudore. Solo fame.
La casa divenne il nostro rifugio e il nostro bordello.
Scopavamo ovunque.
Senza limiti. Senza tregua. Senza pietà per i mobili, i vestiti, le regole.
Sul divano, con la testa nel cuscino e il culo in aria, mentre lui mi apriva come si apre un frutto troppo maturo.
In bagno, mentre mi lavavo i denti e lui mi si infilava dietro, nudo, sbattendomi contro lo specchio appannato.
Nella cameretta che era stata sua, ora tempio del peccato: pareti bianche e lenzuola macchiate.
Un giorno lo trovai con una cintura in mano.
«Posso?»
Annuii.
Il primo colpo mi fece urlare. Il secondo, bagnare.
Al terzo, stavo già chiedendo: «Più forte.»
Mi legava ai piedi del letto.
Mi chiudeva gli occhi. Mi faceva aspettare.
Veniva in silenzio. Mi faceva indovinare con cosa mi stesse toccando: un pennello, una candela, il manico del cucchiaio.
Poi, di colpo, il cazzo. Caldo, duro, implacabile.
Un giorno mi disse: «Ti va se ti porto un amico?»
Mi si strinse la gola. Ma annuii.
Lo aspettammo nudi.
Lui mi aprì le gambe sul tavolo della cucina e si mise a leccarmi.
Quando l’altro arrivò, mi trovò così. Sguardo perso. Figa all’aria.
Non ci fu bisogno di parole.
Fu la prima volta in due.
Uno davanti, l’altro dietro.
Le mani a tenermi ferma, la bocca tappata, il culo dilatato.
Venni tre volte.
Loro due una a testa. Dentro. Senza condom.
Mi sentii riempita, posseduta, adorata come una puttana di lusso.
Poi arrivarono i giochi con l’urina. Con il ghiaccio. Con il sapone.
Mi faceva lavare i piatti con la figa all’aria e un plug infilato.
Mi lasciava così finché non perdevo la testa.
Un giorno mi chiese: «Ti faresti scopare davanti a tuo marito?»
Non risposi.
Ma sapevo già la risposta.
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