Sbranata
di
AngelicaBellaWriter
genere
dominazione
SBRANATA (VERSIONE ESTREMA)
Mi hanno detto che dentro quella porta non c’è amore.
Solo cazzi, mani, sputi e voglia di devastare.
Ho firmato per questo. Ho chiesto io di essere presa, usata, sfondata.
E ora che la porta si apre e loro entrano – dieci, dodici, non li conto – sento la figa che mi pulsa come un motore pronto a fondere.
Sono nuda, in ginocchio, con le cosce già bagnate, il culo all’aria, la bocca semiaperta.
Mi guardano come si guarda una vacca da macello.
Non parlano. Non sorridono. Si avvicinano e iniziano.
Mi sollevano da terra come una bambola. Le mani mi strappano i capezzoli, mi schiaffeggiano le tette finché diventano rosse, dure, gonfie. Mi mordono ovunque. Uno mi lecca il collo e poi mi sputa in faccia. Non protesto. Me lo spalmo sulle guance con le dita. Voglio sentirne l’odore. Voglio sporcare tutto di loro.
Le dita mi strappano la figa, la aprono a forza, entrano come coltelli caldi nel burro. Tre. Quattro. Un pugno quasi.
Uno mi infila le dita in bocca, mi usa la lingua come se fosse uno strofinaccio.
Un altro mi tiene per i capelli e mi dice piano, con voce roca:
«Ora sei niente. Sei solo un buco da riempire.»
E allora lo apro.
Mi spingo indietro. Mi metto a quattro zampe, spalanco le gambe, alzo il culo. Gli do tutto. La figa, il culo, la bocca, la gola, la pelle. La dignità.
Il primo cazzo entra senza lubrificante, se non quello che io stessa ho colato. Mi squarta. Lo sento sfondarmi le pareti interne. Spinge fino in fondo, fino a quando mi manca l’aria. Ma non mollo.
Il secondo me lo trovo in bocca. Mi ci spingono la testa sopra, mi soffocano. Mi viene da vomitare ma tengo tutto dentro. Devo. È quello che ho chiesto.
Il terzo mi si strofina sulla schiena, poi sul viso, poi sulle labbra. Aspetta il suo turno.
Quando mi ribaltano, sono una troia aperta. Le gambe allargate come una puttana in vetrina. La figa pulsante. Il culo gonfio. Il ventre contratto.
Mi scopano come se volessero scavarci dentro una stanza.
Mi spingono, mi strappano, mi affondano il cazzo dentro con odio, come se il piacere fosse una vendetta.
Vengo. Una, due, tre volte. Piangendo, gridando, tremando.
Mi pisciano addosso. Uno me lo chiede e io annuisco. Non voglio pietà. Voglio la dannazione.
Mi riempiono la bocca. Il culo. La figa.
Uno mi si siede sul petto mentre un altro mi monta il viso.
Mi affogano di sperma, di saliva, di liquidi che mi scorrono tra le cosce e lungo la gola.
Il materasso è fradicio. Il mio corpo è una rovina.
E loro continuano.
Ogni buco è aperto. Ogni centimetro segnato.
Mi vengono in faccia, negli occhi, nei capelli. Mi spingono la testa nel materasso, mi afferrano le tette come maniglie.
Ogni respiro è un gemito.
Ogni spinta è un atto di guerra.
Quando l’ultimo mi viene in bocca e mi ordina di inghiottire, lo faccio senza fiatare.
Non perché me lo chiede.
Ma perché voglio che tutto di loro resti dentro di me.
Quando mi lasciano, sono un mucchio di carne tremante.
Sporca, sfatta, svuotata.
Ma sazia.
E dentro, in fondo, lo so:
potrebbero rifarlo mille volte, e io aprirei ancora le gambe.
Ancora.
E ancora.
Mi hanno detto che dentro quella porta non c’è amore.
Solo cazzi, mani, sputi e voglia di devastare.
Ho firmato per questo. Ho chiesto io di essere presa, usata, sfondata.
E ora che la porta si apre e loro entrano – dieci, dodici, non li conto – sento la figa che mi pulsa come un motore pronto a fondere.
Sono nuda, in ginocchio, con le cosce già bagnate, il culo all’aria, la bocca semiaperta.
Mi guardano come si guarda una vacca da macello.
Non parlano. Non sorridono. Si avvicinano e iniziano.
Mi sollevano da terra come una bambola. Le mani mi strappano i capezzoli, mi schiaffeggiano le tette finché diventano rosse, dure, gonfie. Mi mordono ovunque. Uno mi lecca il collo e poi mi sputa in faccia. Non protesto. Me lo spalmo sulle guance con le dita. Voglio sentirne l’odore. Voglio sporcare tutto di loro.
Le dita mi strappano la figa, la aprono a forza, entrano come coltelli caldi nel burro. Tre. Quattro. Un pugno quasi.
Uno mi infila le dita in bocca, mi usa la lingua come se fosse uno strofinaccio.
Un altro mi tiene per i capelli e mi dice piano, con voce roca:
«Ora sei niente. Sei solo un buco da riempire.»
E allora lo apro.
Mi spingo indietro. Mi metto a quattro zampe, spalanco le gambe, alzo il culo. Gli do tutto. La figa, il culo, la bocca, la gola, la pelle. La dignità.
Il primo cazzo entra senza lubrificante, se non quello che io stessa ho colato. Mi squarta. Lo sento sfondarmi le pareti interne. Spinge fino in fondo, fino a quando mi manca l’aria. Ma non mollo.
Il secondo me lo trovo in bocca. Mi ci spingono la testa sopra, mi soffocano. Mi viene da vomitare ma tengo tutto dentro. Devo. È quello che ho chiesto.
Il terzo mi si strofina sulla schiena, poi sul viso, poi sulle labbra. Aspetta il suo turno.
Quando mi ribaltano, sono una troia aperta. Le gambe allargate come una puttana in vetrina. La figa pulsante. Il culo gonfio. Il ventre contratto.
Mi scopano come se volessero scavarci dentro una stanza.
Mi spingono, mi strappano, mi affondano il cazzo dentro con odio, come se il piacere fosse una vendetta.
Vengo. Una, due, tre volte. Piangendo, gridando, tremando.
Mi pisciano addosso. Uno me lo chiede e io annuisco. Non voglio pietà. Voglio la dannazione.
Mi riempiono la bocca. Il culo. La figa.
Uno mi si siede sul petto mentre un altro mi monta il viso.
Mi affogano di sperma, di saliva, di liquidi che mi scorrono tra le cosce e lungo la gola.
Il materasso è fradicio. Il mio corpo è una rovina.
E loro continuano.
Ogni buco è aperto. Ogni centimetro segnato.
Mi vengono in faccia, negli occhi, nei capelli. Mi spingono la testa nel materasso, mi afferrano le tette come maniglie.
Ogni respiro è un gemito.
Ogni spinta è un atto di guerra.
Quando l’ultimo mi viene in bocca e mi ordina di inghiottire, lo faccio senza fiatare.
Non perché me lo chiede.
Ma perché voglio che tutto di loro resti dentro di me.
Quando mi lasciano, sono un mucchio di carne tremante.
Sporca, sfatta, svuotata.
Ma sazia.
E dentro, in fondo, lo so:
potrebbero rifarlo mille volte, e io aprirei ancora le gambe.
Ancora.
E ancora.
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