La donna delle pulizie e il professore

di
genere
etero

Il giorno dopo, ho ancora i segni delle sue mani sulle anche. Mi fanno male i capelli dove mi ha tirata. Cammino piano, le cosce che sfregano ancora bagnate del giorno prima.
Ma non mi lamento.
Oggi tocca al professore. Un vecchio. Solo. Casa piena di libri, di odori di carta e muffa, e di qualcosa che sa di solitudine. Lo pulisco ogni giovedì. E ogni giovedì lui mi osserva da dietro le lenti, seduto sulla poltrona con la coperta sulle ginocchia e il plaid sulle gambe.
Busso. Apro. Lui è già lì. Mi aspetta. Lo sguardo è lucido, fisso. Come sempre, non saluta.
«Lascia le scarpe lì. E piegati a raccogliere il secchio.»
Lo faccio. Lentamente. So cosa vuole vedere. Il culo teso sotto la gonna, le cosce nude. Indosso solo un perizoma nero oggi. La voce roca del vecchio si rompe in gola. Lo sento.
«Hai fatto la brava ieri?» mi chiede, senza ironia.
«No, professore. Per niente.»
«Brava. Pulisci il pavimento. Ma resta in ginocchio. E fammi vedere le tette.»
Mi tolgo il grembiule, sbottono la camicia. Le tette escono, nude, dure. Il pavimento è freddo sotto le ginocchia, ma ci scivolo sopra come una bestia addestrata. Strofinando. Offrendomi. Ogni gesto ha un secondo fine.
Lui apre le gambe sotto la coperta. Un fruscio. Un respiro più pesante. Ha il cazzo in mano. Lo accarezza piano, con dita da vecchio. Non è duro. Non ancora.
«Vieni più vicino» mi ordina. «E guarda.»
Mi avvicino. Il suo cazzo è rugoso, vecchio, ma pulsa piano. Lo guarda come fosse un animale sacro. Io lo fisso. La bocca mi si apre. Non perché lo desideri, ma perché lo merito.
«Lo vuoi in bocca?»
«Sì, professore. Lo voglio.»
«Dimmelo meglio. Come una puttana.»
«Voglio succhiarle il cazzo. Voglio sentirmelo in gola. Voglio che mi scopi la bocca finché non mi lacrimano gli occhi.»
Lui geme. Tira indietro la coperta. Il cazzo è molle, ma lui se lo sbatte sulla pancia con rabbia. Gli occhi gli brillano.
«Allora fallo. E non smettere finché non vengo. Voglio riempirti tutta.»
Mi avvicino. Mi inginocchio tra le sue gambe. Gli afferro quel cazzo morbido, lo massaggio, lo prendo tra le labbra. Lo faccio rinascere, lo sento crescere dentro la mia bocca. Lo lecco piano, lo venero. Lui mugugna, si lamenta, mi tira i capelli.
«Più forte. Più in fondo. Voglio che soffochi.»
Mi affonda la testa con la mano. Il cazzo ora è duro, vivo. Me lo sbatte in gola. Io salivo. Gola aperta, occhi pieni di lacrime. Ma non mollo. Lo succhio come se dovessi vivere di quello. Le tette che sfregano sulle sue ginocchia, la lingua che gli accarezza ogni vena.
«Sporca troia. Ti piace il cazzo vecchio?»
«Sì, professore. Mi piace il suo cazzo. È il mio pranzo.»
Lui ride. Una risata secca, quasi senza denti. Poi geme. Più forte. Tre colpi in gola. Viene. Mi riempie tutta. Sborra calda, lenta, amara. Non lascio cadere nulla. Ingoio tutto. Mi lecco anche le labbra. Come una brava puttana.
Lui resta lì, immobile. Ansimante. Mi guarda come se fossi un miracolo.
«Ora vai in bagno. Pulisciti. Poi torna. Voglio vederti strisciare nuda tra i miei libri.»
Mi alzo. Le gambe tremano. Vado in bagno. Lascio dietro di me una scia di saliva e sperma, come una chioccia marcia e felice. Mi lavo alla buona. Non mi rivesto. Quando torno in salotto, lui è in piedi. Nudo. Il corpo molle, ma gli occhi accesi.
Mi fa inginocchiare. Mi mette in mano un vecchio volume rilegato in pelle.
«Leggilo. A voce alta. Ma con le gambe aperte. E mentre leggi… toccati.»
Apro il libro. Leggo parole che non capisco. Lui guarda la mia mano infilarsi tra le labbra gonfie. Sento il pavimento che mi chiama. Sto per venire. E il professore sorride, mentre si sputa sulle dita. E torna a giocare col mio culo.
Il professore è ancora nudo, il cazzo floscio che pende tra le cosce come un animale stanco. Ma gli occhi no. Gli occhi brillano.
«Voglio scoparti» dice, ansimando. «Ma mi serve tempo. Sto invecchiando.»
Mi avvicino, le dita ancora umide. Gli prendo il viso, lo guardo dritto. «Ho qualcosa che può aiutarla.»
Lui mi fissa, incuriosito. «Una pasticca?»
Annuisco. Apro la borsetta, tiro fuori una piccola scatolina rossa. Ne prendo una, gliela porgo. «La farà diventare una bestia, professore. Promesso.»
La prende. La mette in bocca senza neanche guardare. La ingoia a secco. Gli si ferma in gola, tossisce. Poi ride. «Se mi ammazza, muoio felice.»
«Non morirà. Ma mi scoperà come non ha mai fatto.»
Lo prendo per mano. Lo accompagno in camera. Il letto è enorme, sfatto, coperto di libri e di polvere. Sposto tutto con un gesto secco. Lo faccio sedere. Mi spoglio davanti a lui. Lentamente. Le tette nude, le cosce aperte. Mi sfilo le mutandine e gliele lancio in faccia. Le prende, le annusa, ci infila il naso dentro.
«Odore di troia fresca» sussurra.
Salgo sul letto, lo faccio sdraiare. Lo accarezzo ovunque. La pelle è molle, segnata, ma lui freme sotto le dita. Gli bacio il petto, il ventre, le cosce. Il cazzo comincia a gonfiarsi. Lentamente. Lo guardo risorgere, pulsare.
«Ci siamo» dico.
È duro. Grosso. Caldo. Sembra un’altra cosa rispetto a prima. Un bastone d’osso e sangue.
Mi metto sopra di lui. Lo guido dentro. Mi siedo lentamente. Sento tutto. Ogni centimetro. È profondo. Vivo. Mi tende le pareti.
Il vecchio spalanca la bocca. Un gemito lungo. Gli si piegano le dita sulle mie anche.
«Cristo…» sussurra.
Io comincio a cavalcare. Piano. Poi più forte. Mi aggrappo al suo petto, le unghie gli graffiano la pelle flaccida. Mi alzo e scendo, il cazzo che mi riempie come se volesse spaccarmi in due.
«Guardi, professore. Guardi che troia è diventata la sua donna delle pulizie.»
Lui mi guarda, senza fiato. Poi mi prende le tette, me le strizza, ci affonda la faccia come se volesse soffocare lì dentro. Io rido. Mi muovo più forte. Gli sbatto addosso con il culo. Ogni colpo è uno schiaffo, ogni affondo uno sputo sul decoro.
«Non si fermi… me lo faccia sentire in gola… da sotto…»
«Vai, puttana. Prenditelo tutto… fino alla fine.»
E lo faccio. Gli stringo il cazzo con le pareti. Sento il suo respiro farsi corto. Le gambe gli tremano. Gli occhi gli si rovesciano.
«Professore… venga dentro… riempia questa troia.»
Urla. Viene. Lo sento esplodere dentro. Uno, due, tre spasmi. Poi crolla. Resta fermo, il cazzo ancora dentro, il corpo sudato, tremante.
Io non mi muovo. Resto lì. Con lui ancora dentro. Il seme caldo che inizia a colare. Lo guardo.
«Le è piaciuto?» gli chiedo, passando le dita sulla sua bocca.
«Voglio morire così.»
«Non ancora. Oggi è solo giovedì.»
Resto sopra di lui. Il cazzo ancora dentro, duro. Sento il suo seme che cola lento, caldo, ma quella cosa lì non accenna a calare. Gli occhi del professore mi guardano spersi, in trance, ma il cazzo… è ancora bello vivo. E gonfio.
«Professore… la pasticca funziona.»
Sorrido. Mi sollevo piano. Lo sento uscire dalla figa con uno slosh bagnato. Lo guardo. Lucido, sporco, ancora dritto come un bastone di comando. Lo prendo con una mano, me lo massaggio tra le chiappe.
«Ora tocca al culo.»
Lui non dice nulla. Ha la bocca aperta, un filo di bava sul mento. Ma non protesta. Sa che sto per usarlo.
Mi sputo due volte sulla mano. Porto il dito dietro. Mi preparo. Sono abituata, ma lo voglio sentire bene. Quando sono pronta, prendo il suo cazzo e lo appoggio lì. Sento il calore. La pressione. Lo guido con due dita. E poi, lentamente… mi impalo.
Il suo cazzo entra nel mio culo come una lancia. Brucia. Spinge. Mi apre. Grondo sudore. Ma non mi fermo. Lo voglio tutto dentro. Lo prendo. Lo ingoio con le viscere.
«Cristo…» mugugna lui.
«Le piace, professore? Il culo stretto della sua troia?»
«Sì… sì… porca… che culo diavolo…»
Mi muovo. Su e giù. Mi impalo sul suo cazzo vecchio ma ancora tosto. Lo sento spingermi dentro l’anima. Mi piego in avanti, le mani sul suo petto, le tette che gli sbattono in faccia. Lo cavalco con rabbia, con fame.
«Scopami il culo… fammi sentire che ci sei ancora vivo… fammelo uscire dalla gola!»
Lui ringhia, mi afferra i fianchi, cerca di spingere da sotto, ma non ce la fa. È mio. Sono io che lo scopo. Io che lo uso. Gli do il ritmo. Gli faccio sentire quanto può essere devastante una puttana vera.
Il cazzo dentro mi fa tremare. Ogni spinta è un dolore dolce, un colpo alla dignità. Ma io non ho vergogna. Ho bisogno.
«Voglio che mi venga nel culo, vecchio. Voglio sentirmelo colare giù per le cosce.»
«Sì… sì… troia mia…»
Lui geme, si piega, si tende. E poi viene di nuovo. Uno schizzo più debole, ma sentito. Il cazzo pulsa ancora mentre lo tengo stretto con l’ano. Mi siedo tutta, me lo schiaccio dentro, come se volessi farlo scomparire.
Resto ferma. Mi guardo allo specchio sopra la testiera del letto. Sembro un demone nudo, i capelli scompigliati, gli occhi accesi, le tette sporche del suo sudore. Il culo ancora pieno del suo cazzo ormai stanco.
«Domani torno, professore. Ma mi voglio scopare anche la sua lingua.»
Lui annuisce, senza parole. Con un sorriso che sa di resa.
scritto il
2025-05-24
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